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Pastorale emiliana

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Ripubblichiamo questo bel testo di Giovanni Iozzoli, pubblicato originariamente su Carmilla, che descrive in maniera accurata quanto accade nella provincia modenese in merito al settore delle carni, pezzo fondamentale dell’economia locale attraversato negli ultimi anni da forti mobilitazioni guidate soprattutto dagli iscritti al sindacato SI Cobas. Vengono descritti gli attori in gioco, le mobilitazioni, le azioni della controparte in un quadro da integrare con la lettura di “Carne da Macello“, libro edito da RedStarPress che analizza le stesse questioni dando voce ai protagonisti delle lotte.

Da qualche tempo si è riacceso il conflitto nel comparto carni modenese. O meglio: riemerge la situazione di cronico malessere che cova da almeno due decenni sotto le ceneri, sbottando rabbia e mobilitazione. Quando parliamo di questo territorio – l’angolo di provincia compreso tra Castelnuovo, Castelvetro, Spilamberto, Vignola – stiamo parlando di un pezzo importante del Pil italiano, circa tre miliardi di euro, realizzati da 179 aziende, 5000 addetti, con 8 milioni di quintali all’anno di carni fresche lavorate e salumi: una macchina produttiva potente che importa dagli allevamenti del nord Europa 200 camion di suini macellati ogni giorno – la materia prima che, lavorata in loco, rifornirà tutti i grandi marchi nazionali ed esteri.

Il monoteismo del prosciutto regna sovrano, in questi luoghi; tra i miasmi degli stabilimenti aleggia un vago sentore calvinista – impresa e denaro come manifestazioni della benevolenza divina. Un maialino bronzeo troneggia nella piazza centrale di Castelnuovo Rangone – omaggio a se stessa, di una comunità sobria, laboriosa e danarosa, che vede il suino come metafora della vita.

Quello che è successo, negli ultimi vent’anni in questo comparto, è la nota accelerazione globale di mercati, merci e processi produttivi, che si è abbattuta drasticamente su un distretto che un tempo si sentiva vincente per qualità e specializzazione: concorrenza sempre più feroce, prezzi al ribasso, qualità a picco e pressione sempre più distruttiva sul lavoro vivo. Appalti, sub appalti, spezzettamenti, la filiera che si slabbra e si allunga come un verme. Migliaia di lavoratori, principalmente stranieri, collocati nei gironi via via più degradanti del lavoro in appalto, tra cooperative spurie, terziarizzazioni, consorzi fittizi creati dalle stesse imprese appaltatrici – ovviamente nei segmenti produttivi dove regnano fatica, nocività, rischio per la salute. Insaccati, polpettoni, prodotti precotti e surgelati di ogni ordine e grado: tutto passa dalle mani di queste migliaia di pseudofacchiniquasialimentaristi, dalla salute spesso compromessa – abbondano problemi muscolo scheletrici, polmoniti, ferite da taglio, perché qui le lavorazioni più essenziali si fanno ancora di gomito e coltello.

Ma quella del distretto carni non è la solita minestra avvelenata del panorama italiano – cooperative che non sono cooperative, facchini che non sono facchini, contratti che non sono contratti. Non è solo una storia di appalti fasulli, elusione fiscale e capannoni della logistica persi nelle nebbie brumose della campagna padana. No, qui si sta parlando di un palcoscenico rinomato, dove va in scena ogni giorno la farsa dell’eccellenza agroalimentare italiana: un concentrato di bugie, affarismo, arroganza e retorica tricolore – straprovinciale e global, allo stesso tempo.

Il distretto carni rappresenta la vetrina delle scelleratezze italiane degli ultimi due decenni, un esempio della svalorizzazione del lavoro, della mortificazione operaia. E delle viltà, delle complicità, della subordinazione della politica e del sindacato, della retorica del primato dell’impresa come valore unanimemente condiviso. Perché questi territori, nell’immaginario, amano rappresentarsi come i luoghi dell’eccellenza alimentare, il richiamo ancestrale e fasullo alla terra, alla genuinità della tradizione, al mangiar sano, al mulino bianco e al vivere comunitario.

