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Quale rifiuto del lavoro, oggi? (spunti per un dibattito)

Un recente scritto di Bifo ha avuto il merito di rimettere al centro del discorso uno degli assunti fondanti dell’operaismo italiano e dell’autonomous marxism: il rifiuto del lavoro come necessario punto di partenza per una critica del presente, della civilltà capitalista, dell’Europa dell’austerity. Un’operazione tanto più urgente quanto più si tenta di confinare quel nodo alla polvere degli armadi o peggio alla nostalgia teorica.  Il tabù che circonda la ripresa di un discorso pubblico contro il lavoro salariato, per il rifiuto del lavoro è allora forse proprio indice della minaccia che questa visuale teorica (e una conseguente sua traduzione politica) può ancora articolare. Quelli che seguono sono solo alcuni spunti per un dibattito che è necessario riprendere.


Di lavoro non ce n’è più bisogno

 

di FRANCO BERARDI BIFO (*)
16 Luglio 2015

Alla fine degli anni ’70, dopo dieci anni di scioperi selvaggi, la direzione della FIAT convocò gli ingegneri perché introducessero modifiche tecniche utili a ridurre il lavoro necessario, e licenziare gli estremisti che avevano bloccato le catene di montaggio. Sarà per questo sarà per quello fatto sta che la produttività aumentò di cinque volte nel periodo che sta fra il 1970 e il 2000. Detto altrimenti, nel 2000 un operaio poteva produrre quel nel 1970 ne occorreva cinque. Morale della favola: le lotte operaie servono fra l’altro a far venire gli ingegneri per aumentare la produttività e a ridurre il lavoro necessario.

Vi pare una cosa buona o cattiva? A me pare una cosa buonissima se gli operai hanno la forza (e a quel tempo ce l’avevano perbacco) di ridurre l’orario di lavoro a parità di salario. Una cosa pessima se i sindacati si oppongono all’innovazione e difendono il posto di lavoro senza capire che la tecnologia cambia tutto e di lavoro non ce n’è più bisogno.

Quella volta purtroppo i sindacati credettero che la tecnologia fosse un nemico dal quale occorreva difendersi. Occuparono la fabbrica per difendere il posto di lavoro e il risultato prevedibilmente fu che gli operai persero tutto. 
Ma si poteva fare altrimenti? chiederete voi? Certo che si poteva. Una piccola minoranza disse allora: Lavorare meno per lavorare tutti, e qualcuno più furbo disse addirittura: lavorare tutti per lavorare meno. Furono attaccati come estremisti, e alcuni li arrestarono per associazione sovversiva.

Nel 1983 nel paese più brutto del mondo c’era un governo infernale guidato da una signora cui piaceva la frusta. Aveva detto che la società non esiste (there is no such thing as society) per dire che ognuno è solo e deve combattere contro tutti gli altri col risultato che uno su mille può far la bella vita e scorrazzare in Roll Royce, uno su cento può vivere decentemente e tutti gli altri debbono fare la vita di merda che più di merda non si può immaginare. Ma ritorniamo a noi, mica sono pagato per parlar male dell’Inghilterra. Un bel giorno la signora decise che di miniere non ce n’era più bisogno e neanche di minatori. Cosa fareste se la vita vi fosse andata così male da ritrovarvi a fare il minatore in un paese di merda dove in superficie piove sempre e c’è la Thatcher, e sottoterra è anche peggio?

Non so voi, ma nel caso io facessi il minatore e qualcuno mi dicesse che non c’è più bisogno di miniere ringrazierei il cielo e chiederei un salario di cittadinanza. Non così Arthur Scargill che era il capo di un sindacato che si chiamava Union Miners. Un sindacato glorioso che organizzò una lotta eroica contro i licenziamenti come direbbe Ken Loach. So bene che c’è poco da fare gli spiritosi perché fu una tragedia per decine di migliaia di lavoratori e per le loro famiglie: naturalmente i minatori persero la lotta il lavoro e il salario, ed era solo l’inizio. La disoccupazione è oggi in crescita in ogni paese d’Europa. Metà della popolazione giovanile non ha un salario, o ha un salario miserabile e precario, mentre i riformatori europei hanno imposto un rinvio dell’età pensionabile da 60 a 62 a 64 a 65 a 67. E poi?

C’è qualcuno che possa spiegarmi secondo le regole della logica aristotelica il mistero secondo cui per curare la disoccupazione dilagante occorre perseguitare crudelmente i vecchi che lavorano costringendoli a boccheggiare sul bagnasciuga di una pensione che non arriva mai? Nessuno che sia sano di mente mi risponde, perché la risposta non si trova nelle regole della logica aristotelica, ma solo nelle regole della logica finanziaria che con la logica non c’entra niente ma c’entra moltissimo con la crudeltà.

