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Profumo e i movimenti

 

 

Lo stretto orizzonte della “difesa del pubblico”.

Il decreto Profumo è comparso nelle cronache di queste ultime settimane rappresentando l’occasione per sociologi, politici, giornalisti e parti del ceto accademico italiano di “lamentare” la carenza di finanziamenti al mondo dell’istruzione. Tutti si interrogano in modo paternalistico sulle responsabilità dell’aumento della disoccupazione giovanile e del gonfiarsi di una vera e propria bolla formativa in cui una massa crescente di laureati rimane senza occupazione.

Da una diversa angolatura questo “discorso” – tra l’altro espresso benissimo in una recente intervista su Rainews24 dal presidente degli Enti per il Diritto allo studio Marco Moretti – ha dato vita in alcune città d’Italia a diverse iniziative di contestazione di questo decreto, messe in campo dalle Liste del sindacalismo studentesco. Iniziative simboliche e di testimonianza che non hanno puntato sulla partecipazione in prima persona dei soggetti più direttamente sotto attacco – gli attuali beneficiari delle borse di studio – né cercato di ricomporre attorno alla questione “diritto allo studio” le differenti forme della precarietà universitaria e studentesca. Nella maggior parte dei casi questi tentativi si sono risolti in politicismi tra ceti del sindacalismo studentesco e pezzi di partiti politici del centro-sinistra al governo nelle Regioni. Prevedibilmente queste iniziative – prive di qualsiasi rapporto di forza – si sono tradotte in contentini come lo slittamento della discussione dal 21 febbraio al 28, senza assolutamente incidere nella sostanza. C’è stata una rinuncia ad assumere un piano politico ampio della manovra voluta da Profumo, rinchiudendosi nei tatticismi votati a salvare il salvabile: come se, ancora una volta, la posta in gioco fosse solo il cosiddetto “diritto allo studio” e gli strumenti quelli della “democrazia rappresentativa”.

Se il rinvio, pertanto, non muta nulla in un quadro di movimento, nulla cambia neanche nell’indirizzo politico complessivo della governance, pronta certamente a raccogliere con il prossimo esecutivo le indicazioni di Profumo. Bisogna infatti sgombrare il campo da ogni scandalismo da nostalgici retroscenisti della prima repubblica: che il ministro di un esecutivo dimissionario si batta con perseveranza e ostinazione per far approvare misure di riforma strutturale non costituisce una variazione poco ortodossa rispetto alla prassi istituzionale, si tratta piuttosto della cifra costante del governare tecnico contemporaneo. Non ci sono maggioranze possibili di governi possibili che differiscano tanto da mettere in discussione le cosiddette “riforme condivise per il bene del paese”, ovvero i programmi di sacrifici e austerità fatti di revisione di spesa e svuotamento del pubblico.

A che pro fingere di rimettere tutto in gioco per un semplice passaggio di consegne? A pochi giorni dalle elezioni, l’ipocrisia di chi punta i piedi denunciando il difetto di legittimità di un Profumo dimissionario nel continuare a sostenere questo decreto sul diritto allo studio, si dimentica che è l’intera classe politica ad essere subalterna all’Agenda Monti come programma di governo non negoziabile.

D’altro canto ad oggi nessuna reazione “spontanea” né organizzata è riuscita ad opporsi a questa misura. Per fare questo vogliamo iniziare a confrontarci con le mutate condizioni, bisogni e desideri della composizione studentesca.
Il passaggio segnato dal decreto Profumo, testimonia comunque di un’accelerazione nel processo di dismissione dell’università pubblica e del restringimento dell’accesso al mondo dei saperi. Questo processo è stato conflittualmente attraversato da tre importanti cicli di movimento: No Moratti (2005), Onda (2008), No Gelmini (2010). La sconfitta di questi movimenti ha prodotto un mutamento dei caratteri della soggettività universitaria, sempre più dispersa nei contesti della precarietà metropolitana e dell’accettazione dell’indebitamento come condizione per accedere ai servizi. Sui caratteri di questa ristrutturazione dell’università, prendiamo parola sul decreto Profumo nell’immaginare spazi di resistenza e di costruzione di lotta nell’ambito dei rapporti di potere che regolano la valorizzazione capitalistica dei saperi.

 

 

Merito ed esclusione

Il decreto, nelle sue linee portanti, si compone di due indirizzi fondamentali ai quali, simmetricamente, corrispondono due retoriche masticate ormai da tempo: innalzamento dei requisiti formativi da conseguire in termini di CFU per il mantenimento delle borse di studio e la diminuzione delle soglie di accesso in termini di ISEE ai sussidi per il diritto allo studio. Il primo aspetto articola una retorica del merito – pretendo di incentivarlo -, il secondo aspetto articola una retorica della scarsità di risorse – propugnando una loro razionalizzazione.

