Quando l’indignazione è lotta, Stéphane Hessel non abita in Italia!
di Simone Rubino, Verdi 15 Occupata
La problematizzazione permanente, direbbe qualcuno, è affare dei guastafeste e degli irriducibili. Noi occupanti della Verdi 15 non abbiamo affanni nel riconoscerci in entrambe le categorie, pensiamo che l’esercizio della discussione, quindi dell’intelligenza, sia un processo che consegna forza ed energia alle collettività in lotta, all’interno di una sperimentazione e verifica continua. Ragione per la quale partecipare e prendere parola nella sessione ‘Indignati’ ci conduce sul terreno del confronto, anche diversificato, del punto di vista anche differente.
Romano Alquati scriveva: ‘essere caparbiamente rivoluzionari quando non ci sono rivoluzioni non è né divertente né tanto invidiabile’. Citazione che, in apertura, ci è utile per porre una questione che riteniamo trasversale ai nodi che faremo emergere con il nostro intervento, essendo sintesi di un umore ambivalente, che possiamo trascinare fino all’oggi, assumendolo in un contesto tanto anomalo quanto potenziale. Riscontriamo la necessità di fare i conti con livelli di realtà insopprimibili, perché chi ha l’ambizione di rovesciare un sistema economico-politico, culturale, che ritiene ingiusto, elitario e diseguale, vive l’urgenza di non accontentarsi della narrazioni più glamour e di ostinarsi, collettivamente, in un’inchiesta ed abitazione del vivente spoglia di ogni sovrastruttura.
Ragione per cui una riflessione sui movimenti indignati presuppone anche una decostruzione politica di un paradigma probabilmente abusato, snaturato ed adattato alle esigenze mercantilistiche di una società dei media che ci vorrebbe tutti spettatori, plaudenti o silenziosi, dinnanzi allo spettacolo del moderno. Ovviamente, dal nostro punto di vista, di studenti e studentesse occupanti di una residenza universitaria, la critica deve essere posta all’architettura integrata tra politica e media, che viene giocata nella valle della società della rappresentazione e dell’opinione. Non è forse questo lo spazio, perciò lo rinviamo, ma politicamente pensiamo sia importante evidenziare, quando diamo un giudizio di valore, come ogni esperienza di movimento reale annoveri ricchezze e limiti, forze e debolezze, costituendo la base quotidiana dalla quale ogni giorno ripartire, in una progressione costituente.
Jean François Lyotard individuava il tema della decadenza per descrivere la natura capitalistica, annoverando la crisi come ‘condizione di possibilità di funzionamento’: scrivendo che il capitale non conosce una crisi e che la decadenza non è un processo automatico, è invece il suo funzionamento che presuppone e comporta la decadenza, la crisi. Analisi quanto mai indispensabile per affrontare lo scenario dell’oggi, nel consumarsi progressivo di una crisi sistemica profonda e vorace, dentro la quale il capitale – ancora disordinatamente – si muove nella ricerca di un’exit strategy comandata dalla potenza economica e politica di un finanzcapitalismo – come lo definisce Luciano Gallino – che plasma le politiche di lacrime e sangue ordinate dai governi dell’austerity. Questa è la bozza di un disegno che ci è nemico, che riteniamo sia fondamentale conoscere per poterlo affrontare, vivere, magari cambiare. Non sono i lamenti della nostalgia industriale a sovvenirci, tantomeno gli incubi di dittature tecnocratiche impassibili a critiche e contestazioni.
Nelle faglie della crisi trovano casa quei movimenti sociali che le interpretano come opportunità, come spazio possibile per spingere in avanti una voglia di cambiamento che possiamo definire globale, da Tunisi a New York, passando per Il Cairo, Madrid, Atene, Roma. Se il paradigma mediale dell’indignazione, all’occorrenza, tutto include (ad esempio traducendo una rivolta di popolo in un ‘movimento dei gelsomini’, come fatto per la Tunisia, laddove ribellarsi non ha voluto dire ‘vogliamo usare Facebook’ ma ‘pretendiamo reddito e libertà’), con una simile semplicità esclude.