Se la logica finanziaria contraddice la logica punto e basta, cosa farebbe una persona dotata di senso comune? Riformerebbe la logica finanziaria per piegarla alla logica, no? Invece Giavazzi dice che la logica vada a farsi fottere perché noi siamo moderni (mica greci).

Animal Kingdom è il nome di un’azienda di Saint Denis che vende ranocchie e cibi per cani. Candelia vende mobili per ufficio. Sembrano aziende normali ma non lo sono affatto, perché l’intero business di queste aziende è finto: finti i clienti che telefonano, finti i prodotti che nessuno produce, finta perfino la banca cui le fake companies chiedono falsi crediti.

Come racconta un articolo del New York Times del 29 maggio, da cui si deduce che il capitalismo è affetto da demenza senile, in Francia ci sono un centinaio di aziende finte, e pare che in Europa se ne contino migliaia.
Milioni di persone non hanno un salario e milioni perderanno il lavoro nei prossimi anni per una ragione molto semplice: di lavoro non ce n’è più bisogno. Informatica, intelligenza artificiale, robotica rendono possibile la produzione di quel che ci serve con l’impiego di una quantità sempre più piccola di lavoro umano. Questo fatto è evidente a chiunque ragioni e legga le statistiche, ma nessuno può dirlo: è il tabù più tabù che ci sia, perché l’intero edificio della società in cui viviamo si fonda sulla premessa che chi non lavora non mangia. Una premessa imbecille, una superstizione, un’abitudine culturale dalla quale occorrerebbe liberarsi.

Eppure economisti e governanti, invece di trovare una via d’uscita dal paradosso in cui ci porta la superstizione del lavoro salariato insistono nel promettere la ripresa dell’occupazione e della crescita. E siccome la ripresa è finta, qualcuno ha avuto questa idea demente di creare aziende in cui si finge di lavorare per non perdere l’abitudine e la fiducia nel futuro, poiché i disoccupati di lungo corso (il 52.6 dei disoccupati dell’eurozona sono senza lavoro da più di un anno) rischiano di perdere la fede oltre al salario.

Ma torniamo al punto. Dice il giovane presidente del consiglio che il reddito di cittadinanza è una cosa per furbi perché in questo paese chi lavora duro ce la può fare. Forse qualcuno sì, non me la sento di escluderlo, ma qui stiamo parlando di ventotto milioni di disoccupati europei. E a me risulta che la disoccupazione non è destinata a diminuire ma ad aumentare, e ti dico perché. Perché di tutto quel lavoro (duro o morbido non importa) non ce n’è più bisogno. Lo dice qualcuno che è più moderno di Renzi e di Giavazzi messi insieme credete a me. Lo dice un giovanotto dotato intellettualmente che si chiama Larry Page. In un’intervista pubblicata da Computer World nell’ottobre del 2014 questo tizio, che dirige la più grande azienda di tutti i tempi dice che Google investe massicciamente in direzione della robotica. E sai che fa la robotica? Rende il lavoro inutile, questo fa. Larry Page aggiunge che secondo lui solamente dei pazzi possono pensare di continuare a lavorare quaranta ore alla settimana. Si stringe nelle spalle e dice: Renzi, lavorare duro d’accordo, ma per fare che?

Il Foreign Office nel suo Report dell’anno scorso diceva che il 45% dei lavori con cui oggi la gente si guadagna da vivere potrebbe scomparire domattina perché non ce n’è più bisogno. Caro Renzi qui si tratta di cose serie, lascia fare ai grandi e torna a giocare con i video game: occorre immediatamente un reddito di cittadinanza che liberi la gente dall’ossessione idiota del lavoro.

La situazione infatti è tanto grave e tanto imprevista, che occorre un’invenzione scientifica che non è alla portata degli economisti.

