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Orizzonti di gloria. La democrazia sulle ali dei Tornado

Pubblichiamo anche questo interessante contributo di Sandro Mezzadra (Uninomade 2.0) sull’intervento militare euro-americano in Libia.

Pur sentendo la necessità di una maggiore prudenza sulla natura e la stratificazione delle forze insorgenti libiche – rispecchiata dal dibattito in corso e dalle differenti sfumature presenti nei nostri stessi editoriali – segnaliamo in questo scritto alcuni punti di forza.

Innanzitutto lo scenario geo-politico complessivo in cui s’inserisce il nuovo “intervento umanitario”, caratterizzato non dalla sicurezza quanto dal disorientamento dell’iniziativa statunitense, superpotenza in effettivo declino. In seconda battuta – per noi, il vero punto fondamentale – per come viene letta la necessità interventista come urgenza di riposizionare l’iniziativa statual-militare dentro processi nati dal basso, nei bisogni di trasformazione del proletariato arabo. Come dire: queste insurrezioni fanno problema soprattutto per le potenze (che sentono infatti l’esigenza di intervenire  e condizionare dall’alto), non per noi.

In seconda battuta perché si cerca di affermare un punto di vista parziale e situato, sfuggente alla dicotomia pro- o contro- Gheddafi, puntando invece sempre lo sguardo sui movimenti soggettivi. Individuando come necessità politica ineludibile un rapporto diretto di scambio, confronto e reciproco aiuto con i/le protagonisti/e della primavera araba. Ipotesi su cui si sta lavorando.

(red. Infoaut-TO)

1. Gli editoriali domenicali di Eugenio Scalfari su Repubblica possono piacere o non piacere, a seconda dei temi e delle domeniche si può essere d’accordo con lui oppure no. Di solito, tuttavia, sono articoli assai ben scritti e meditati, soprattutto molto controllati. Quello del 20 marzo cambia decisamente passo. Già colpisce l’affermazione che “il Mediterraneo è stato per millenni il centro del mondo atlantico”, ma lasciamo perdere. Le domande da porsi oggi, mentre le operazioni militari sulla Libia sono cominciate, sono talmente impegnative da giustificare qualche svista. Si chiede ad esempio Scalfari: «bisogna mantenere l’unità della Libia o prendere atto che quell’unità è un’invenzione perché Tripolitania e Cirenaica sono realtà diverse dal punto di vista storico, tribale, religioso e la loro fittizia unità è stata imposta dal colonialismo italiano prima e dalla dittatura di Gheddafi poi?».

Appena celebrata, con grande dispendio di mezzi e di retorica, la non fittizia unità (storica, tribale, religiosa) tra Trapani e Varese, Catanzaro e Treviso, siamo già pronti a discettare su quella altrui? Per fortuna ci sono cose su cui non sono necessarie domande. E tuttavia l’incedere quasi larussiano della prosa del fondatore di Repubblica («si possono, anzi si debbono bombardare gli aeroporti, abbattere i caccia se si alzeranno o distruggerli a terra, smantellare gli impianti di comunicazione, colpire le truppe se non si ritireranno nelle caserme») lascia spazio all’obiezione: «il mandato dell’Onu non può violare la sovranità di uno Stato che tra l’altro non ha invaso nessun altro paese». La replica è ancora affidata da Scalfari alla storia, e qui non è questione né di secoli né di millenni: «Saddam Hussein aveva invaso il Kuwait però si ritirò subito dopo l’ingiunzione internazionale, ma l’armata di Bush in nome dell’Onu lo inseguì fino a Baghdad, lo processò e lo giustiziò».