La questione dell’inasprimento dei requisiti di merito per il mantenimento delle borse di studio investe la soggettività in formazione sul versante dei ritmi di studio e di produzione intellettuale: si tratta di una rimodulazione dei dispositivi di disciplinamento in funzione di una maggiore produttività del sapere.

Se attualmente al primo anno di laurea triennale i crediti richiesti per il mantenimento della borsa sono 20 con il decreto Profumo questi salgono a 35 (+15). 15 crediti in più richiesti anche per il secondo e ben 27 in più al terzo anno. Discorso analogo per i corsi di laurea a ciclo unico e per le lauree magistrali.
Va verso la soppressione anche possibilità di disporre dei cosiddetti crediti bonus, misura che introduceva dei margini di flessibilità nei meccanismi di accreditamento, rappresentando, nella stragrande maggioranza dei casi, un vero e proprio salvagente.
Ulteriore novità del decreto riguarda l’aggancio della concessione delle quote monetarie di borsa a un sistema di rateizzazione rigidamente vincolato a parametri meritocratici. Per le lauree triennali una prima rata della borsa, pari al 20% del totale, viene erogata entro il 10 novembre; la seconda rata, pari al 30% del totale, è corrisposta al raggiungimento di 10 crediti entro il 15 marzo; la terza rata della borsa, in misura pari al 50% del totale, e la seconda rata eventualmente non erogata, viene erogata al raggiungimento di 35 crediti entro il 10 agosto. Una vera e propria corsa ad ostacoli tra accreditamento e accesso al reddito.

Per ciò che concerne invece il restringimento a monte dell’accesso alle graduatorie per i benefici del diritto allo studio la rimodulazione verso il basso dei limiti ISEE costituisce un’operazione complementare rispetto al recente tentativo di riformulare il calcolo degli indici ISEE facendo schizzare l’indicatore – ovvero relegando fuori dalla possibilità di accedere ai servizi – i proprietari di casa residenti nella stessa. L’obbiettivo resta il medesimo: ridurre la platea dei beneficiari o escludendo dai servizi o producendo nuovi poveri. Il restringimento dell’accesso è spacciato come “tesoretto” per l’incremento delle borse assegnate ai meritevoli nell’ottica della promozione del merito e di un’equa allocazione delle risorse per lo sviluppo della competitività: da “poco a tanti”, ad “abbastanza a pochi”.

Una prima bozza di decreto fissava inoltre “gabbie territoriali” che stabilivano un tetto massimo di ISEE differenziato tra sud, centro e nord per poter concorrere ai bandi di assegnazione di borsa di studio – 14.300€ sud, 17.100€ centro, 20.000€ nord. Tra le modifiche apportate dalle regioni al testo di Profumo la più significativa riguarda la cancellazione di questo federalismo sui generis pronto a regolamentare su base patrimoniale l’emigrazione verso il nord. Nel nuovo testo del decreto ogni regione, avrà la facoltà di riferirsi autonomamente a una delle tre fasce fissate dal Ministero: 15.000-17.000, 17.001-19.000, 19,001-21.000.

Altro vincolo all’accesso è rappresentato dall’istituzione, per la prima volta, di limiti di età per poter ottenere la borsa di studio: 25 anni di età per l’iscrizione al primo anno della laurea triennale e magistrale a ciclo unico; 32 anni di età per l’iscrizione al primo anno della laurea magistrale. Va bene il principio del long life learning ma solo se inteso come processo senza via d’uscita e come strumento di regolazione della precarietà e di sua messa a valore. Impossibile rientrare dalla porta di servizio, fare della formazione uno strumento flessibile di autovalorizzazione, capace di intersecare percorsi di vita non inquadrati nel macchinismo della fabbrica del sapere.
Aumentano anche le distanze dalla sede universitaria oltre le quali si rientra nella categoria di fuori sede: ovvero diminuiranno i richiedenti alloggio per il diritto allo studio.

