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Quattro chiacchiere su Logistica e No Tav

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In occasione delle mobilitazioni contro il summit del G20 in corso ad Amburgo, alcuni compagni della rete umsGanze hanno posto alcune domande alla redazione di InfoAut in relazione al nostro coinvolgimento nelle lotte contro l’Alta Velocità e a fianco dei lavoratori e lavoratrici della logistica. La chiacchierata è stata anche l’occasione per entrare nel merito e nel metodo di alcuni nodi politici che ci sembrano importanti e utili al dibattito collettivo.

 

Voi vi occupate da tempo di “logistica”. Cosa vi interessa esattamente? Quali sono invece i termini del vostro coinvolgimento nella lotta No Tav? Si tratta sempre di logistica?

Una prima premessa alla domanda: quando guardiamo a una lotta, a un movimento sociale, a qualunque dimensione di conflitto che emerge nella società, a cosa pensiamo? A chi organizza il contesto da un punto di vista capitalistico o a chi lo sfida dal basso, per cambiarlo?
La nostra risposta è la seconda opzione. Certo, è importante conoscere come il nemico è organizzato e si struttura, ma questa esigenza nasce come passaggio successivo a qualcosa che viene prima: l’insofferenza per una condizione esistente percepita come invivibile, ingiusta, ecc.. e contro cui ci si ribella. Questo è il punto di vista con cui – ugualmente e differentemente – guardiamo, ci interessiamo e partecipiamo a lotte come il No Tav o quelle che si svolgono nel comparto della Logistica. Riguardo a Logistica e No Tav, il rapporto che voi individuate è quello per cui il Tav sarebbe un pezzo della logistica complessiva dell’Unione Europea. Cosa vera dal punto di vista delle persone, nella misura in cui l’Europa sta puntando a uno sviluppo/integrazione comunitaria nel senso di una alta performatività economica che presuppone inter-connessione, velocità di spostamento e investimento strategico su luoghi ad alta concentrazione di capitale umano e scientifico-tecnologico (cluster). Strategia di sviluppo che tende a favorire l’interconnessione tra questi poli, a detrimento dello spazio restante, concepito e attraversato come mero corridoio, spazio vuoto, liscio. Uno dei significati più profondi della lotta No Tav è contro la riduzione di un territorio, con tutto il suo sostrato di sedimentazioni storiche e relazionali, a mero “corridoio” per il trasporto delle merci.
Se noi guardiamo però dal punto di vista di chi lotta, il denominatore comune è la ribellione a una situazione o a condizioni vissute come intollerabili da chi le subisce, in quanto imposizione di un determinato modello di sviluppo sul territorio in cui si vive, nel caso dei No Tav; come iper-sfruttamento nel caso dei lavoratori della logistica. Per i No Tav la lotta parte dall’indisponibilità di una popolazione che abita un territorio già ampiamente infrastrutturato e antropizzato a subire un’ulteriore intensificazione di questo processo. È una lotta “locale” contro quella dell’“interesse generale” rappresentato dai costruttori, dal progetto di un’Unione Europea capitalista, dai politici che fungono da connettori tra committenti ed esecutori. L’interesse per la lotta dei lavoratori della logistica parte dal proliferare improvviso di lotte rivendicative sul salario e sulle condizioni di lavoro (ritmi, straordinari..ecc). Poi, chi solidarizza con questi lavoratori, approfondisce e inizia a scoprire che “la Logistica” è anche più di un comparto del settore Industria. Essa riveste una centralità strategica strutturale nell’organizzazione globale del lavoro. Centralità aumentata con l’irruzione del paradigma della Gig Economy. Si scopre quindi che questi lavoratori hanno potenzialmente un potere enorme: in quanto situati in un ganglio del sistema produttivo globale, possono interrompere il ciclo e arrecare molti danni.

Qual è la situazione dei lavoratori della logistica in Italia (contratti, paghe…ecc)? Come si è arrivati allo sciopero?