Che dire? Un paio di cose, almeno. La prima è che la patria è davvero, come diceva il dottor Johnson e ripeteva Kirk Douglas in Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick, l’ultimo rifugio dei farabutti – al punto che anche le persone oneste, se la frequentano troppo, rischiano di esser fuorviate dalle cattive compagnie. Quando poi la patria si presenta in armi, con o senza le coccarde, la sua chiamata per gli adepti è irresistibile, ci si emoziona e si finisce con il fare brutte figure. Per fortuna, nel tripudio e nell’eccitazione generali, si può sperare che nessuno se ne accorga. La seconda è che comunque Scalfari è “uomo d’onore”, di questo non dubito. Le sue strane amnesie, allora, possono rivestire un valore sintomatico, e ci parlano della confusione mentale in cui – di fronte a quanto accade in Libia – sembrano precipitati in molti e molte (non il PD, è vero, abituato a dividersi solo sulle cose che contano poco – da Marchionne alla precarietà, dai diritti civili all’università –, non certo quando in gioco ci sono gli “interessi nazionali”): anche compagni e compagne a noi vicini. Non dobbiamo forse rallegrarci, ci si domanda, che i raid occidentali stiano bloccando l’avanzata di Gheddafi su Bengasi, risparmiando vite umane e dando finalmente una mano ai ribelli, protagonisti libici di una stagione entusiasmante di insorgenza e di protagonismo democratico nel Maghreb e nell’intero Medio Oriente? E poi si ripete, da sponde da noi più distanti: non è mica come in Yugoslavia (1999), in Afghanistan (2001) e in Iraq (2003), qui c’è una risoluzione dell’Onu, una coalizione “multilaterale”… Ci sono guerre e guerre, in fondo. È una posizione che, come spesso accade, ha i suoi estremisti. Giorgio Napolitano, la figura che, per citare ancora l’editoriale di Scalfari, «ha acquistato uno spessore etico e politico che ne fa il punto di riferimento di tutto il paese», ci ha addirittura spiegato che (parole sue) «non siamo entrati in guerra, siamo impegnati in un’azione autorizzata dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite». Fortunatamente, io la guerra l’ho vista solo al cinema: dev’essere per questo che, guardando le immagini in rete e in TV, avevo pensato che ci fosse una guerra nel Mediterraneo.

2. Sarà bene abbandonare il registro dell’ironia, che sarebbe davvero troppo facile estendere agli altri protagonisti italici del dramma di questi giorni, in particolare sul fronte governativo: dall’accigliato Frattini, già accanito difensor di tiranni (chi ha dimenticato il fiero sostegno a Ben Ali ancora poche ore prima della fuga del dittatore tunisino?), al grottesco La Russa, che vuole “contare”, avendo forse preso per coerenza con la storia nazionale la giravolta nei rapporti con il regime libico; dal Berlusconi che, pensandolo forse impegnato in un giro di bunga bunga, non voleva disturbare Gheddafi all’ottimo Maroni, che ha trasformato Lampedusa in un campo di concentramento a cielo aperto pur di non turbare l’operosa prosperità di altre regioni italiane, su cui magari incombono scadenze elettorali.

È piuttosto il caso di provare ad abbozzare qualche elemento di analisi, necessariamente provvisorio, di quanto sta avvenendo poco più a sud delle coste siciliane. Con un’osservazione preliminare, che dovrebbe risultare superflua ma forse non lo è. C’è una differenza, diceva Hegel, tra le cose note e le cose conosciute: ci sono anzi cose talmente note che conoscerle diventa quasi impossibile. Tra queste cose note (che non per questo sono false, ovviamente) c’è l’affermazione secondo cui quanto accade in Libia è molto diverso da quanto è accaduto (e continua ad accadere) in Tunisia, in Egitto etc. Riprendendo il filo di un ragionamento svolto in questo sito da Miguel Mellino (Buenos Aires 2001-Tunisi 2011, la fine di una lunga notte in 10 anni), vorrei far notare che l’uso dilagante, in riferimento alla Libia, del termine “tribale” è uno dei dispositivi retorici che più contribuiscono a consolidare la “notorietà” di questa circostanza e a inibirne la “conoscenza”. Sentiamo la parola e vediamo il deserto e le montagne, immaginiamo beduini dal respiro millenario e sentiamo pure (anche se sappiamo che nel deserto non c’è) i profumi della foresta.