 

 

Forme del riscatto oltre un orizzonte di svalorizzazione

La natura di questo doppio attacco, sui ritmi e sull’accesso, s’inscrive in uno scenario del mondo formativo violentemente trasfigurato negli ultimi anni. Quando, tra Moratti e Gelmini, le lotte nelle università, pur tra svariate contraddizioni, ponevano la questione del venir meno dello Stato nel suo ruolo di finanziatore e dunque garante di un pubblico accesso agli studi, individuavano il nodo della ristrutturazione del comando sui saperi e sulle soggettività in formazione. Nessuna abdicazione dunque, ma la riformulazione del pubblico come agente del controllo sui processi di economizzazione delle università. L’obiettivo raggiunto è un’ulteriore mercificazione delle politiche formative e la diffusione di standard capaci di trasformare capacità in competenze, non solo nell’ambito strettamente accademico ma in qualsiasi ambito connesso definito dalla centralità del sapere. L’università diventa l’incubatore privilegiato di questo sistema della formazione che travalica i confini del percorso di studio e si fa metropoli: dai call center alla logistica, dal terzo settore alla grande distribuzione, il lavoro vivo necessita sempre più di essere codificato per essere controllato e misurato. I margini di autonomia e di decisione si fanno sempre più risicati in virtù di una formazione di operatori capaci di eseguire ed attivare processi produttivi.

I “picchi” della lotta universitaria – dal blocco della circolazione delle merci e della “normale riproduzione” fino agli scontri del 14 dicembre – hanno fatto emergere i tratti materiali delle soggettività resistenti rispetto agli attacchi al “sistema-formazione”. Davanti a questo la risposta di chi ha vinto è stata quella di spostare più “in alto” il livello del conflitto, con quella che chiamiamo metropolitanizzazione dello studente: diffusività dei luoghi del comando e intensività dello sfruttamento in funzione di nuovi processi di accumulazione fatti di svalutazione soggettiva e maggior produttività.

Il decreto Profumo arriva a coronamento di questo processo di segmentazione ed esclusione. Come la Fornero ha radicalizzato un processo di precarizzazione del lavoro – eliminando l’articolo 18 ed introducendo nuovi dispositivi di sfruttamento – il decreto Profumo sostanzia le retoriche del merito e della “lotta agli sprechi” con l’aumento dello sfruttamento di un segmento composizione studentesca. In entrambi i casi l’obbiettivo rimane il medesimo: distruggere le rigidità ancora annidate nelle ultime sacche di “soggetti garantiti”.
Occorre però soffermarsi su un elemento importante. Che soggettività si produce da questa ristrutturazione, da questa nuova accumulazione? Lavoro vivo qualificato, altamente flessibile, si districa tra l’alto disciplinamento dei percorsi di studio e il rischio di venirne espulso venendo inserito in circuiti di sfruttamento contigui alla fabbrica del sapere: il mondo delle abilità relazionali che riproduce gran parte dell’universo precario in formazione. Ma, sull’aspro profilo di questo crinale soggettivamente attraversato in massa ormai da una intera generazione, ci sembra che la fase di crisi capitalistica attuale mostri un punto di rottura collettivamente interpretabile e suscettibile di inversione. Serpeggia con sempre più insistenza infatti la stessa domanda: «fino a che punto?».

A proposito segnaliamo un post che sta girando sui gruppi facebook di alcune case dello studente di Pisa, indicatore dei potenti tratti di rifiuto di una condizione sentita come non più sopportabile:

 

Cari politici,
ho 29 anni e sono laureata in Giurisprudenza con il massimo dei voti e tanto di rispettabile specializzazione, LAUREA sudata e pagata di tasca mia molto spesso seguendo i corsi di giorno, lavorando di sera e studiando di notte. Da quasi un anno faccio la praticante avvocato e sto per conseguire un master di II livello….potrei citarvi ulteriori corsi o titoli che vanno a DECORARE il mio curriculum vitae…ma poco importa….poco importa perché se dovessi fare “affidamento” su quel che guadagno grazie ai miei titoli di studio, sarei imbarazzata nel dirvi che non potrei permettermi neppure di offrire un caffè al bar ad un’amica, questo è il motivo per cui “per arrotondare” di sera lavoro in un ristorante.
Forse, secondo tanti, rappresento un TRISTE scorcio di questa società in crisi e così poco attenta ai giovani, rappresento una gioventù FRUSTRATA perché non ha futuro e non ha sicurezze che gli permettono di costruirselo… forse incarno una generazione ABUSATA da ogni ideale, VIOLENTATA e DERUBATA dei suoi promettenti sogni… ma la VERITA’ è che non sono né triste e né frustrata, non lo sono perché non ho mai preso le scorciatoie allettanti che il vostro sistema spesso ci propina su un piatto d’argento, non lo sono perché così facendo non mi sono resa SCHIAVA di voi e del vostro sistema, non lo sono perché non sono sola e perché come me so ce ne sono ALTRI.
Io sono solo ARRABBIATA perché VOI volete rubarci la nostra DIGNITA’.
Mi piacerebbe che voi politici, con i vostri titoli finti o acquistati per voi e per i vostri figli, quando alle 19 salgo le scale di casa mia vestita da rispettabile DOTTORESSA per riscenderle alle 19 e30 vestita da altresì rispettabile LAVAPIATTI-PIZZAIOLA, ecco sì …. lo ammetto..mi piacerebbe trovarvi a spazzarmi le scale sulle quali sono appena passata!
Nessuno dei vostri nomi è degno di essere scritto dalla mano di noi italiani questo fine settimana!
Con questo non voglio essere presuntuosa, voglio solo dirvi che la DIGNITA’ che vi siete venduti, e della quale avete cercato di rendere ORFANI anche noi come popolo italiano, non è in VENDITA….
Voi no, ma noi come popolo possiamo e dobbiamo trovare la forza di guardarci allo specchio e non vi daremo la soddisfazione di non farlo anche questa volta!!