Il settore della logistica italiana è esploso (in ritardo rispetto al resto d’Europa) alla fine degli anni Novanta, e da allora la crescita non si è fermata. Secondo Confetra (sigla di Confindustria che raccoglie le imprese del settore) oggi [dati del 2014] la logistica italiana vale 200 miliardi di euro (il 13 % del Pil/Gdp) e nel 2012 ha dato lavoro a 460mila persone. È presumibile che negli ultimi anni sia arrivato oltre i 500.000 lavoratori. I facchini, il livello più basso e numericamente consistente della catena logistica (quelli che sono i veri e propri “operai della logistica”), sono in larga maggioranza stranieri extra-comunitari (soprattutto nord-africani) e in minore ma significativa percentuale est-europei (comunitari ed extra-comunitari). Gli italiani all’interno di questa composizione della forza-lavoro sono nettamente minoritari, non più del 10%. Si tratta quasi esclusivamente di uomini, per la grande fatica fisica che il lavoro di carico-scarico comporta. Ci sono però significative eccezioni, come dimostra l’importante lotta delle donne della Yoox (azienda della vendita di abbigliamento on-line) a Bologna. Le condizioni di questi lavoratori sono sostanzialmente quelle del lavoro migrante: altissimo sfruttamento (ritmi intensi, straordinari spesso non pagati), ricatto sul permesso di soggiorno (forte discrezionalità nel regolarizzare il lavoratore). Nel caso delle donne c’è anche la variabile di genere, con lo spettro sempre presente delle molestie e intimidazioni a sfondo sessuale, oltreché il persistere di un differenziale salariale uomini-donne. A tutto questo va aggiunto che buona parte dei dipendenti del settore, vengono assunti non in forma diretta dall’azienda, ma attraverso l’intermediazione delle cooperative, spesso legate alla LegaCoop, uno dei bracci economici del Partito Democratico. Spesso queste cooperative sono messe su da persone legate in qualche modo alla criminalità organizzata, facilmente disposte all’impiego della violenza “extra-economica” (o alla sua minaccia) per “far ragionare i lavoratori”. L’emergere a livello sindacale di queste condizioni di lavoro e sfruttamento è avvenuto grazie all’investimento di lungo corso del sindacato SiCobas e al successivo e determinante appoggio di compagni e compagne nell’organizzazione di scioperi con picchetti (blocco delle merci). Ma prima c’è stato anche l’emergere di singoli momenti di lotta e rifiuto del lavoro in forme spontanee, tra i lavoratori stessi non ancora sindacalizzati.
L’irruzione del sindacato ha dato risultati immediati: la percezione di avere una forza, di non essere soli, una bandiera in cui identificarsi, una rappresentanza ufficiale di fronte al padrone attraverso cui si può vincere la vertenza (ma l’uso della lotta diretta, il picchetto, rimane l’arma essenziale: la trattativa avviene sempre dopo). Proprio per la dimensione strategica e delicata del settore della logistica nell’economia globale, ogni fermata del lavoro, ogni blocco delle merci, arreca danni ingenti allo scorrimento del sistema. Il padrone è quindi disposto a concedere parziali correzioni sui ritmi e innalzamenti di salario. Spesso si tratta di condizioni già presenti nel contratto nazionale di settore, semplicemente non rispettati dai datori di lavoro, grazie al ricatto sul permesso di soggiorno. Tutto questo ha innescato un ciclo progressivo di aumento delle lotte nel settore, degli iscritti per il sindacato e di piccole ma importanti vittorie sul piano salariale. Ovviamente il padrone si è organizzato per contenere questa estensione e intensificazione della lotta: procedendo a una tendenziale, dove possibile, automazione del lavoro [quello che voi vedete nel caso Amazon è la punta più avanzata] o divisione politica dei lavoratori, usando tutti i mezzi possibili (vedi il tentativo fallito di screditare la figura del segretario dei Si Cobas Aldo Milani, con false accuse).
Un’altra frazione di questa forza-lavoro è quella dei driver, che stanno in un punto diverso della catena logistica. Qui è più alta la presenza di lavoratori autoctoni ma ci sono anche moltissimi lavoratori est-europei (pochissimi i nord-africani). Questi si trovano spesso contro i facchini perché nei blocchi attuati da questi ultimi sono i primi ad essere colpiti, non potendo svolgere il loro lavoro e subendo, dall’alto, la pressione sui tempi di consegna da parte della catena di padroni che sta in alto. Talvolta questo scontro può raggiungere esiti nefasti, come è accaduto a Piacenza dove un facchino è morto travolto da un camionista che ha forzato il picchetto. In diverse città inizia però ad esserci (talvolta proprio grazie ai SiCobas) una sindacalizzazione di questa forza-lavoro. Nei decenni scorsi lavoro ben pagato e con ampie quote di autonomia nello svolgimento, ha subito negli ultimi quindici anni un forte processo di proletarizzazione e schiacciamento delle condizioni lavorative e salariali. Qualcosa inizia a muoversi anche a questo livello. Più in alto ci sono tutte le figure adibite al controllo dei tempi e della funzionalità di controllo ed efficienza, per salire poi ai padroni veri e propri.