Con movenze pressoché coloniali la narrazione mainstream, nella descrizione dell’onda dell’indignazione, ha spesso stipulato la rimozione delle rivoluzioni e sommosse nordafricane del 2011, derubricandole come vicende sconnesse dal mondo occidentale perché ‘pericolose’, nella misura in cui riproducibili. Ma la totale crisi di civiltà dell’oggi frantuma le velleità della suddivisione dei mondi in fasce di modernità e progresso. Quindi se dobbiamo assumere la categoria dell’indignazione dobbiamo farlo con estremo realismo ed evoluta pragmaticità, gridando ad alta voce che gli indignati non nascono né con la penna di Stéphane Hessel né con altre favolette immaginarie, ma con il sacrificio di Mohamed Bouazizi e le piazze di Tunisi! Le rivolte del Nord Africa hanno sprigionato energie e intelligenze, per quanto in contesti differenti, fino a poco prima sopite. Puerta del Sol e plaça de Catalunya si sono riempite riproducendo le dinamiche delle casbah di Tunisi e delle tendopoli di piazza Tahrir, la lotta massificata non si è data come prodotto del libretto paternalistico del francese ma come gemma di resistenza alla sinfonia dei tagli e dell’austerity di Luis Zapatero, esaltato come stella polare da una certa sinistra, ora dimenticata, spenta e sconfitta.
Le peculiarità degli sfasciati Stati nazione restano sovrane ed ineludibili, anche per il cambiamento e per la contestazione. La piazza spagnola ha conosciuto – in termini di massa – il primo spazio comune dopo la caduta del franchismo, riempiendo un vuoto collettivo, riappropriandosi del teatro pubblico. Nella dinamica della riproducibilità politica nessun altro esperimento è riuscito a esprimersi in modalità meccanica, allorché ovunque si conservano resistenze particolari nei processi di soggettivazione ed organizzazione collettiva, esprimendo una riluttanza contestuale significativa. Limite che non ha comunque compromesso il contaminarsi di sperimentazioni, linguaggi e pratiche, che costituiscono la linfa dei movimenti globali contro la crisi.
Difatti, ad un anno di distanza dal maggio delle acampadas spagnole, si è presentata la straordinarietà di Occupy Wall Street: dirompente perché situata nei confini della massima potenza capitalistica, gli Stati Uniti, rivoluzionaria perché abitante lo scenario dell’ideologismo individuale che sovente ha difficoltà a contemplare – nella stratificata bolgia culturale americana – la pratica della sperimentazione collettiva. È, come direbbe Michel Foucault, un’embrionale dichiarazione di guerra al biopotere che governa il mondo: la trama biopolitica si presenta come eccedenza nell’antagonismo tra chi comanda e chi dovrebbe obbedire, laddove ricomprende una sussunzione integrale della vita, oltre la fordistica cesura tra tempo di lavoro e tempo libero, nell’assoggettamento ad un sapere-potere economico che governa le soggettività. Quindi Occupy Wall Street rappresenta un passaggio fondante, superando – in potenza politica – anche la dimensione delle acampadas spagnole, laddove punta diritto il dito, individua chiaramente una controparte da combattere: il quartiere finanziario di Wall Street. L’esperienza americana compie un passo fondamentale, non limitandosi alla contestazione dei governi o delle banche (si pensi alla Grecia, laboratorio d’Europa), ma occupa una delle zone rosse del finanzcapitalismo, focalizzando la sua attenzione su uno dei cuori della bestia globale, mettendo sotto torchio quella che è stata definita la classe transnazionale, alla luce di un metodo (quello delle porte girevoli, citando ancora Luciano Gallino) che sbatte il sistema capitalistico sul banco degli imputati della crisi.