Ti sei mai chiesto cosa sia una scienza? Diciamo per non farla troppo lunga che è una forma di conoscenza libera da ogni dogma, capace di estrapolare leggi generali dall’osservazione di fenomeni empirici, capace di prevedere quello che accadrà sulla base dell’esperienza del passato, e per finire capace di comprendere fenomeni così radicalmente innovativi da mutare gli stessi paradigmi su cui la stessa scienza si fonda. Direi allora che l’economia non ha niente a che fare con la scienza. Gli economisti sono ossessionati da nozioni dogmatiche come crescita competizione e prodotto nazionale lordo. Dicono che la realtà è in crisi ogni qualvolta non corrisponde ai loro dogmi, e sono incapaci di prevedere quel che accadrà domani, come ha dimostrato l’esperienza delle crisi degli ultimi cento anni. Gli economisti per giunta sono incapaci di ricavare leggi dall’osservazione della realtà in quanto preferiscono che la realtà sia in armonia con i loro dogmi, e incapaci di riconoscere quando mutamenti della realtà richiedono un cambiamento di paradigma. Lungi dall’essere una scienza, l’economia è una tecnica la cui funzione è piegare la realtà multiforme agli interessi di chi paga lo stipendio degli economisti.

Dunque sta ad ascoltarmi: non c’è più bisogno di Giavazzi di tutti quei tristi personaggi che vogliono convincerti che l’occupazione presto riprenderà e la crescita anche. Lavoriamo meno per un reddito di cittadinanza, curiamoci la salute andiamo al cinema insegniamo matematica, e facciamo quel milione di cose utili che non sono lavoro e non hanno bisogno di scambiarsi con salario. Perché sai che ti dico: di lavoro non ce n’è più bisogno.

 

(*) Pubblicato sul numero di luglio della nuova serie di “Linus”.

 

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I dannati del lavoro, i disoccupati e il socialismo

(4 Agosto 2015)

di Michele Basso (¤)

“Di lavoro non ce n’è più bisogno” è il titolo di un interessante articolo di Franco Berardi. E’ un tema d’importanza cruciale ed è necessario continuare la discussione
“Milioni di persone non hanno un salario e milioni perderanno il lavoro nei prossimi anni per una ragione molto semplice: di lavoro non ce n’è più bisogno. Informatica, intelligenza artificiale, robotica rendono possibile la produzione di quel che ci serve con l’impiego di una quantità sempre più piccola di lavoro umano. Questo fatto è evidente a chiunque ragioni e legga le statistiche, ma nessuno può dirlo: è il tabù più tabù che ci sia, perché l’intero edificio della società in cui viviamo si fonda sulla premessa che chi non lavora non mangia. Una premessa imbecille, una superstizione, un’abitudine culturale dalla quale occorrerebbe liberarsi.”

Il culto del lavoro esiste solo nel capitalismo. Nei Grundrisse Marx si burla di un padrone di una piantagione, nostalgico della schiavitù, che sul “Times” inveisce conto i Quashees, i liberi neri di Giamaica, campagnoli autosufficienti che producono solo quanto basta per vivere, e se ne infischiano del capitale investito nelle piantagioni. Una popolazione vive per lavorare solo quando il capitalismo l’ha sottoposta al suo giogo, non più col lavoro coatto diretto (schiavitù), ma col lavoro coatto indiretto, il lavoro salariato.
“Il grande ruolo storico del capitale è di creare questo pluslavoro, questo lavoro superfluo dal punto di vista del semplice valore d’uso, della pura sussistenza; e la sua funzione storica è compiuta quando, da un lato, i bisogni storici sono talmente sviluppati che il pluslavoro al di là del necessario diventa esso stesso un bisogno generale, scaturisce cioè dagli stessi bisogni individuali – dall’altro la generale laboriosità, mediante la rigorosa disciplina del capitale attraverso cui sono passate le successive generazioni, è diventata un possesso generale della nuova generazione”(1) .

