“Scusate, volevo solo ammazzare qualche nero”
Arriva con rito abbreviato la sentenza in primo grado del processo a Luca Traini: condanna a 12 anni. Il 2 febbraio scorso l’uomo sparò su un gruppo di stranieri a Macerata ferendone sei e celebrando poi il suo gesto con un saluto a braccio teso. Avvolto nel tricolore. Davanti al monumento ai caduti.
In aula ha letto le sue giustificazioni: “nessun odio razziale”. Difficile dire quello che non ti appartiene. Bisogna leggere gli appunti su un foglio per ricordarsi cosa è giusto dire per far finta che non sia successo niente. Per far tornare tutto come prima. Perché questa sentenza produce un po’ questo effetto: rimuove la realtà del razzismo di questo paese, sacrifica Traini per salvare la normalità del razzismo come nuova promessa politica nella forma dello scambio vantaggioso tra la sopraffazione esercitata e quella subita. Da marzo all’estate si sono contate più di trenta aggressioni a sfondo razziale. Botte, pestaggi, fucilate, tiri al bersaglio. Soumaila Sacko sarebbe ancora vivo se non fosse stato quel nero bracciante di Soumaila Sacko.
I tribunali ristabiliscono l’ordine dando a ciascuno il suo ma senza dare all’ordine ciò che gli è proprio, ovvero le forze che lo rendono vivo. L’ordine della giustizia cela l’ordine della realtà per continuare a governarlo in una forma astratta. Questa sentenza rimuove la realtà dello scontro sul razzismo in questo paese, un po’ come quell’altra sentenza del tribunale di Piacenza emessa martedì nei confronti di tre antifascisti scesi in piazza insieme a migliaia di altri tra il 2 febbraio e il 4 marzo per fermare le mani di altri fascisti e di chi le armava. I dodici anni e svariati mesi della sentenza di Piacenza equiparano la condanna democratica degli antifascisti alla condanna del fascista Traini, esattamente come i più di 13 anni comminati in cassazione ai quattro antifascisti condannati per la manifestazione di Cremona del 24 febbraio del 2015 dopo il tentato omicidio di Emilio da parte dei militanti di Casa Pound. Nessuna differenza alla luce della legalità democratica. A ognuno il suo. La giustizia opera a somma – quasi – zero.
È un’aritmetica del governo dei conflitti. Lo standard di garanzia democratica di cui l’antifascismo di sinistra è rimasto ostaggio lo ha sempre assunto come principio di tutela universale. Che inganno, lo stesso che Mimmo Lucano con parole chiare ha provato sempre a scartare ma al quale vorrebbe inchiodarlo una sinistra innamorata della legalità che in queste ore corre in soccorso del sindaco di Riace portando la bandiera dei suoi inquisitori. La tenuta di quest’ordine democratico oggi esige un razzismo strutturale. La legalità difenderà quest’ordine colpendone gli eccessi che lo turberanno: sia “la follia” di Traini o la ribellione all’ingiustizia di un facchino, un cuoco e un portapizze insieme a migliaia e migliaia di altre persone. Pari e patta. Oppure no. Oppure no perché restiamo antifascisti contro il regime di segregazione razziale e sociale su cui specula la politica, su cui si arricchisce il sistema legalizzato dell’accoglienza. Perché nonostante la legalità ci sarà sempre spazio per affermare che giustizia sociale e legge sono due cose distinte. Altro che scuse, altro che condanna. Il conto con Luca Traini è ancora aperto.
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