Nella dimensione della crisi del debito sovrano, una posizione di rilievo è assunta dall’Italia, nella particolarità di un contesto in progressiva mutazione, con accelerazioni di (non) assestamento che costringono il belpaese nel cerchio di un’anomalia peculiare quanto emblematica dell’Europa che politicamente si squaglia. La morfologia di un paese in crisi è innanzitutto data dalla radicale frammentazione sociale che contraddistingue il vivente, dall’esistenza di tanti ma sconnessi focolai di mobilitazione che si estendono dentro i panorami metropolitani, incontrando non solamente il dissiparsi della struttura partitocratica nostrana ma anche le resistenze infantili di coloro che rifuggono dal comprendere la fase che cambia. In Italia le acampadas non hanno trovato la loro piazza. Il nostro paese è l’esempio più evidente della debolezza dei meccanismi automatici di riproduzione della protesta, perché la composizione sociale vive in molteplici contraddizioni rimaste irrisolte, che ancora attende lo spazio per poter ricomporre segmenti sociali differenti, oggi troppo poco comunicanti, incapaci quindi di contaminarsi.
La giornata del 15 ottobre 2011, la data della soprannominata global revolution, qualche indicazione ce l’ha fornita. Laddove più piazze, differenti nella composizione ma non in antitesi, si sono incontrate in direzione di piazza San Giovanni, che poco dopo è divenuta il teatro di una rivolta collettiva genuina e potente (al di là di quello che il Partito de La Repubblica abbia narrato e generato mediaticamente). Non è andata come si pensava: la sommossa romana del 15 ottobre ci indica chiaramente che, in Italia, ad essere cascato nella trappola della crisi c’è anche il prodotto di quei movimenti basati sul primato dell’opinione pubblica (come li definisce Silvano Cacciari), surclassato dall’irruenza di una composizione sociale, quella del precariato metropolitano, che è andato – ancora solo episodicamente, ma il dato politico resta – a rompere quel gioco di sussunzione coatto agito nel gioco politica/media. Il meta-dispositivo biopolitico si è procurato le prime crepe, nello scorrere congenito di una crisi della rappresentanza politica che non conosce passi indietro e concessioni. Anche le recenti tornate elettorali chiariscono il quadro, nella complessità ed ambivalenza del caso: la casta politica partorisce il mostro dell’anti-politica, non comprendendo però la genesi di una radice che è politica, che si candida a divenire l’ennesima contraddizione dentro il sistema, per quanto promotrice di un’idea di risoluzione soprattutto legalitaria e poi riformistica che non potrà aggiustare una giostra obsoleta.
La Verdi 15 Occupata nasce in mezzo a questi interstizi della crisi, forti del ciclo di lotta studentesco contro la riforma Gelmini, che ha certo rappresentato un momento importante per tentare di opporsi ad una riforma dell’istruzione ritenuta insopportabile, manifestando al contempo anche la tensione massificata di una generazione per un’istanza di change irrappresentabile e incompatibile. Nel deserto di mobilitazioni delle università nostrane, nel fisiologico riflusso dopo la sbornia di piazze No Gelmini, la Verdi è un’anomalia non solamente torinese, avente l’ambizione di costruire discorso dentro e contro la crisi, nel perpetuo interrogativo di immaginare ed elaborare uno spazio comune d’alterità, sottratto ai processi di valorizzazione e comando. Sergio Bologna scrive dell’urgenza nel nostro paese di trovare nuove sedi di unità, candidando le università e le loro capacità di resistenza come luoghi ideali dove agire per la ricomposizione e per rilanciare il conflitto. Questo si traduce per noi in conferma di progetto, laddove la nostra indignazione è la lotta, nel convincimento che il conflitto sia mezzo imprescindibile per il cambiamento.
Stéphane Hessel esemplifica quello schema capitalistico che riveste l’amaro compito di rendere inefficaci i movimenti, espropriandoli di politicità ed esacerbandoli di quella moralità che non solamente si riduce in brand pubblicistico ma che sconfina nell’impinguare quel moloch del primato dell’opinione pubblica, che mai sarà la nostra casa perchè la Verdi 15 abita nella lotta.
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