A partire dagli scioperi che avete organizzato/iniziato a Bologna… Ad Amburgo non siamo riusciti a instaurare un contatto coi lavoratori e non è chiaro se ci sia un interesse comune. Vorremmo bloccare il loro posto di lavoro per danneggiare il capitale e non difendiamo interessi come aumento stipendi. Per noi questo è un problema! come possiamo usare queste azioni? Che esperienza avete fatto voi nel vostro contatto coi lavoratori?

La situazione tra il settore logistico del nord Italia e quella di Amburgo è estremamente differente. Mentre Amburgo è uno snodo logistico storico, la pianura padana del nord Italia è diventata una importante piattaforma logistica solo nell’ultimo decennio. Lo è diventata anche grazie all’uso massiccio di una forza lavoro estremamente sfruttata, senza diritti e per lo più migrante, che riempie i magazzini e gli hub logistici di quest’area.
Il rapporto coi lavoratori si è costruito a partire dai primi focolai di insubordinazione che si sono verificati a macchia di leopardo tra Milano e la regione emiliana. Appena ci giungeva notizia di qualche forma di agitazione o blocco raggiungevamo quella zona e sostenevamo la lotta, adottando forme di inchiesta e di appoggio alla lotta. Questa composizione, per lo più isolata dal contesto sociale locale in quanto migrante, con ritmi di lavoro che lasciano poco tempo libero e con abitazioni nelle aree più periferiche se non rurali, ha subito riconosciuto il sostegno dei militanti politici, costruendo di conseguenza una relazione virtuosa di crescita reciproca.
Per quanto ci riguarda proveniamo da una tradizione politica che ha sempre politicizzato le rivendicazioni economiche. Dunque, per quanto tendenzialmente lontane dalle lotte cui eravamo più abituati a prendere parte (sul territorio come in Val Susa, su scuole e università, o sul diritto all’abitare), le rivendicazioni dei lavoratori su aumenti salariali, ritmi di lavoro e condizioni lavorative le abbiamo lette non come mere richieste sindacali, ma come possibile costruzione e rovesciamento di un rapporto di forza in grado di determinarsi anche al di fuori dei magazzini. La lotta economica può essere anche lotta politica laddove diviene una lotta di potere.
Uno dei nodi dunque è quello di non percepirsi, quando pensiamo a un intervento militante “sul lavoro” o se vogliamo all’interno del rapporto più immediato del conflitto capitale/lavoro, come attori esterni. La relazione che riteniamo si debba instaurare tra militanti politici e le composizioni con le quali ci interfacciamo deve essere sempre di “internità” e di reciproco accrescimento e sviluppo, quella che chiamiamo con-ricerca. In questo senso il ruolo del militante politico di “spingere in avanti” le possibilità conflittuali, aumentare i livelli di scontro, sedimentare forme organizzative, accrescere le possibilità di contropotere, si sono definite sempre “dall’interno” della composizione lavorativa, indagandone i comportamenti e le pulsioni soggettive e cercando di orientarle verso la rottura. In questa direzione abbiamo sempre evitato forme di “solidarietà esterna” o “azioni in sostegno” alle lotte, valutando invece di accrescere i processi di conflitto sempre a partire da una relazione diretta coi lavoratori.

Avete formulato la tesi secondo cui lì si stanno sviluppando nuove forme del lavoro in un tempo in cui queste sembrano impossibili… è la logistica il nuovo luogo del proletariato? non è contraddittorio?