Tutta fuffa, tutto marketing. In questo comparto (come ovunque) la risorsa essenziale non è la genialità imprenditoriale o il retaggio di mestiere: il fattore chiave è il lavoro vivo, le braccia, l’intelligenza e la disperata disponibilità indotta dalla miseria. Si, la miseria, la vecchia, cara indispensabile miseria, altro che eccellenze: perché solo la miseria può indurre migliaia di nuovi schiavi a rinchiudersi in capannoni e celle frigorifere a rifilare, disossare, tagliare – ballando, a salario pieno, intorno alla soglia di povertà. La miseria è il miglior motivatore professionale, la leva perenne di ogni intrapresa economica. Industria 4.0? Da queste parti si preferiscono ingredienti antichi e tradizionali: sfruttamento, gerarchia, ricatto e sottomissione. Un tempo, per i locali, l’industria norcina fu davvero elemento di elevazione sociale: macelli, laboratori e fabbriche furono tra i templi del compromesso sociale emiliano. Oggi non c’è tempo per favole rassicuranti. Sei euro lorde all’ora, una settimana a casa l’altra lavorare 60 ore – anche 12 ore filate, fino a pisciarsi addosso o mangiare in piedi come i cavalli. E a ogni cambio appalto si sfoltiscono i ranghi dei sindacalizzati e dei riluttanti.

È una storia di pervicace illegalità, quella del distretto carni. Un morto ammazzato nel 2001 (fanno capolino anche i soliti servizi segreti), pestaggi, minacce, auto bruciate, criminali di ogni risma che attraversano la vita, e spesso i cancelli, di aziende prestigiose. Una pastorale emiliana (e segnatamente modenese) dove molti attori diversi continuano immutabilmente a cantare la loro parte – incassando milioni o sputando sangue -, comunque seguendo una partitura criminale efficace, per quanto tremendamente precaria. Il giorno che qualcuno si decidesse ad applicare (almeno un po’) le leggi della Repubblica, il mito dell’eccellenza agroalimentare italiana crollerebbe miseramente – e questo vale per tutta la cigolante catena nazionale, dai raccoglitori di pomodori del foggiano a questi strani facchini ghanesi, cinesi, filippini e albanesi, le cui mani callose (senza retorica) custodiscono il buon nome e la credibilità del marchio made in Italy che finisce sulle tavole di mezzo mondo. E allora, vediamoli, i protagonisti di questa moderna pastorale di provincia.

I PADRONI
Qualcuno è di nobile schiatta imprenditoriale, qualcuno è diventato un global player, qualcuno è un artigiano arricchito, qualcuno ha la mentalità truce del macellaio che sorveglia il negozio: tutti devono correre al ritmo spietato della concorrenza, che significa spremere lavoro e abbassare costi, pretese e qualità. Negli anni 90 hanno venduto tutti l’anima al diavolo, anche se oggi si ostinano a firmare protocolli etici. Aumentare i margini intensificando lo sfruttamento, è l’unica arma rimastagli. Sanno fidelizzare la gente, pagando in nero gli accoliti per scagliarli contro i lavoratori in appalto. Pagano anche giornalisti, pubblici funzionari, eserciti di consulenti, finanziano iniziative pubbliche, civiche, sportive, foraggiano sindaci costantemente distratti, rispetto alle brutture sociali che amministrano. Non sono mai stati soli, nella continua opera di evasione, elusione, violazione di norme e contratti. Queste pratiche non sono invenzione estemporanea di qualche imprenditore spregiudicato: mamma Confindustria veglia su tutti loro e non si è mai dissociata da nessuno dei suoi prosciuttai.

LE CENTRALI COOPERATIVE
Prendono le distanze dal sottobosco malavitoso, per tutelare il buon nome della “vera cooperazione”. Ma se il termine cooperativa è diventata una parolaccia è anche colpa loro, delle loro omissioni e complicità. Del resto i grandi gruppi cooperativi ufficiali hanno da tempo “marchionnizzato” le loro relazioni interne e i rapporti sindacali. Le cooperative spurie sono solo il bordo sfrangiato e impresentabile di un mondo geneticamente modificato, che comincia già dietro i banconi della Coop. Non è un caso che il Ministro del Lavoro nell’epoca del Jobs Act, venga da quella giungla.