In Occidente abbiamo superato da molto tempo questa fase, ora siamo nel periodo in cui “…il possesso e la conservazione della ricchezza generale esigono un tempo di lavoro inferiore per l’intera società…”. Lungi dall’accettare queste conclusioni, il capitale tende a sfruttare in modo bestiale una parte del proletariato e a lasciare nell’assoluta precarietà, disoccupazione, fame, la parte rimanente. E’ il segno inequivocabile che il capitalismo ha esaurito il suo ruolo storico, e che, se non verrà abbattuto entro tempi ragionevole, trascinerà l’umanità in una serie ininterrotta di sciagure.
Il capitale è fondamentalmente espropriatore. L’espressione “proprietà privata” ha due significati diversi: 1) La piccola proprietà formata col lavoro personale, che viene inevitabilmente distrutta dal grande capitale 2) La proprietà che sfrutta il lavoro altrui, mediante il lavoro salariato. La seconda distrugge la prima. La borghesia ha sempre avuto un gioco facile, raccontando alla piccola borghesia che i comunisti l’avrebbero espropriata. In realtà, è il capitale che lo fa, per cui artigiani, piccoli contadini proprietari o affittuari e commercianti, laddove resistono, hanno posizioni sempre più marginali, oppure lavorano di fatto, pur mantenendo l’apparenza dell’autonomia, per i capitalisti.
Il fondamento di tutte le espropriazioni va cercato nel lavoro salariato stesso. Marx comprese fin dai Manoscritti economici- filosofici che il cuore del problema non era la proprietà. Il linguaggio è ancora filosofico, ma inequivocabile: “…anche se la proprietà privata appare come il fondamento, la causa del lavoro alienato, essa ne è piuttosto la conseguenza; allo stesso modo che originariamente gli dei non sono la causa, ma l’effetto dell’umano vaneggiamento. Successivamente questo rapporto si converte in azione reciproca.”(2)
E nel Capitolo VI inedito del Capitale sostiene:
“Nella misura … in cui il processo di produzione è nello stesso tempo processo di valorizzazione, nel suo svolgersi il capitalista consuma la capacità lavorativa dell’operaio, ovvero si appropria il lavoro vivo, come sangue vitale del capitale. La materia prima, l’oggetto del lavoro in generale, non serve qui che ad assorbire lavoro altrui, e lo strumento di lavoro non serve che da conduttore, da veicolo, per questo processo di assorbimento. Nell’incorporare la forza lavoro viva alle sue parti componenti oggettive, il capitale diventa così un mostro animato e comincia ad agire come se “avesse l’amore in corpo”.(3)

Questo mostro animato in cerca di valorizzazione travolge ogni ostacolo. Il piccolo contadino, artigiano, il piccolo artigiano non possono resistere a questa concorrenza, e, a poco a poco tutta la società viene modellata a immagine e somiglianza del rapporto capitale lavoro.
L’incomprensione di questo punto ha portato a pensare che fosse possibile arrivare al socialismo attraverso le nazionalizzazioni mantenendo il rapporto salariale. Un po’ come voler superare il feudalesimo affidando le terre allo stato e conservando la servitù della gleba. Il capitale non è una semplice quantità di denaro e di beni, è un rapporto sociale. Una quantità di denaro non è capitale se non si valorizza, cioè crea plusvalore, che può essere ottenuto solo attraverso il rapporto salariale. Finché c’è salario c’è capitalismo, c’è sfruttamento, e poco importa se al posto di un capitalista proprietario del capitale c’è una società anonima o un fondo pensioni o anonimi funzionari statali.
La nazionalizzazione, in un paese in via di sviluppo, ha la funzione di sottrarre le terre, le miniere, il petrolio e i gas al dominio diretto dell’imperialismo, a beneficio soprattutto della borghesia locale, ma, se la ricchezza è ingente, anche della piccola borghesia e di settori del proletariato. Ma i rapporti di forza –attraverso operazioni finanziarie, commerciali o militari – permettono alle grandi compagnie o di impadronirsi nuovamente, o almeno beneficiare abbondantemente, attraverso il meccanismo dei prezzi delle materie prime, dei beni altrui.
Nei paesi sviluppati la nazionalizzazione è quasi sempre una truffa – è risaputo – e consiste nel far pagare ai contribuenti la ricostruzione di industrie distrutte dalla guerra o da una crisi, per poi privatizzarle quando tornano a dare profitti. Persino in una situazione di dittatura del proletariato, se l’economia è arretrata e semidistrutta dalla guerra rende impossibile il superamento della forma salariale, il mercato torna ad affermarsi, e nessuno ebbe questa terribile consapevolezza più di Lenin: “Lo stato è nelle nostre mani, ma ha forse funzionato a modo nostro, nelle condizioni della nuova politica economica? No…La macchina sfugge alle mani di chi guida; si direbbe che qualcuno sia seduto al volante e guidi questa macchina, che però non va nella direzione voluta, quasi fosse guidata da una mano segreta, illegale.”
E quando Ustrialov scrisse: “Io sono per l’appoggio al potere sovietico in Russia, sebbene sia stato un cadetto, un borghese e abbia appoggiato l’intervento… sono per l’appoggio del potere dei soviet perché esso si è messo lungo la strada la quale rotolerà verso il comune potere borghese”, Lenin disse che si trattava della “verità di classe detta dal nemico di classe”(4)