Il ruolo strategico che sta attualmente svolgendo la logistica dal punto di vista del lavoro è quello di sviluppare una capacità di interconnettere ed integrare su scala globale forme eterogenee di lavoro. Di unificare all’interno di un’unica catena produttiva e di valorizzazione delle composizioni lavorative che possono andare dal “tradizionale” lavoratore portuale di Rotterdam all’operatore logistico che lavora coi GPS e i droni di Amazon a Berlino, passando per il rider di Deliveroo nelle metropoli europee, il facchino migrante italiano, il marinaio delle navi porta container filippino ecc… ecc… È proprio la capacità di coordinare in un ciclo unico questa variegatezza il punto di forza della logistica, così come la sua debolezza. La serie di conflitti che a livello globale si stanno definendo in questo mondo parte proprio dalla posizione strategica che hanno questi lavoratori. Uno sciopero in uno dei nodi delle catene globali delle supply chain ha effetti a cascata estremamente significativi, che rafforzando il potere del lavoratore nel momento in cui pratica un blocco.
Inoltre, bisogna dire che quando si parla di “logistica” bisogna intendersi. Esiste la logistica industriale/produttiva (i sistemi coi quali è possibile produrre una merce su scala globale, ad esempio estraendo le materie prime in Africa, lavorandole in Bangladesh, assemblandole in Cina, inserendo i software negli USA) e la logistica distributiva (ossia i sistemi coi quali si sposta la merce finita su scala globale), il simbolo delle quali è il container; ed esiste la nuova frontiera, quella che definiamo come “nuova logistica metropolitana”, della consegna delle merci direttamente nelle abitazioni private (si pensi ad Amazon e al food delivery). Inoltre il ruolo sempre maggiore della logistica la porta ad avere un ruolo geopolitico di tutto rilievo, si pensi alla cosiddetta Nuova via della Seta dalla Cina all’Europa, e a tutti quei corridoi per il trasporto di materie prime e merci attorno ai quali si disputano enormi conflitti.
Dunque la logistica sta progressivamente divenendo una logica complessiva di organizzazione del sistema-mondo capitalistico. Un vero e proprio modo di produzione logistico è quello che si sta definendo su scala globale, dove la logica della distribuzione e della circolazione tende a guidare quella della produzione, in qualche misura mimando le logiche della finanza. In questo senso potremmo dire che qui dentro si trovano nuove forme di operaietà, ma sarebbe sicuramente fuorviante dire che “è la logistica il nuovo luogo del proletariato”. Il lavoro vivo su scala globale oggi è estremamente variegato, eterogeneo, complesso e non riconducibile a uniformità. È d’altra parte vero che proprio per il ruolo strategico e di organizzazione complessiva che la logistica sta assumendo, indagare e produrre conflitti in questo mondo ha chiaramente una valenza di rilievo strategico per l’ipotesi antagonista e consente in qualche modo di “tagliare politicamente” questa complessità orientandosi verso percorsi di ricomposizione.

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Che possibilità di resistenza vedete qui? sciopero? funziona? ed é durevole? i lavoratori sono disposti a correre il rischio (vedi contratti di lavoro precari etc)?

È difficile esprimerci su un contesto che non conosciamo direttamente come quello tedesco, anche se senza dubbio immaginiamo che le condizioni socio-economiche siano profondamente differenti, laddove la Germania si sta configurando ormai da molti anni come il cuore pulsante e il motore economico dell’Unione Europea, garantendo dunque anche forme salariali e di welfare che immaginiamo possano funzionare come blocco per le possibilità di espansione dei conflitti sociali. Tuttavia questi anni di crisi hanno anche dimostrato che non esiste alcun automatismo tra aumento degli attacchi delle condizioni di vita e aumento delle lotte. Tutt’altro. In Italia il cosiddetto “decennio rosso” tra fine anni Sessanta e fine Settanta è maturato all’interno di un contesto di “aspettative crescenti”, codificate dallo slogan “Vogliamo tutto!”. Oggi in un contesto di “aspettative decrescenti” non è stato ancora facile trovare i meccanismi di attivazione soggettiva di processualità di lotta.
Cioè evidentemente non significa che non sia possibile immaginare nuovi percorsi di lotta e organizzazione antagonista anche in Germania, tutt’altro. Il pensiero operaista ha proprio discusso di come fosse possibile contrapporsi anche sulle frontiere più avanzate dello sviluppo capitalistico, anche se probabilmente, come sosteneva Mario Tronti, bisogna sempre guardare non a dove è più alto lo sviluppo capitalista, bensì a dove maggiore è la forza della nostra classe-parte. Perché è nel punto più alto dell’espressione di autonomia e potere da parte della classe che è possibile spezzare la catena.
La lotte nella logistica sono dunque in contro-tendenza rispetto al panorama generale perché si è attivata una composizione sociale che invece viveva di “aspettative crescenti” ed era posta con violenza ai posti più bassi della catena produttiva. In questo senso la forma-sciopero ha funzionato laddove essa si è sviluppata in maniera radicale. Non una semplice astensione dal lavoro, ma picchetti, blocchi e contrapposizione diretta con le controparti. Questa forma-sciopero, che fa immediatamente male al “padrone” e crea sin da subito le parti antagoniste in campo, è stata capace sia di ottenere risultati nell’immediato (strappati con la forza) che di sedimentare un processo organizzativo di lunga durata. Quindi sì, lo sciopero funziona anche se evidentemente va ripensato da principio rispetto a come esso può veramente incidere sui rapporti di forza. È un problema che ci siamo posti anche durante il movimento studentesco del 2008-2010, laddove abbiamo provato a ripensare la forma-sciopero nello spazio metropolitano per una composizione giovanile precaria. Allora avevamo individuato nel blocco della circolazione urbana, occupando strade, autostrade e aeroporti, una pratica in grado di incidere in maniera diretta sull’economia, di incidere davvero sui processi produttivi e riproduttivi, e in potenza di aprire spazi di autonomia radicale incidendo sui tempi di vita, sui ritmi delle metropoli. Quindi ecco una “seconda forma di sciopero” che possiamo tenere a mente. La sfida oggi è pensare lo sciopero nella sua estensività spazio-temporale e nella necessità di intrecciare molteplici forme e figure del lavoro vivo contemporaneo. Da questo punto di vista, ancora una volta, la logistica è evidentemente un settore strategico da considerare.
Rispetto al “correre il rischio” dello sciopero di cui chiedete, esistono molte stratificazioni all’interno delle composizioni in lotta. Per quanto parziale, dal punto di vista delle avanguardie di lotta potremmo però rispondere con la frase di un’intervista a un delegato bolognese che abbiamo intervistato qualche tempo fa su Infoaut:

