Putin, la Libia e i migranti
Si è conclusa da poco la visita di Putin nella capitale, lo zar ha incontrato il presidente del consiglio Conte, il presidentissimo Mattarella e il Papa.
Sui giornali nostrani la visita ha il solito carattere sensazionalistico, con tanto di articoli e maxi inquadrature sui mitra dei Gis, che scortavano il corteo presidenziale in giro per un centro romano blindato e leggermente ripulito dalla spazzatura che attanaglia l’estate romana. Giornalisti e media mainstream, attraverso le dichiarazioni dei protagonisti dell’incontro, dipingono un quadro che vorrebbe rappresentare una normalità di rapporti diplomatico-economici con la Russia, quasi a riparare un’immagine guastata nei precedenti mesi di governo giallo-verde.
Il tentativo di Putin è quello di cercare una riconferma della sponda italiana per premere sul fronte Nato, per un alleviamento delle sanzioni, riconfermare le posizioni comuni con la Chiesa rispetto a Siria e Medioriente, stipulare qualche, tutto sommato piccolo, accordo economico tra il Fondo d’investimento russo e Cassa depositi e prestiti e riconfermare altri accordi commerciali come quello con Anas. Un tentativo, quello russo, che porta a casa risultati abbastanza magri e che riconferma il cambio di fronte del governo italiano e in particolare di Salvini sul versante filo atlantico, tra l’altro il mediatico Capitone si tiene ben lontano dal essere tirato in mezzo nell’incontro e lascia che tutto ricada su Conte, alimentando la contraddizione interna alla lega (nord) sul tema sanzioni e affari con la federazione russa.
Negli stessi giorni ritorna centrale la guerra in Libia, prima con la strage di migranti del centro di detenzione di Tajoura da parte del generale Haftar, poi con la minaccia di Serraj (alleato italiano in nel quadrante di Tripoli) di aprire tutti i centri di detenzione per migranti (veri e propri campi di concentramento) per lasciarli solcare il Mediterraneo e arrivare in Italia. Nonostante il massacri di Tajoura, Trump ha, su pressione dell’Egitto di Al Sisi, confermato il suo sostegno aperto ad Haftar. Ciò ha creato una spaccatura con i falchi della Casa Bianca, che avrebbero preferito almeno pubblicamente, attraverso la dichiarazione Onu, bloccata dagli Usa, dissociarsi dalla carneficina di migranti, tra l’altro, probabilmente compiuta con cannoni americani ceduti al generale dall’alleato emiratino. La difficile situazione di Tripoli sul campo e l’avanzata delle truppe di Misurata spinge Serraj a far pressioni sull’Italia, affinché si adoperi per salvare il governo fantoccio, ricordando che la tutela degli interessi italiani non è né gratuita né scontata. Difficile capire, anche se appare probabile, se dietro questo tentativo, più disperato che audace, si celino gli interessi e le pressioni della Turchia e del Quatar (con il quale l’Italia condivide commesse milionarie in armamenti). Nel mentre la Francia resta a guardare, se non a fomentare, la possibilità che esploda una crisi profughi sul governo italiano, da poterla usare sia come arma di pressione nella contrattazione sul deficit, che per aumentare la propria influenza in Libia e incrementare i progetti imperialisti di Macron.
Una possibilità, quella di una crisi umanitaria, che creerebbe grossi problematiche alla gestione mediatica del pugno duro del Capitone Salvini, alimentando contemporaneamente la crisi del 5stelle assolutamente incapace di affrontare il tema. È chiaro che ad essere garantiti sarebbero in questo caso gli interessi della Germania di Merkel nell’indebolire il governo e di riflesso, sollevare la contraddizione nell’avvicinamento Salvini-Trump, almeno sul dossier libico. In questo, il cambio di posizione di Salvini sull’asse con la Russia e la sua svolta atlantista (da noi analizzata qui), inizia a delineare come l’investitura Usa al ministro dell’Interno, si possa concretizzare come rientro nei ranghi atlantici del governo pentaleghista senza una ricompensa adeguata. Tutta la partita si gioca sulla pelle dei migranti, usati come “arma” di pressione su entrambe le sponde del Mediterraneo, che prima sono imprigionati nei lager libici, fatti costruire dal governo italiano ai bei tempi di Minniti, e poi costretti ad affrontare la rotta più migratoria più pericolosa del mondo.
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