L’espropriazione non riguarda solo la terra, il frutto del lavoro, ma ogni aspetto della vita sociale. Esproprio del tempo “libero”, i lavoratori che devono stare sempre pronti col telefonino accanto in attesa di una chiamata del padrone; i tempi perduti sui mezzi per recarsi al lavoro e tornare. Esproprio della scienza: lo scienziato asservito, costretto a ricercare, non prodotti migliori, ma surrogati che permettano di sostituire materie prime costose con altre scadenti; milioni di brevetti comprati dalle grandi imprese e tenute nei cassetti per non favorire la concorrenza. Esproprio delle competenze individuali, laureati o tecnici altamente specializzati costretti a lavori dequalificati, alla precarietà o alla disoccupazione. Esproprio dello spazio vitale, con la speculazione edilizia che occupa sempre più il territorio, distruggendo campi e orti; i parchi, le zone ecologiche, spesso sono soltanto fiori all’occhiello dei governi, per nascondere la crescente distruzione, desertificazione, avvelenamento del territorio. Esproprio dei servizi sociali, dell’assistenza medica, sempre più privatizzata. Persino i WC pubblici vengono sostituiti da altri, con doppia porta come le banche, invalicabili per chi non ha la monetina da inserire nell’apposita fessura.

Dipendiamo dal capitale direttamente, o tramite lo stato o gli enti locali, sempre più asserviti al capitale a causa del debito pubblico, per non parlare degli immondi intrallazzi che accompagnano sempre la gestione del potere nel capitalismo maturo, anche nei paesi che riescono a mantenere una parvenza di rispettabilità, come Norvegia, Danimarca, Svizzera…
Il capitale finisce col togliere alla forza lavoro la sua unica possibilità, quella di trovare occupazione, e il disoccupato non è un uomo libero, è un ricattato. I disoccupati, dice Marx, appartengono al capitale, che può attingere al loro lavoro in qualsiasi momento, alle sue condizioni.
I disoccupati, è ovvio, devono avere un assegno per sopravvivere, ma il reddito di cittadinanza generalizzato non è la soluzione del problema. Una completa automatizzazione nella società capitalistica non è possibile, perché le macchine possono produrre tutto, tranne che il plusvalore. Una macchina trasferisce pro rata, nel corso del suo esercizio, il proprio valore ai prodotti, non ne crea di nuovo. Una macchina che costi un milione e che produca negli anni un milione di sedie, trasferisce ad ogni sedia 1 euro, il resto del valore è dato dalla materia prima e dal plusvalore. L’automazione è spesso una forma di ricatto per spingere i lavoratori ad accettare le condizioni volute dai capitalisti. Si può fare l’ipotesi di un paese completamente automatizzato che succhia plusvalore da quelli arretrati, approfittando del dislivello di produttività, ma non di un mondo capitalistico completamente automatizzato. Perché al capitalista non interessa il prodotto in sé, ma il plusvalore.
Discorso diverso per il comunismo, dove si potrebbe realizzare il sogno di Aristotele, di far lavorare, al posto degli uomini, gli automi di Dedalo o i tripodi di Efesto. Ma questo nell’avvenire, perché nelle prime fasi ci sarà un immenso lavoro da compiere per riparare i colossali danni del capitalismo, inflitti alle popolazioni, alle condizioni di vita, alla natura. Un lavoro duro, ma ne varrà la pena.

Ma tornando all’oggi, non è possibile liberare dal lavoro l’intera popolazione, quindi ne rimarrebbe una parte, sfruttata fino all’inverosimile, mentre la rimanente, tagliata fuori dal mondo del lavoro, perderebbe ogni possibilità reale di combattere contro il capitale.
Marx voleva affrontare il capitale nel suo punto cruciale, e diede un particolare rilievo alla lotta per la riduzione dell’orario di lavoro mediante una legge, “la trasformazione della ragione sociale in forza sociale… Facendo introdurre tali leggi, la classe operaia non accrescerà la forza del potere governativo. Come vi sono leggi per difendere i privilegi della proprietà, perché non ne dovrebbe esistere per prevenire gli abusi?…La classe operaia allora, tramite una misura generale, farà quanto essa tenterebbe invano di compiere con un numero altissimo di sforzi individuali”. “Consideriamo la riduzione della giornata lavorativa la condizione preliminare, senza cui abortiranno tutti gli ulteriori tentativi di miglioramenti e di emancipazione”.(5) Questa risoluzione fu approvata all’unanimità dal Congresso di Ginevra dell’Internazionale.
Naturalmente, si troveranno compagni ultrarivoluzionari che diranno: queste indicazioni erano giustissime allora, ma non valgono più oggi, perché siamo nell’età imperialistica. Se questi compagni rileggessero Lenin, vedrebbero quante volte ha cercato di mettere in luce, oltre alle differenze, la continuità dell’imperialismo rispetto al capitalismo concorrenziale, nelle sue polemiche con Piatakov, Bucharin, Radek.
La lotta per la riduzione dell’orario di lavoro, colpendo direttamente il profitto, e liberando tempo, è l’unica “anticipazione socialista” all’interno della società borghese, permette a un numero maggiore di proletari di rimanere nel mondo del lavoro, e quindi di essere in grado di contrastare il capitale.

