Appunti di antifascismo attorno a Macerata
Trentamila persone. Questo è il dato di partenza. Ma dietro i numeri imponenti del corteo di sabato si profila una partita politica che sulla risposta al primo attentato di matrice fascista da un trentennio a questa parte ha assestato un colpo importante alla tecnocrazia securitaria di Minniti, al razzismo integrale di tutto l’arco costituzionale teso a ricomprendere nel gioco istituzionale soggetti e formazioni apertamente fasciste. Nonostante il parziale recupero sui canali mainstream della grande manifestazione di sabato non è possibile una completa normalizzazione della risposta sociale antifascista di questa settimana. Quali irriducibilità abbiamo scorto nel freddo pomeriggio di Macerata scaldato da una nuova – forse inaspettata – partecipazione?
Vittoria? Sì, a partire dalla sconfitta di Marco Minniti. La prima vera del suo dicastero, a poche settimane dalle elezioni. Dalla convocazione della manifestazione subito l’impegno di Minniti, del governo e del PD è stato quello di ridurre al minimo la produzione di una risposta autonoma. La ragione non è difficile da intendere. Questa avrebbe necessariamente risalito una catena di responsabilità politiche sia smascherando l’ipocrisia della goffa operazione di autointestazione dell’antifascismo giocata a sinistra dal Partito Democratico dopo i fatti dei nazi di Como, sia disallineandosi dal frame del razzismo istituzionale in tutte le sue gradazioni: da quello soft de “avevo previsto Traini per questo ho aperto i lager in Libia”, a quello più grossolano targato Renzi del promettere “più poliziotti contro i pistoleri”. Bang bang. Qui c’è un primo frammento dell’harakiri democratico: l’incapacità di invertire la rincorsa a destra anche davanti allo shock razzista, l’impossibilità di inventare una réclame per questa democrazia fuori dal securitarismo narcotico costruito sulla linea del colore. Ci siamo sorpresi anche noi di trovarli così coglioni, ma un quadrato non diventa cerchio: ci sono e ci fanno. Sono proprio dei razzisti questi del PD.
In altre parole la risposta ai fatti di Macerata non sarebbe integralmente passata per la filiera istituzionale. Progressivamente è emersa una variabile irriducibile all’accettazione dello spartito della democrazia razzista, tollerante nei confronti dei fascisti e pronta a giocare sulla merce migrante tutta la campagna elettorale. Non essendo possibile più ridurre al minimo la produzione di una risposta autonoma questa andava espulsa dal campo della rappresentazione politica accreditata. Il giochino grottesco del far disdire dagli avatar del PD – le segreterie nazionali di Anpi, Arci, CGIL, Libera – una manifestazione non convocata da loro risponde a questa esigenza.
Ma ecco un primo cortocircuito: questi corpi intermedi non sono in grado di mediare più per nessuna sinistra. Non solo semplicemente non se li è filati nessuno, mandando a catafascio l’appello del sindaco di Macerata a tenere bassi i toni, ma addirittura la scelta di disertare la manifestazione del dieci ha innescato una sommossa interna dalla base di queste organizzazioni indisponibile, per una propria dialettica interna, a fare da semplice burattino alle operazioni politiche del PD. Un riflesso di una dimensione di indisponibilità sociale più ampia comunque incapace, nella crisi di queste organizzazioni, di una sintesi oltre l’irrinunciabile manifestazione di Macerata e per questo incapace di rinnovare quella funzione di mediazione dentro la società civile. Per chi? Per cosa? Per quale sinistra? Anche a Fratoianni, Speranza e Civati con la loro lettera al governo non resta che rincorrere e fare il verso a una contrapposizione prodottasi nei fatti: “vietare la manifestazione di Macerata è sbagliato e pericoloso”. Liberi non troppo, Uguali a qualsiasi dispensatore di buon senso. C’è di più: “vietare la manifestazione di Macerata è impossibile”.