Infoaut: Per te cos’è che ha portato all’esplosione iniziale delle lotte?
K: Noi tutti veniamo da situazioni più difficili di quelle che abbiamo trovato qua. Pensavamo che qui fosse meglio, ma comunque… La maggioranza di noi ha attraversato il mare per arrivare qui fino ha qui, si è rischiata la morte. Non si trovava il pezzo di fame, si ha fame, non ci si può permettere di comprare due vestiti o la tv, di mangiare frutta. La maggioranza in Marocco mangiava pane e tè, la carne la mangiano una volta al mese. In tanti erano in questa situazione, quindi anche se il livello di sfruttamento è alto, c’è un miglioramento. E quindi si dice: “Se possiamo ottenere qualcosa con una lotta, se possiamo ottenere meno ore, più premi… Cosa rischiamo? Di rimanere disoccupati un altro anno? Non ce ne frega niente. Per ottenere queste cose che ce ne frega di rimanere disoccupati, anche di andare qualche mese in carcere. Non c’era un grande rischio o preoccupazione. Mentre credo che un italiano, che ha già una casa, la televisione, che ha un padre che lo aiuta, quindi anche se guadagna un po’ meno ha la casa… Per l’italiano passare un anno senza poter comprare qualcosa in più sarà un crollo, mentre per noi si tratta di tornare a una situazione diciamo normale. Mangio pane e tè per un anno, tanto ho già vissuto tutta la vita così. È quello che ti dà la forza di non avere paura.

Nelle proteste contro il Tav è diverso. Non si tratta del loro status come classe, ma del “turbamento” di una regione per un progetto di infrastruttura europeo. Nella sinistra tedesca e anche da umsGanze vengono supportati movimenti di protesta simili (Chalkidiki), allo stesso tempo vengono anche criticati perché spesso non superano l’interesse regionale o si limitano alla critica dell’inefficienza dello stato. Con 20 anni di lotte il No Tav è uno dei movimenti di più lunga durata. Da che cosa è caratterizzato? Ed è stato possibile in tutto questo tempo sviluppare una critica e un’ idea di convivenza? Ad esempio, che le persone scelgano cosa, quando e come venga costruito?