(¤) da: http://www.pane-rose.it

Note
1) Karl Marx, “Grundrisse, Il processo di produzione del capitale –Plusvalore” “I liberi negri della Giamaica”. “La funzione storica del capitale”.
2) Karl Marx, “manoscritti economico –filosofici del 1844”, “Il lavoro estraniato”.
3) Karl Marx, Capitolo VI inedito de “Il Capitale”, “Sfera della circolazione e sfera della produzione: il lavoro salariato presupposto necessario della produzione capitalistica” “Il capitale, mostro animato”; riprodotto anche nell’antologia “L’alienazione”, a cura di Marcello Musto, pp. 90/91.
4) Lenin, XI congresso del PC(d)R, Rapporto politico del Comitato centrale, 27 marzo 1922.
5) Karl Marx, “Istruzioni per i delegati del Consiglio centrale provvisorio sulla singole questioni, Congresso di Ginevra dell’Associazione Internazionale dei lavoratori, 1866.

 

 

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Per il rifiuto del lavoro

di Gigi Roggero

agosto 2015

Il testo di Bifo ha soprattutto un merito: quello di porre di nuovo il tema di una critica radicale del lavoro. Non del lavoro salariato o del lavoro sotto padrone, come se ce ne fosse un altro buono, da salvare o addirittura ricercare. No, il lavoro sans phrase nel capitalismo è questa roba qui: sfruttamento. Chi l’ha definito un bene comune, o è un utile idiota, oppure è idiota e basta.

Ma come si fa oggi, chiederà il sinistro in agguato, a formulare una critica radicale del lavoro quando la disoccupazione in Italia supera il 12% e quella giovanile viaggia intorno al 42%? Rispondiamo, al contrario, che proprio oggi ce n’è più bisogno che mai. E che forse è proprio la dismissione di una simile radicalità all’origine di tanti problemi e insufficienze politiche che connotano i militanti e i movimenti. Diciamo di più: è venuto il momento di riprendere in mano e aggiornare, dentro la nuova composizione di classe, la questione del rifiuto del lavoro.

Procediamo con ordine e sinteticità nello spiegare questa affermazione e nello sviluppare quanto Bifo scrive, mettendo al contempo in evidenza alcuni nodi irrisolti.

In primo luogo, disoccupazione, precarietà e impoverimento dilaganti significano non una diminuzione bensì un aumento del lavoro. Per procacciarsi i soldi per campare, bisogna arrabattarsi tra svariate occupazioni, perlopiù saltuarie e discontinue. E anche la ricerca di un brandello di salario diventa a tutti gli effetti tempo di lavoro. Chi – nel sindacato e nella sinistra – per anni ha proposto e ancora continua a proporre il ritorno al posto fisso come panacea di tutti i mali, dimentica o meglio ha sempre avversato la radice di classe della flessibilità, cioè il rifiuto del lavoro e la lotta contro la fabbrica. Chi oggi continua a esaltare la bellezza della libera scelta del precario, non si è reso conto che dopo gli anni ’70 i rapporti di forza si sono invertiti a vantaggio del nostro nemico. Così la flessibilità operaia, da minaccia e arma contro il governo della forza lavoro, si è rovesciata in precarietà, in quanto dispositivo per allargare i tempi e i luoghi di estrazione del plusvalore. E il rifiuto del lavoro si è trasfigurato nella sua proliferazione, oppure nella sua assunzione acritica in forma alienata e senza reddito. Più lavoro e meno soldi, è la parola d’ordine del capitale.