Cordiali saluti
Dottoressa-pizzaiola-lavapiatti xxxxxxx


Il No al decreto Profumo e ai suoi effetti ci da la possibilità di agire nel mondo dei saperi questa insopportabilità. Vogliamo scommettere sulla possibilità di far saltare quella contraddizione che storicamente ha visto in generale il welfare, ed in particolare la borsa di studio, come dispositivo stretto dalla possibilità di emancipazione per una parte delle classi subalterne, al prezzo però di una loro integrazione e controllo sistemico. Con la rottura di questo patto in funzione di un nuovo processo di accumulazione l’emancipazione resta una chimera, “promettenti sogni”. Rimane la nuda realtà di un disciplinamento che assume sempre più i caratteri dell’ingiustizia e dell’oppressione.

Che sia chiaro, oggi è in primo luogo la controparte che vuole rompere definitivamente quel patto: le accuse di essere troppo “choosy”, l’elogio del lavoro “manuale” e la strutturazione di nuovi dispositivi tecnici e legislativi – come l’apprendistato – rappresentano la cruda strategia di questa nuova accumulazione che vuole produrre una nuova merce umana, più disponibile, precaria, ricattata. Questo impoverimento è lo strumento con cui si vuole imporre una forzata pacificazione sociale, al prezzo di un conflitto agito e subito interamente da noi.

Fino a che punto può reggere, senza venir scosso da un’eccedenza non più contenibile, un modello di accumulazione basato sulla valorizzazione dei saperi per mezzo di uno sfruttamento che relega chi li produce al limite dell’emarginazione sociale? In fondo l’orizzonte di precarietà definito da questa tensione viene sempre più assunto come dato scontato, sostituendo tragicamente il mito di percorsi di studi veicolo di certa ascesa sociale. Studiare sempre di più, male e indebitati. Per lavorare sempre di più, male, e sottopagati.
Orizzonte precario scontato, sì, ma certo non pacifico.

Nel momento in cui i processi di economizzazione del mondo della formazione polarizzano il rapporto formativo nel senso di un rapporto regolato dal valore di scambio tra studenti intesi come utenza e istituzione accademica intesa come fornitore di un servizio, dal nostro punto di vista si tratta di con-ricercare il punto di rottura in cui non può più esser tollerata l’erogazione di un servizio scadente ma salatissimo.

Partire adesso da questa considerazione senza semplicemente accontentarsi di abbandonare il campo o senza cedere a giudizi reazionari sullo “sgonfiarsi delle bolle del mercato formativo” – come pure pare accadere nei termini di calo delle immatricolazioni successive alla svalutazione dei corsi di laurea triennali, simbolo del fallimento del modello 3+2 – significa intendere la questione del sapere come leva dell’organizzazione dell’insopportabilità definita dalla propria svalorizzazione.
È
necessario spostare l’accento: non più difendere l’università o il diritto allo studio come istituzioni garanti di diritti universali; quanto impedire l’ennesima espropriazione, difenderci dalla svalutazione della potenza singolare di ciascuno di noi come soggetti che hanno una dignità e che “vogliono decidere”. Resistere individuando le controparti, iniziando a separare il nostro punto di vista nella differenza da chi produce crisi, scarsità e svalorizzazione per conservare e incrementare la ricchezza ai livelli alti. Il nesso tra misure di austerity – a partire dal welfare studentesco – e ricapitalizzazione della finanza con copertura pubblica sta nella rapina della nostra ricchezza sociale a vantaggio del sistema del debito.

L’opposizione al decreto Profumo ci impone di verificare in che forme si diano o si possano dare le resistenze ai ritmi di studio e alla produttività laddove non c’è una contropartita, di emancipazione dal sacrificio. L’assenza di questa prospettiva apre a questa domanda: come, per cosa e per chi utilizziamo quelle capacità acquisite a duro prezzo? Come le rivalutiamo?
Questo significa lavorare per fare emergere quella forte istanza di potere e di autodeterminazione della propria vita in termini collettivi.

 

 

Collettivo Universitario Autonomo – Pisa

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