Perché la razza esiste e negarlo non ci aiuta
In seguito all’attentato terroristico di Macerata, Liliana Segre, recentemente nominata senatrice a vita da Sergio Mattarella, ha dichiarato che davanti al “ritorno della violenza fascista” sarebbe auspicabile togliere dalla costituzione italiana il termine “razza”. La proposta è stata accolta con favore da ogni parte politica da Silvio Berlusconi (“è una cosa che credo sia bene fare”) a Matteo Renzi (“principio di buonsenso, ampiamente condivisibile”) passando per Roberto Fico del Movimento 5 stelle (“senza problemi”). Perché per negare una questione politica non c’è migliore maniera che negare il linguaggio che la esprime.
L’emergenzialità elettorale non si discosta da un trend che ha ormai plasmato ogni forma di spazio politico. L’attentato di Macerata, nella sua dimensione profondamente e tragicamente pubblica, ha dato uno scossone allo scacchiere politico del paese ma gli ammortizzatori della banalizzazione sono subito entrati in azione per evitare di tracciare la genesi di un fenomeno. Per Renzi è un’occasione per invocare maggiori assunzioni di forze dell’ordine (sic!), Berlusconi continua la parabola iniziata con gli agnellini della pasqua veg e Grillo – non mentendo – accusa i benpensanti di voler negare “che ai neri riesce meglio il jazz”!
Eppure da qui ci tocca ripartire, da chi ha derubricato le gesta di Traini a pazzia (senza per questo motivo ragionare sulla pervasività e la politicità del disagio psichico nelle nostre società “dello sviluppo”) e propone di non parlare più di razza. La proposta di Segre appare esattamente per quello che è: non il superamento di un problema – quello appunto della razza e del razzismo – ma la sua rimozione e negazione. Si disvela così il cortocircuito politico dei tempi odierni. Da una parte l’auto-assoluzione dell’ugugaglianza formale, dall’altra il suprematismo bianco: dalla destra alla sinistra l’imperativo è negare la razza come determinazione sociale. Non nominare una realtà che non vuoi cambiare. Perché proprio questo è il problema. Un antirazzismo politico richiederebbe di mettere in discussione ogni assetto di questa società.
Lo sanno tutti: le differenze tra le razze non esistono. Non esistono prove scientifiche in tale direzione, non perché non se ne siano cercate. Il patrimonio genetico non determina differenze razziali di capacità e comportamento.
Eppure la razza è una realtà materiale, un differenziale concreto. La razza è il prodotto politico del razzismo. Non si tratta di negare un problema, ma ribaltarlo, e per fare ciò il primo passo è non rimuovere le parole che ci restituiscono questa realtà.
Negare la materialità che i non-bianchi vivono in questo paese non li aiuta e non ci aiuta. Pensare che la parte con cui stare oggi – in contrapposizione a quella del razzismo fascista ed istituzionale – sia quella di chi invoca uguaglianza, diritti e civismo, è la misura della grave crisi politica da cui non riusciamo ad uscire. Abbattere e/o risignificare le parole della subalternità e delle gerarchie economico-sociali è un processo che si gioca dentro uno scontro e va imposto con forza nello spazio politico da una soggettività che si riappropri del linguaggio che le è stato cucito addosso.
Non ci riconosciamo in nessuno schieramento: non nell’accoglienza cattolica che con un sorriso angelico sulle labbra che puzza ancora di coloniale, né nel più becero suprematismo bianco. Non nello sfruttamento mafioso di chi spreme allo strenuo voci e corpi nei campi di Rosarno, né in quello delle legalissime cooperative del nord. Non nelle firme di chi ha dato il via e acuisce lo schiavismo in Libia, non nelle parole di chi di ciò gioisce, né tantomeno nella falsa solidarietà concessa da una razza illuminata agli ultimi arrivati. Ma non possiamo che partire da qui. La posta in gioco è riuscire ad inserirsi nella crepa tra questi fronti, tra una destra della guerra tra poveri e delle auto-compiacenti sinistre della guerra/carità ai poveri e far saltare il piano delle ipocrisie.
Nel 2018 camminando per le strade del nostro paese il colore della pelle può essere una sentenza a morte. Dobbiamo ripartire dalla durezza di questa realtà, in cui genere e razza sono sofferenze che si imprimono nelle carni. Se non vogliamo soccombere, è necessario trovare quello spiraglio di possibilità e lì martellare insieme, dalla parte di chi è in cerca di una bussola per una nemicità diversa da quella che ci è imposta attualmente. Perché prima di negare bisogna affermare e affermarsi.
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