In secondo luogo, negli ultimi decenni c’è stata una costante lavorizzazione dell’agire umano, corrispondente alla socializzazione e incorporamento dei saperi nel lavoro vivo. La formula della “vita messa al lavoro” crea più problemi di quanti ne risolva, preferiamo invece indagare quali sono le nuove gerarchie di un’accumulazione del capitale che mangia continuamente capacità umane e mette in produzione spazi che un tempo erano dedicati alla riproduzione sociale. Non ripetiamo qui intuizioni e analisi sulla cognitivizzazione del lavoro, che riteniamo ancora in buona misura utili a patto di ripensarli alla luce della crisi. Va però notato che, a partire da premesse almeno in parte corrette, si sono talora sviluppati cortocircuiti e conclusioni alquanto discutibili. Ce n’è una in particolare che subito balza agli occhi: nel momento in cui l’agire umano si lavorizza, si tende a perdere la specificità del lavoro e a farlo divenire comune, confondendo così tra valorizzazione capitalistica e ricchezza, tra attività e merce, tra sfruttamento e liberazione. È il calco speculare dell’idea di un capitale ritenuto puramente estrattivo, non più un rapporto sociale antagonista da distruggere ma un agente parassitario di cui sbarazzarsi. La (parziale e coatta) autonomia nelle forme della cooperazione sociale per il capitale sono qui scambiate come conquista di (piena e libera) autonomia contro il capitale. La composizione tecnica è immediatamente tradotta in composizione politica, e Marx viene sostituito con Proudhon. Paradossalmente, partendo da un polo opposto, si arriva alla stessa nefasta conclusione della secolare tradizione della sinistra, marxista e socialista: l’esaltazione del lavoro come strumento di emancipazione. Tra materiale e immateriale, cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia: il lavorismo.

Domanderà qualcuno – ed è la terza questione: come si fa a parlare di rifiuto del lavoro quando a essere messi al lavoro sono saperi, linguaggi, passioni, relazioni, la stessa soggettività? Ci sembra qui di ravvisare tre vizi di fondo. Il primo: a partire dalla pur corretta esigenza di individuazione delle peculiarità delle trasformazioni del lavoro e della produzione contemporanee, si giunge all’errata conclusione che nelle forme passate del lavoro, per esempio nella fabbrica taylorista, non vi fossero – pur con evidenti differenze di gradazioni, qualità e utilizzo – saperi, linguaggi, passioni, relazioni, la stessa soggettività. Non è così: anzi, la produzione di soggettività è sempre stata contenuto e posta in palio del rapporto di lavoro e dunque di sfruttamento. Da qui consegue il secondo vizio: immaginare saperi, linguaggi, passioni, relazioni e più complessivamente la soggettività come spazi liberi e valori in sé positivi. La soggettività, invece, non è né buona né cattiva: è una merce specifica, sottoposta continuamente ai processi di sussunzione e colonizzazione del capitale, tale da renderla accettante e perfino contenta. E che può, all’opposto, attraverso processi di lotta e formazione, divenire controsoggettività, demercificandosi. La soggettività è allora un campo di battaglia. Certo, si insisterà, quando viene lavorizzata la riproduzione, quando al centro vi sono per esempio le relazioni e la cura, il rifiuto del lavoro sembra impraticabile. E tuttavia, non dobbiamo mai dimenticare il ricatto che costringe il lavoratore o la lavoratrice della cura a vendere la propria forza lavoro, e che viene invece occultato e scaricato sul rapporto diretto con l’utente del servizio. Insomma, se non demistifichiamo questo processo, se non torniamo a dare un volto al padrone che sembra smaterializzarsi e ci accontentiamo di contemplare gli spettri astratti della finanziarizzazione, continueremo a scambiare per libera autovalorizzazione ciò che è solo il selfie del nostro sfruttamento. Terzo vizio: non considerare la stratificazione dentro la composizione e l’industrializzazione del lavoro cognitivo, che si è accelerata e intensificata nella crisi. Schematizziamone la gerarchia interna: vi è in alto una piccola frazione (denominata “quinto stato”) che si colloca o smania per collocarsi tra le elite dell’innovazione capitalistica, nuovo aspirante ceto medio in quanto funzione di mediazione e contrapposizione alla lotta di classe; gli strati in mezzo fanno fronte ai processi di declassamento e lottano, spesso senza successo, per vedere riconosciute le proprie competenze; le masse degli strati bassi – che si allargano anche a quelle figure operaie e del lavoro ritenute “tradizionali” – sono alle prese con la serialità e banalità del proprio lavoro e dei propri gesti. Se il ristretto strato alto va verso l’altra classe, le figure in cui si incarnano gli altri due sempre più trovano nella loro occupazione l’oggetto mistificato e alienato delle loro passioni; e, in basso, non trovano nient’altro che una terribile serialità e monotonia rispetto a cui il rifiuto è perfino istintivo.

