Roma, zoning e sex workers: qualche riflessione
Pubblichiamo di seguito alcune riflessioni rispetto al progetto del comune di Roma (che pare già naufragato de facto alla luce delle ultime notizie) di istituire una sorta di “zona di tolleranza” dove abbozzare dei processi di regolamentazione delle prestazioni lavorative dei/delle sex workers. Anticipiamo sin da subito il carattere parziale e inconcluso delle riflessioni proposte, che però ci sembrano un punto di partenza per affrontare un discorso scivoloso e facilmente recuperabile da disparate organizzazioni e narrazioni politiche; le quali tutto hanno a cuore tranne la risoluzione reale di un tema come questo, che implica forti implicazioni per concetti come quello di dignità, libertà, sfruttamento, auto-determinazione.
A Roma si è discusso nelle scorse settimane della possibilità di realizzare un esperimento di “zoning“, ovvero di creare una “zona di tolleranza”, dove la prostituzione sarebbe considerata “legale” o quantomeno sottoposta ad un primo tentativo di regolarizzazione.
Questa è la proposta del minisindaco del IX municipio romano, Andrea Santoro, che da un lato ha visto l’approvazione del sindaco della capitale Marino, dall’altro sollevare diversi dubbi da parte del prefetto Pecoraro, che si appellava all’accusa che il provvedimento potesse essere favoreggiamento de facto della prostituzione.
Sembra però che in questo caso la proposta non sia stata calata dall’alto sulle circa 90 lavoratrici della zona su cui dovrebbe ricadere il provvedimento; bensì che arrivi come frutto di un lungo e aperto dialogo con le sex workers stesse, come spiega il Comitato Diritti Civili per le prostitute.
Ci troviamo a confrontarci con un tema che negli ultimi decenni è stato di estrema attualità e che ci fa porre molte domande, di ambito socio-economico, sul fenomeno. Non solo: finalmente, possiamo dire, sentiamo parlare anche attraverso i media mainstream di una problematica che spesso viene elusa con agilità o affrontata con vaghezza e imbarazzo.
Ci troviamo ad esaminare politicamente il soggetto delle sex workers quando esso inizia a costituirsi come fenomeno sociale; il “mercato del sesso” è un mercato ampio, che comprende svariate forme di prostituzione e vendita del corpo (night club, agenzie per accompagnatrici, mondo della televisione, strada..).
Sono tanti i fattori che concernono ciò che si cela dietro la figura della/del sex worker: la povertà dovuta alla crisi e alla necessità di riuscire a rimanere a galla in un mondo dove un welfare accettabile è sempre più un lontano ricordo; la miseria e le guerre che inducono migliaia di migranti a concedersi nelle mani di trafficanti internazionali i quali le sfruttano nei mercati del sesso o del lavoro nero; infine un radicato pregiudizio nei confronti di persone considerate “diverse” per le loro scelte sessuali non conformiste e che rende difficile il loro inserimento nel settore del lavoro tradizionale, sebbene quest’ultimo tema ultimamente stia venendo quantomeno messo in discussione dal sempre più marcato tentativo di colonizzare anche mercati “di nicchia” come ad esempio quello gay..
Ovviamente questo non significa considerare l’opzione del divenire sex worker un’ultima spiaggia, teoria che negherebbe la possibilità di un’autonoma e cosciente scelta di questo tipo; ma vuole evidenziare un quadro dove sicuramente è in gioco una tensione alla normalizzazione e al disciplinamento delle possibilità di scelta sull’uso dei propri corpi dovuti a fattori esterni. L’allarme sociale che si sta ri-verificando nell’ultimo periodo attorno al fenomeno della prostituzione (contornato da altre forme di “terrorismo psicologico” che lo Stato mette in campo, soprattutto in periodi di crisi, volte a creare paura nei confronti dei “diversi” e degli “emarginati”), è frutto di un sistema culturale fallimentare; un sistema di stampo maschilista, patriarcale, dunque basato su una non-parità dei generi e dei sessi; in Italia il “tabù” del sesso e della sessualità ha prodotto una scarsa conoscenza sull’educazione sessuale e ha alimentato e legittimato l’allarme sociale nei confronti di questi “diversi” (i/le sex workers) sopracitati.
Paura, disturbo della quiete pubblica, indecenza, costruzione della figura di “vittima“; con questi elementi l’arco partitico istituzionale tutto accompagnato da Chiesa, abolizioniste della prostituzione e antiabortisti, si sente autorizzato a reclamare a gran voce l’abrogazione della legge Merlin e quindi la riapertura delle Case Chiuse (che, come ben sappiamo, sono sempre state il luogo-simbolo dello sfruttamento sessuale), criminizzando il progetto di zonizzazione proposto a Roma.
Non tutte le prostitute sono vittime. Certo, la possibilità che la donna ha sempre avuto del poter immaginare ampi guadagni dal vendere il proprio corpo è, come dicevamo prima, frutto di un sistema maschilista e quindi di una cultura imposta su basi eugenetiche, dunque inaccettabile.