Ma tant’è: per quanto diversa possa essere la situazione libica, nel Maghreb che le rivolte e le lotte di queste settimane ci hanno insegnato a sognare non c’è posto per Gheddafi e per il suo libro verde, per la sua ferocia e per il suo folclore. Gheddafi ha avuto a suo tempo un rapporto (più o meno strumentale) con la grande stagione delle lotte anti-coloniali? Ha flirtato con il socialismo, con il panarabismo e con il panafricanismo? Ha distribuito la rendita petrolifera in modo più egualitario di altri despoti della regione? Non ci interessa. Per noi è l’uomo che ha imprigionato migliaia di oppositori, che ne ha fatto strage, che ha aperto – su mandato e con finanziamenti italiani – i campi di concentramento dove uomini e donne provenienti dall’Africa subahriana sono stati percossi e uccisi, stuprati e umiliati. Qualcuno dice che non si sa bene chi siano e che cosa vogliano questi ribelli di Bengasi. Neppure questo ci interessa. Sappiamo che non potranno essere peggio di Gheddafi, si sono sollevati contro un tiranno e questo ci basta. Stiamo dalla loro parte, senza se e senza ma.

3. Data per scontata la circostanza che quanto accade in Libia presenta tratti peculiari, la cornice regionale, se si vuole comprendere questa circostanza, non può che essere tuttavia quella decisiva. E ciò vale naturalmente tanto per le dinamiche della rivolta quanto per la reazione delle potenze che in queste ore stanno bombardando Tripoli. Proviamo a considerare questa reazione assumendo come punti d’osservazione lo Yemen, dove venerdì scorso la repressione del governo (appena dimessosi su iniziativa del Presidente) ha fatto almeno cinquantadue vittime, e il Bahrein, dove il locale monarca ha richiesto l’intervento delle truppe saudite per imporre la legge marziale di fronte al crescere delle proteste. Ora, il punto non è rimproverare, secondo modalità consuete, il doppio standard adottato dagli Stati Uniti (che hanno tra l’altro in Bahrein il comando della Quinta flotta), dalle altre potenze occidentali e dalla stessa Onu: a rimproverarlo ci penseranno semmai le moltitudini in movimento in quei paesi e nell’intera regione. Per quanto ci riguarda, guardare a quanto sta avvenendo in Libia dalla prospettiva offerta dallo Yemen e dal Bahrein ha un significato diverso: ci consente appunto, come detto, di collocare nello scenario regionale le stesse operazioni di guerra in atto sulla Libia in queste ore.

È difficile a questo proposito sottrarsi all’impressione che alcuni paesi (la Gran Bretagna e la Francia, a cui si è accodata l’Italia) abbiano per così dire forzato la mano, interpretando in modo estensivo la stessa risoluzione dell’Onu e alzando il livello della forza militare impiegata nell’intervento. Le reazioni molto dure della Cina, dell’India e soprattutto della Russia, la grande cautela della Germania, il rifiuto dell’Unione Africana di partecipare al vertice di Parigi e le critiche della Lega araba ai bombardamenti autorizzano un’ipotesi di questo genere. Si tratta allora di comprendere qual è il significato di questa mossa, e quale ruolo stanno giocando gli Stati Uniti di Obama.