Quarta e ultima questione, problematicamente centrale nell’argomentazione di Bifo: le tecnologie. Non facciamo nulla di nuovo nel ricordare come esse non siano niente affatto neutrali, vi è chi le comanda e chi ne è comandato. È la questione decisiva dei rapporti di forza, troppo spesso scordata dal pensiero critico e radicale a partire dagli anni ’80. Ma non si tratta solo di appropriarsene, cambiando di segno il comando. Perché le tecnologie sono a loro volta vettori di comando, che si incarnano nel lavoro vivo che le utilizza, producendo effetti di trasformazione della soggettività e mangiando capacità umane, facendo dunque perdere forza – anche contrattuale – ai lavoratori. Così, se è vero che con lo sviluppo tecnologico il capitale costante in parte viene incorporato nel lavoro vivo, o quantomeno ha continuamente bisogno di essere irrorato dalla cooperazione sociale, è altrettanto vero che ciò determina al contempo l’incorporamento dell’accettazione e dello sfruttamento. Accelerazionismo e primitivismo sono entrambe risposte sbagliate al problema, perché immaginano lo sviluppo del capitale come dato oggettivo, di fronte a cui non ci resta che l’illusoria scelta di velocizzarlo o respingerlo. Il punto è invece guardare alla capacità umana come potenza soggettiva di classe, per interrompere, rovesciare e deviare quello stesso sviluppo: si tratta al contempo di preservare facoltà non macchinizzate e di controutilizzare quelle macchinizzate. Perché per produrre sapere autonomo bisogna innanzitutto rifiutare sapere capitalistico.

Concludiamo, riassumendo e rilanciando in avanti. Il lavoro è sfruttamento, è comando, è produzione di una soggettività che accetta il capitalismo, per ricatto o piacere, o per entrambi. Ecco perché, per il capitale, di lavoro ci sarà sempre bisogno. Nella società dentro cui siamo collocati, infatti, il lavoro non produce semplicemente ricchezza, ma innanzitutto capitale. E produce la forza lavoro come capitale. Il mercato è il luogo dell’incontro coatto tra i padroni, in quanto datori di lavoro, e i proletari, in quanto datrice di capitale. Quando i proletari rifiutano di dare capitale, qui si apre la strada alla loro estinzione in quanto parte interna al capitale e di costruzione come parte per sé, in autonomia.

Attenzione, però: il rifiuto del lavoro non è un vezzo sloganistico dei militanti, questa è mera autoreferenzialità identitaria. Quel rifiuto agisce dentro e contro i rapporti di sfruttamento, viene praticato non come ideologia ma come bisogno: per risparmiare fatica, guadagnare tempo, recuperare reddito e sottrarre energie a chi ci sfrutta. Assume forme necessariamente ambigue, che non si ripetono mai uguali a se stesse. Nostro compito è oggi fare ricerca sulle nuove forme di rifiuto, potenziale o reale, storicamente determinate: rifiuto del lavoro gratuito, rifiuto del lavoro di merda, rifiuto del lavoro per pochi spiccioli, rifiuto del lavoro banalizzante. E probabilmente tante altre che non sappiamo, perché da questo punto di vista le nostre lenti sono insufficienti o addirittura sbagliate.

Nelle forme singolari, disperse e spontanee il rifiuto ha una politicità intrinseca, che può e per noi deve trovare una forma di generalizzazione collettiva. Solo in questo passaggio diventa un’arma politica contro il padrone, per l’affermazione di una rigida indisponibilità alle sue esigenze, la riappropriazione di reddito e spazi di libertà, la conquista di un terreno di attacco e non più solo resistenziale. Qui un punto di vista autonomo è irriducibile alla visione anarchica, che sfocia nell’esaltazione astorica dell’alienazione o del nichilismo, senza rendersi conto che oggi alienazione e nichilismo sono funzionali al capitalismo, messe in vendita come merce. Sono il mito di “The Wolf of Wall Street”, del consumo autodistruttivo e dell’uomo finanziarizzato. Oppure sfocia nella costituzione di microcomunità di amici, metropolitane o rurali, incuranti della materialità dei rapporti sociali e di forza tra le classi, che sognano semplicemente un microcomunismo già realizzato nell’autogestione della propria marginalità. Senza rendersi conto, in questo caso, che quella marginalità è interamente sussunta negli ingranaggi della governance capitalistica.

Avanti, allora, per individuare le molteplici tracce del rifiuto di essere forza lavoro, dunque capitale. Alla ricerca delle pratiche concrete già esistenti da trasformare in una negazione costituente, in un no che afferma, in un rifiuto potenzialmente produttivo di nuovi rapporti sociali. È ciò che noi chiamiamo, ancora e in forma nuova, costruzione dell’autonomia.

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