Lo stesso termine sex worker va poi affrontato tenendo conto dell’eterogeneità delle sue declinazioni, che aldilà del concetto di libertà di scelta rispetto all’utilizzo del proprio corpo ricadono nel qui ed ora interne allo stesso modo nel grande mondo dello sfruttamento capitalistico: sia che ci si riferisca ad un idealtipica prostituta autoctona che scelga temporaneamente di vendere prestazioni sessuali senza che sia obbligata e rivendicando la possibilità di scelta autonoma sul suo corpo; sia prendendo ad esempio l’altrettanto idealtipico delle prostitute migranti, che si trovano novantanove volte su cento costrette dal proprio protettore sia ad esercitare controvoglia che ad aumentare la propria “produttività” a discapito della qualità (perdita del valore della forza lavoro), troviamo come ci sia uno sfruttamento durissimo nei confronti della lavoratrice, costretta a produrre un guadagno senza però ricevere aumento del salario (a volte senza riceverlo proprio). Le forme di sfruttamento ci sono insomma in ognuna delle situazioni analizzate, ovviamente con tonalità differenti.
Provando ad andare in profondità su un tema specifico, cosa costringe una sex worker emigrata dall’est a lavorare gratuitamente per il proprio protettore in Italia?Stiamo parlando di problemi legati alla libertà di movimento e quindi ad un precedente livello di controllo sui corpi. Controllo che si manifesta prima nella difficoltà del riuscire a emigrare dal proprio paese e dopo nell’ottenere un permesso di soggiorno. Ovviamente la mancanza di un permesso di soggiorno fa sì che la lavoratrice sia totalmente dipendente dal suo “protettore” che la “proteggerà” dalla legge in cambio del denaro che gli farà guadagnare; questo non le permetterà di cambiare lavoro e le darà poche prospettive di futuro.
Per tentare di tirare le somme di questo ragionamento, crediamo che la zonizzazione di aree adibite al sex work potrebbe essere un esperimento che valga la pena di fare, analizzando tutti i pro e i contro del caso. Iniziamo sottolineando che ciò sarebbe possibile solo nel momento in cui sia il soggetto politico inchiestato a chiederne la sperimentazione, sia su scala locale (come le sex workers di Mestre o del IX municipio di Roma), sia su scala nazionale (come il Comitato per i Diritti Civili delle prostitute).
La messa in pratica di una sperimentazione simile potrebbe essere un primo passo in avanti nella conquista di diritti da parte di questa categoria di lavoratrici, a patto che non le si costruisca intorno una connotazione ghettizzante, in stile quartieri a luci rosse di Amsterdam; questi ghetti non risolvono il problema dello sfruttamento ma anzi rischiano di aumentarlo poiché le sex-workers non potrebbero sfuggire al ricatto di chi controllerà gli affari, forse anche con licenza legale. E’ da evitare a tutti i costi quindi la costruzione di un “parco giochi” figlio di un processo di gentrificazione della città, realizzato al fine di compiacere di benpensanti, che non vogliono una liberalizzazione complessiva che eviti di stigmatizzare una scelta libera e legittima. Bisogna invece partire da un esperimento di questo tipo per dimostrarne la validità ed espanderlo eventualmente sempre in più zone!
D’altra parte, con una tale sperimentazione, aumenterebbero i controlli sanitari e igienici richiesti dalle sex workers, oltre a forniture di preservativi e installazione di bagni chimici nella zona. Inoltre, le lavoratrici avrebbero finalmente (dato che ora, con la legge Merlin, una sex worker non può lavorare con un’altra donna e ciò è perseguibile penalmente) la possibilità di lavorare insieme, stringere forti legami relazionali che gli permetterebbero anche di auto-difendersi e costruire coscienza attorno alla proprio appartenenza di classe.
Bisognerebbe smettere di vedere chi ha deciso di fare del proprio corpo ciò che vuole, in questo caso una fonte di guadagno, come un soggetto da emarginare e privare di ogni diritto ad un riconoscimento sociale o da regolarizzare, perché questo significherebbe allontanarle dalla società per lasciarle avvicinare tra le mani degli sfruttatori. Invece di accanirsi con inutili imposizioni morali sulla questione, si dovrebbe aprire una lotta allo sfruttamento, una lotta alle condizioni schiavili con cui vengono trattate le donne nelle mani dei magnaccia, una lotta alla tratta delle prostitute ma soprattutto un ragionamento che affronti il tema con uno sguardo complessivo: poniamo a questo fine una domanda.
Chi ci guadagna con questa zonizzazione? Dove vanno a finire le tasse derivanti dalla regolarizzazione del sex work? A nostro parere, questi soldi dovrebbero necessariamente finire a finanziare progetti come consultori, contraccettivi gratuiti, pillole abortive, corsi di educazione sessuale.. quindi l’argomento tocca un nodo cruciale su cui ci interroghiamo da tempo.
Chi decide sulle risorse? Che ne è dei nostri soldi? Il rischio a cui si potrebbe andare incontro sarebbe quello di aggiungere una categoria di lavoratori totalmente interni alle logiche capitalistiche, perdendo di vista il confine tra valore di scambio e valore d’uso, che in una narrazione del “sex work” è importante sottolineare. Sarebbe necessario allora che le stesse sex workers che si battono per vedere istituita una sperimentazione di questo tipo affermassero allo stesso tempo la necessità di fare in modo che quanto poi prodotto, anche in riferimento all’ambito fiscale, da nuove “lavoratrici regolari” non venga poi investito nelle politiche di morte degli stati ma che sia altro campo di battaglia per allargare ancora di più la battaglia sul genere e contro il controllo dei corpi.
Rosie
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