LE COOPERATIVE SPURIE
Le mafie hanno scoperto questo mondo negli anni 90 e se ne sono innamorate. Costruire aziende cooperative, riciclare, vincere finti appalti, infilare al lavoro i picciotti in semilibertà. E finalmente entrare a testa alta, senza estorsioni, dentro i circuiti ufficiali del settore, insediarsi legittimamente in territori floridi, sottraendosi ai capricci mutevoli del ciclo dell’edilizia. Una volta i gruppi dirigenti di queste cooperative erano composti direttamente da pregiudicati casertani e calabresi. Oggi hanno imparato meglio a usare i prestanome, anche se magari le sedi legali sono gli studi di avvocati specializzati nel 416 bis. Naturalmente non tutte queste cooperative hanno origine e matrice criminale; nell’affare ci si è buttata tanta gente sveglia che da anni alimenta un tourbillon inafferrabile di sigle, consorzi, concordati, fallimenti, spesso riconducibili agli stessi capicordata e alle medesime aziende appaltatrici. Tecnicamente una “cooperativa spuria” è un’associazione a delinquere. Non dovrebbe occuparsene l’Ispettorato del Lavoro.

I SINDACALISTI
Ne sono passati tanti, dentro e davanti quei cancelli. Non si deve essere ingenerosi o qualunquisti, molti danno l’anima per organizzare e dare sbocco alla rabbia sorda della gente – se si va domattina, alle 5, ai cancelli della Castelfrigo o della Alcar, li si trova là davanti, col megafono e la bandiera. Ma tanti sono stati anche i vili, gli imboscati, gli impotenti che allargavano le braccia davanti a ogni abuso, quelli che limitavano la loro funzione alle denunce e agli esposti. Per non parlare di quelli che si sono prestati a fare da consulenti occulti nell’interesse delle aziende. Se avesse incontrato davanti a sé, il muro di un movimento sindacale serio e autorevole, tutta questa metastasi non si sarebbe mai estesa negli anni.

I QUESTORI
Hanno messo le forze di polizia al servizio delle aziende, a presidio della santa continuità produttiva, come se la Questura fosse l’Agenzia Pinkerton (che almeno non era pagata dai contribuenti). Se avessero “attenzionato” seriamente il comparto carni, oggi nelle carceri di Sant’Anna dovrebbe esistere un “padiglione cooperatori”. Particolarmente deplorevole il metro e la misura delle scelte di ordine pubblico: perché da queste parti, di solito, non si usano i manganelli contro I presidi sindacali; ma se a farli sono questi lavoratori un po’ scurotti (e si presume, meno tutelati), la celere si sente autorizzata a rompere ogni tabù – e anche qualche testa. Come se a questi proletari non si riconoscesse neanche il diritto minimo di sentirsi pienamente classe operaia.

I PM
Hanno lavorato con foga, nei mesi scorsi, per liberare le aziende dalla morsa dei sindacalisti molesti. L’inchiesta contro Aldo Milani, di quale dispiegamento di uomini e mezzi ha potuto giovarsi? Telecamere nascoste, microfoni, intelligence, agenti provocatori e trame raffinate. Chi ha mai visto un magistrato indagare con la stessa determinazione sul settore carni e le sue derive criminali? In occasione dell’arresto del leader del SI Cobas, la Procura ha ufficialmente esposto anche il suo teorema: lo sciopero e il picchetto, in una certa misura, possono essere inquadrati sotto il profilo criminale dell’estorsione. Bloccare un’azienda per spillare quattrini a un padrone, è un’azione delittuosa. Quando la politica muore, entrano in scena i corpi armati dello Stato (tale è la magistratura, non dimentichiamolo mai), che vanno a prendersi il loro spazio di supplenza e direzione politica, rilasciano proclami a reti unificate, scavalcano l’ectoplasma di amministratori e partiti, stabiliscono in proprio ciò che è lecito fare o non fare, nella Repubblica del Maiale.

I CONSULENTI
Ogni mafia ha bisogno dei suoi colletti bianchi. La mafia delle cooperative – e dei suoi committenti industriali – può contare su una pletora di avvocati, consulenti, commercialisti, facilitatori di ogni tipo. Parassiti ben pagati che studiano giorno e notte il modo per eludere leggi, fisco e contratti. Sono professionisti seri, sobri, abituati al basso profilo; magari vivono in questi stessi territori, dentro villette a schiera senza pretese. Fingono di ignorare quello che succede concretamente dietro le piramidi societarie e le trappole antioperaie che progettano. Probabilmente, per giustificare se stessi, nutrono anche una qualche confusa idea di progresso e di necessità dello stato di cose presenti. Una lumpen-borghesia delle professioni che spiega molto di questo paese, da Sud a Nord.