La cifra di questo scontro per perimetrare l’espressione politica della giornata del 10 ai centri sociali, agli antagonisti, agli opposti estremismi – un vecchio piciista come Minniti non abbandonerà mai i fantasmi degli anni ‘70 – è restituita dalla forzatura sulle indicazioni trasmesse dal governo alle prefetture di tutta Italia: prendere qualsiasi iniziativa pur di circoscrivere la dialettica politica innescata dall’attentato di Macerata alle forme dell’istituzionalità e quindi in ogni caso garantire, entro queste, una certa agibilità alle formazioni fasciste concorrenti alle elezioni. Non è un caso che Di Stefano sia stato l’unico a poter prendere pubblicamente parola a Macerata nella giornata di mercoledì mentre Forza Nuova, al solito molto più sbracata e incapace, convocando una manifestazione è incorsa nel divieto Prefettizio che per due giorni ha minacciato di imporre il coprifuoco sulla città marchigiana. I Prefetti hanno assunto l’indirizzo di Minniti. A Cagliari, dopo il rifiuto di ospitare Casa Pound da parte della società che gestisce i locali comunali in cui si sarebbe dovuta tenere la presentazioni delle liste elettorali dei fascisti, il Prefetto ha ordinato che l’iniziativa si tenesse comunque. A Pavia la Prefettura ha imposto a un presidio dell’Anpi di cambiare piazza e orario.
Una serie di prove scomposte di Stato di polizia fallite davanti all’irrimediabile materializzarsi, sempre più tangibile, delle spinte al fornire una risposta di piazza a Macerata. In barba a qualsiasi minaccia o meno l’evento politico del 10 marzo si era ormai imposto. Vietare la manifestazione di Macerata è impossibile. A due giorni dal corteo arriva la resa. Improvvisamente gli interlocutori per gli apparati addetti all’ordine pubblico – dal ministero degli interni alle questure marchigiane – diventano i suoi veri organizzatori. L’evidenza si può negare ma non rimuovere.
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Il corteo di Macerata ha ratificato la resa del ministero degli Interni e del governo in uno scontro – temporaneo e circoscritto – per la rimozione di una variabile non preventivata: una risposta di massa non ambigua e non compromessa all’attentato fascista di Traini. La partita politica si era già risolta il giorno prima e nell’arco di uno scontro sviluppatosi per tutta la settimana, da sabato in avanti. Quanto successo dopo appartiene alle strategie di recupero simbolico di un fatto imprevisto da parte del campo nemico. Ma in fondo anche queste hanno scontato una tremenda debolezza. Il mainstream ha raccontato il corteo inseguendo i codici del già noto come il goffo incasellamento dei trentamila di Macerata nel campo del boldrinismo o la ricerca disperata di un nuovo Je suis Charlie della mistificazione civile. Vicolo cieco. Le vittime da innalzare sull’altare della concordia nazionale non esistevano: i bersagli di Traini – Gideon, Festus, Jennifer, Mahmadou, Wilson, Omar – semplicemente erano già state cancellate dalle narrazioni ufficiali.
Se questa finestra di possibilità si è con tutta probabilità chiusa nello stesso pomeriggio di sabato scorso lasciando il passo a operazioni di recupero di più lungo periodo, resta il dato di una settimana intera di conflittualità diffusa che, a partire dai fatti di Macerata, è riuscita a riqualificare un’opzione antifascista non allineata al campo dell’istituzionalità. Lottare per una parola non ambigua contro il razzismo, renderla fatto concreto con l’indisponibilità al recedere sul portarla in piazza. Questi due fattori hanno demistificato la retorica ipocrita del cosiddetto antifascismo democratico permettendo lo sviluppo della nostra capacità di attacco ai fascisti, della loro effettiva riduzione di agibilità politica, e di autodifesa collettiva nei loro confronti. Le cinghiate ai fascisti di Pavia, la contestazione a Salvini in piazza Duomo a Firenze, il corteo notturno antifascista a Torpignatara a Roma, la contestazione a Fiore a Cosenza, l’iniziativa antifascista nel quartiere Vallette di Torino, la straordinaria manifestazione di Piacenza contro Casa Pound e la polizia a loro difesa. È stata questa una serie di eventi possibili su proporzioni inedite perché inscritti in uno scontro politico complessivo contro le dimensioni legate alle garanzie di un antifascismo costituzionale inservibile e screditato. Se il PD ha benedetto la manifestazione del 24 febbraio #maipiùfascismi per recuperare il terreno perso attorno ai fatti di Macerata e riabilitare una strategia di allineamento istituzionale dell’antifascismo, a noi tocca tenere vive le condizioni di trasformazione che ci ha consegnato lo scontro tenuto vivo dai trentamila di sabato scorso, per essere sviluppare l’antifascismo che resta e cercare quello che manca.
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