A quest’ultimo proposito, non può essere sfuggito a chi abbia seguito l’evolversi della situazione in Medio Oriente attraverso i giornali statunitensi come molti commentatori abbiano fin da principio collocato gli eventi nella cornice del “declino americano”. Non mette conto qui discutere le ambiguità di questa formula: più importante è sottolineare la lucidità e la consapevolezza delle analisi che già di fronte all’insorgenza tunisina ponevano l’accento sui “limiti del potere americano” dopo la sconfitta dell’unilateralismo di Bush il giovane in Afghanistan e in Iraq – nonché nel pieno della crisi finanziaria ed economica globale. L’ipotesi, tutta da verificare ovviamente, che ci sentiamo di avanzare è che il ruolo pur sempre preponderante dal punto di vista militare (è d’altronde questo l’unico terreno su cui l’egemonia americana non sia stata scalfita) ma politicamente più defilato degli Stati Uniti nella guerra contro Gheddafi corrisponda proprio a un tentativo (diciamolo subito: il peggiore immaginabile) di gestione dei “limiti del potere americano”. In due parole: consolidare le posizioni nel Golfo e fare largo al rinnovato protagonismo sulla sponda sud del Mediterraneo di potenze europee come la Francia e la Gran Bretagna (ma potrà ritagliarsi un ruolo perfino l’Italia, soprattutto se riuscirà a dotarsi di un governo meno grottesco e più “responsabile” – e il riferimento non è qui a Scilipoti). Il tutto in una cornice di complessiva ridefinizione (e riassicurazione) del governo dei flussi di gas e petrolio (il cui rilievo è divenuto improvvisamente ancora più strategico con l’apocalisse nucleare giapponese), dei flussi migratori dalla regione e dall’Africa sub-sahariana (variabile decisiva, su cui l’Europa ha già dato abbondante prova del dispotismo che segna di sé la “democrazia” che ora si vorrebbe esportare sulle ali dei Tornado) e delle popolazioni indigene.

4. Se le cose stessero realmente così, le conseguenze mi sembrerebbero evidenti. Dal punto di vista degli Stati Uniti, l’opzione di Obama sarebbe appunto quella per lo scenario più regressivo di uscita dalla crisi dell’unilateralismo: un estremo tentativo di riesumare l’Occidente guerriero in funzione di contenimento delle nuove potenze emergenti. C’era un’alternativa ai bombardamenti? Sì, c’era, e passava prima di tutto per il coinvolgimento di queste nuove potenze, in particolare di quelle prive di responsabilità storiche dirette nella regione: dal Brasile al Sud Africa, per fare due esempi, non sarebbero mancati gli interlocutori per costruire tempestivamente una vera ed efficace pressione diplomatica su Gheddafi. Se le cose stessero invece come temo, sull’area mediorientale si proietterebbero fantasmi prettamente neo-coloniali: il centenario della guerra libica italiana, quella che fece fremere d’ardore D’Annunzio, Pascoli e Marinetti, acquisterebbe in questo senso un macabro significato simbolico, mentre sarebbe difficile non vedere nel protagonismo franco-britannico la ricerca del riscatto per lo smacco di Suez del 1956.

Dal punto di vista dei movimenti, delle lotte e delle rivolte che hanno incendiato il Maghreb e il Medio Oriente, sarebbe poi soprattutto evidente che quel che si configura è un’ipotesi di intervento occidentale di scala regionale, rivolta in primo luogo contro il desiderio di libertà e uguaglianza che ha portato milioni di donne e uomini, giovani e meno giovani, poveri e impoveriti, acculturati e analfabeti a sfidare regimi corrotti e dispotici: un’ipotesi di contenimento di quel desiderio di uguaglianza e libertà, di violento disciplinamento di tutto ciò che eccede la sua traduzione nei codici politici e giuridici dell’ordine mercantile e nelle forme tanto consolidate quanto logore della democrazia liberale di stampo “occidentale”, sotto il dominio della proprietà privata e del capitale finanziario. Se così fosse – e temo che così sia – ce ne sarebbe a sufficienza per mobilitarsi contro la guerra, senza se e senza ma. Ma a differenza di quel che è accaduto in occasione delle mobilitazioni contro le guerre in Afghanistan e in Iraq, oggi abbiamo formidabili interlocutori e sponde nelle terre in cui si combatte: i milioni di donne e uomini con cui ci siamo identificati in questi straordinari mesi di lotte e di rivolte. Consolidare i rapporti con i movimenti di lotta al di là del Mediterraneo è il primo compito per chi voglia davvero organizzare la diserzione di massa dalla guerra anche nei nostri territori.

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