Semplificando, esprimendo un giudizio ex-post (anche se questa storia è lungi dall’essere finita), potremmo dire che le questioni poste dal movimento No Tav sono essenzialmente tre: 1) Chi decide sul e dello sviluppo di un territorio (questione di democrazia e potere); 2) Chi paga i costi dello sviluppo (questione del modello di sviluppo e dell’uso delle risorse); 3) Quali sono le forme politiche adeguate dopo il fallimento storico della forma-partito (rapporto tra composizione e forma politico-organizzativa). Le prime due sono, per così dire, domande esterne, poste alla società tutta, il destinatario essendo il cittadino medio della società capitalistica odierna, perlopiù accettante i modelli culturali, politici e sociali esistenti, colui che, sollecitato dall’emergere del conflitto, si pone la domanda se hanno ragione i No Tav o sono più forti le ragioni dello Stato e dell’Impresa (il cosiddetto “interesse generale”). La terza questione è invece “interna”, nel senso che essa viene posta da un movimento reale a tutt* quant* lottano per la trasformazione dell’esistente. Interroga la militanza organizzata e l’attivismo diffuso, quanti sperimentano l’agire dentro lotte e movimenti e ne rimagono delusi, frustrati o al contrario si soggettivano al punto dall’essere spronati a cercare ancora.
Il movimento No Tav non ha risposto a nessuna delle tre questioni che esso stesso ha posto, perché sono questioni epocali, enormi, poste da ogni movimento, lotta, esperienza autentica di critica dei modelli esistenti. Nel suo piccolo, ha però abbozzato dei percorsi, suggerito delle angolature prospettiche, fatto emergere sfumature nuove.
Una risposta originale, seppur parziale e determinata non poco dalla storia del territorio, è quella sui modi della convivenza tra anime e composizioni differenti. Il movimento ha saputo far dialogare aspirazioni, bisogni e identità estremamente variegate e complesse, senza pretendere di riassumerle sotto un’unica rappresentazione ma tenendo ferma la necessità di trovare una posizione convergente e condivisa sulle pratiche di lotta.
Sulla questione delle scelte del come, dove e quando della produzione sociale, potermmo dire che per un verso questa questione è posta costitutivamente dalla nascita stessa di questo movimento. Dall’altro siamo però certamente lontani – perlomeno nella composizione maggioritaria del movimento – dall’aver proposto una idea di modello di sviluppo radicalmente differente da quello esistente, nel senso che permane soprattutto una critica diciamo così riformistico-ambientale e di “giusta amministrazione” che mancherebbe alle forme istituzionali. Componenti più militanti e soggetti radicalizzatisi nella lotta hanno certamente prospettato modelli più profondi fi rivoluzionamento nella gestione delle risorse ma questo resta un compito decisamente più ampio di quello che può esaudire questo movimento.

Non vogliamo demonizzare la logistica di per sé (solo la versione capitalista), quindi dobbiamo in quanto sinistra radicale pensare a come dovrebbe essere organizzata in un mondo migliore. l’esempio dei movimenti no tav dimostra che dall’opposizione alla costruzione di un treno si è creato un movimento sociale con interessi simili. ci sono riflessioni concrete su come la logistica potrebbe “apparire“ al di la del capitalismo? ( come la logistica potrebbe in un certo senso ribaltare, attraverso proposte concrete, ribaltare il capitalismo).

Infatti non si tratta di “demonizzare la logistica”, quanto di analizzarla quale ambito strategico dello sviluppo capitalistico attuale per poterne misurare le possibilità di blocco, sabotaggio, contro-uso. Esiste, seppur agli albori, un dibattito a livello internazionale su possibili prefigurazioni post-capitaliste rispetto alla logistica. Per quel che ci riguarda, tuttavia, ci siamo sempre misurati sulla nota frase di Marx “il comunismo è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”. In questo senso crediamo che compito dei militanti politici non sia quello di tracciare scenari, immaginari o finanche utopie del futuro, quanto dell’organizzare il qui e ora della sovversione possibile. Saranno le lotte, i processi organizzativi, le spinte di massa a orientare il nostro sguardo verso “l’oltre” possibile.
Anche qui, rifacendoci al nostro background teorico, il rapporto tra forme organizzate e movimenti della classe va sempre guardato a partire dai livelli di autonomia e dalle spinte che la classe stessa esprime, ed è rispetto a questi che le organizzazioni politiche si muovono per aprire e rilanciare percorsi di rottura, non viceversa. In questo senso non ci appassionano le discussioni sui futuri possibili. Potremmo piuttosto dire che “una logistica in un mondo migliore”, come ci chiedete, è quella che abbiamo visto durante i picchetti, nei canti gioiosi e combattivi dei lavoratori, nelle corse attraverso i container, nelle molteplici forme di resistenza, nelle nottate davanti ai fuochi dei bidoni bloccando i camion… Ecco, lì vediamo i semi per poter guardare avanti.

 

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