I DIRETTI
Sono I lavoratori assunti dalle imprese, magari con contratti stabili a tempo indeterminato. Sono quelli che fanno più pena di tutti sul piano morale. Ormai si tratta di minoranze dentro aziende che realizzano i volumi produttivi solo grazie al personale delle finte cooperative. Stanno abbarbicati ai loro lavoretti, al loro minuscolo privilegio, guardando ai colleghi del piano di sotto, come mine vaganti che possono mettere in discussione tutto il baraccone. Sono spesso immigrati anche loro, meridionali piovuti qui nei tristi anni 80, con mutui pesanti e figli precari da mantenere. Entrano a testa bassa, la mattina, davanti ai cancelli presidiati dalle lotte. Sanno che quei loro quasi colleghi hanno ragioni da vendere. “Ma così va il mondo: e meno male che non tocca a me…”. La mancanza di dignità a cui questi padri di famiglia egoisti si sottopongono è la parte peggiore della storia.

GLI AUTOCTONI
Sono commercianti, impiegati, spesso anziani pensionati che nella vecchia industria norcina hanno lavorato duramente e guadagnato onorevolmente. Quando i cortei dei nuovi schiavi del prosciutto passano in centro, li guardano, dalle soglie dei bar e dei negozi e scuotono la testa; pensano che questi nuovi arrivati abbiano poca voglia di lavorare, accampino troppe pretese, reclamino troppi diritti. Intanto gli affittano a caro prezzo stamberghe umide in centro, o vecchie masserie in campagna – perché del facchino “non si butta via niente”, si deve spremerlo in fabbrica e fuori, con metodo e scrupolo.

I POLITICI
Pallide figure che cominciano ad affacciarsi ai cancelli degli stabilimenti in lotta, in vista delle prossime elezioni. Sanno di non contare più niente – dichiarazioni di intenti, tavoli, protocolli – , un vecchio mondo caduto in disuso. Esprimono la pochezza caotica dei tempi: un esponente può esprimere “preoccupazione per i licenziamenti” e un altro può tuonare contro le “illegalità dei picchetti”, magari stando nello stesso partito. I facchini ghanesi o filippini, li guardano con perplessa ironia.

LE ROTATORIE
Sono l’elemento più innocente della zona, non fanno male a nessuno, non possono neanche tanto peggiorare la tragica bruttezza dei luoghi. Chissà com’erano le campagne, qui, un po’ di decenni fa, si fa fatica anche a immaginarlo. Dopo aver infilato capannoni grigi dappertutto, negli anni scorsi, oggi prevale la passione per le rotatorie di ogni ordine e grado. Danno al forestiero l’idea di un moto perpetuo in cui non ci si muove mai davvero. Non servono a niente. Sono buone solo per farci dei blocchi stradali.

GLI SCHIAVI RIOTTOSI
E poi c’è finalmente la contropastorale, il coro stonato e furente di Ahmed, Tashi, Antonu, Chen, Salvatore, Frank e molti altri pirati del prosciutto che, coltello in mezzo ai denti, si stanno lanciando contro le vestigia scassate del modello emiliano. Si ribellano perché non hanno altra scelta. Sono le vittime sacrificali del futuro luminoso che ci attende, i neo-schiavi dell’economia servile 4.0. Perché non c’è sviluppo o rivoluzione produttiva senza un esercito di servi pronti a tutto (è per quello che i ricchi, di solito, sono genuini no border e sostenitori dell’Open Society). Ma questi ragazzotti hanno la testa dura, non sono venuti fin qui per immolarsi sull’altare del Made in Italy, se ne fottono del Gran Biscotto, dei sofficini e del polpettone italiano. Hanno già dato abbastanza. Nel centesimo anniversario dell’Ottobre, stanno imparando a volgere le loro baionette da disossatori verso i generali. In questo momento sono loro l’unica vera eccellenza che esprime il territorio.

 

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