[Rompere il ricatto] Lavorare per vivere, vivere per lavorare.
“È tutto uno scaricamento di responsabilità generale in cui non si capisce che si sta giocando su 9 vite, loro devono pensare alle loro cazzo di regole e io in tutto questo? Io ti ho portato avanti il bar per 4 anni e tu chi sei?”
[Rompere il ricatto] 1. – Introduzione + Intervista a Francoise Verges sul Femminismo decoloniale
Qualche tempo fa il Campus universitario Luigi Einaudi di Torino, a pochi giorni dalla riapertura dopo la pausa estiva, è stato scenario di una mobilitazione portata avanti dalle lavoratrici e dai lavoratori del bar in risposta al rischio di essere licenziati. L’università dopo aver esternalizzato gran parte dei suoi servizi si è lavata le mani delle conseguenze che un cambio di azienda nella gestione del bar potesse significare la fine dei contratti senza riassunzione per i suoi dipendenti. Infatti, scaduta la concessione alla IFM s.p.a., la gestione è passata in mano alla Sodexo, multinazionale della ristorazione. Grazie alla lotta e alla solidarietà di studenti e studentesse, degli altri lavoratori delle cooperative all’interno dell’università, le bariste e i baristi hanno ottenuto il ritiro delle lettere di licenziamento. Ciononostante la battaglia non è ancora finita in quanto l’obiettivo della mobilitazione è di alzare i livelli di coloro che svolgono mansioni non retribuite e non previste dal loro contratto e di far sì che la Sodexo garantisca la riassunzione a contratto indeterminato senza periodo di prova e a non meno di 6 ore al giorno.. E proprio mentre scriviamo riceviamo la notizia di un’ulteriore vittoria in quanto i livelli sono stati ufficialmente cambiati. Per una cronaca più dettagliata della mobilitazione e delle rivendicazioni dei e delle lavoratrici vedi qui. Nei giorni di sciopero che cominciavano all’alba e finivano dopo il tramonto saltava all’occhio la presenza e la forte partecipazione delle donne lavoratrici del bar. Ci è sembrato interessante provare ad approfondire questo aspetto della lotta al di là delle cronache per guardare e capire cosa significa per una donna lavorare, rischiare di essere licenziata e lottare perchè questo non avvenga. Abbiamo fatto quattro chiacchiere con una di loro che val davvero la pena leggere.. nelle pagine che seguono abbiamo riportato alcune parti dell’intervista fatta insieme a J. (per volontà di anonimato terremo questo pseudonimo).
“Tutto è partito il 19, lunedì mattina ho ricevuto la chiamata che si iniziava con questo sciopero. Sono stati 5 giorni parecchio impegnativi, dal punto di vista fisico ma soprattutto mentale, perché uno passa la maggior parte del proprio tempo lì, che poi sono 16 ore al giorno, a parlare della situazione, a cercare di capire come risolverla”
“Non è stato facile trovarsi le lettere di licenziamento, non è facile capire dove stia la verità, chi ti sta mentendo, perché ci sono un insieme di informazioni, e tu non sai più a chi dare fiducia. È una situazione brutta perché tutti dobbiamo portare il pane a casa, chi ha figli, chi deve mantenere una casa come me che sono sola, tutte le spese…”
La lotta significa solidarietà e trasformazioni, non solo rispetto al miglioramento delle proprie condizioni materiali, ma anche nelle relazioni con gli altri soggetti dell’università, con i propri colleghi e con i capi.
“Noi siamo figure fondamentali del bar e infatti abbiamo avuto tanto seguito dagli studenti, abbiamo raccolto più di 2000 firme, un professore ci ha portato i pasticcini allo sciopero, addirittura i bibliotecari hanno scioperato per noi, che è una cosa bellissima perché hanno fatto sciopero con te, hanno rinunciato a una mezza giornata di lavoro per solidarizzare e questo ti fa capire che devi continuare a lottare.”
“Ho notato delle differenze innanzitutto con i clienti, sono molto più vicini e interessati alla questione. Ci sono state differenze soprattutto con i colleghi che non hanno partecipato allo sciopero.. Il mio responsabile da dopo lo sciopero è più attento a certe cose. Dopo lo sciopero abbiamo continuato la lotta per i livelli perché alcuni miei colleghi sono di sesto livello eppure fanno i caffè e non dovrebbero e non è giusto che non gli venga riconosciuto, noi abbiamo dato tutto per il bar e tutti abbiamo svolto mansioni da quinto livello e questi sono diritti e doveri dell’azienda.”
È interessante come dalle parole di J. venga spiegato come molto spesso la responsabilità di far funzionare le aziende sia scaricata sulle spalle dei lavoratori, in quanto a garanzia di questo c’è la presa in carico, le capacità e l’impegno dei dipendenti. E come questa sia una clausola lasciata totalmente implicita nei contratti ma pretesa, come qualcosa che si deve al proprio datore di lavoro. Un vero e proprio ricatto.
“Non è facile da gestire il bar di per sé, ma ormai siamo in grado di gestire la tensione, le situazioni complicate e poi facciamo parte di questa famiglia del Campus. Nel tempo in molti hanno fatto prove su prove ma in pochi sono rimasti. Chi è rimasto sono i sopravvissuti a questo delirio.. è anche per questo che la situazione fa male perchè non è giusto che noi ci ritroviamo in mezzo a una strada. Anche da questo punto di vista alla Sodexo conviene tenerci.”
Le aspettative nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici rispetto a quanto debbano spendersi nel lavoro si rispecchiano anche nella divisione delle mansioni, nelle fatiche, nei pesi e nelle conseguenze sulla salute. Da un lato, un lavoro come quello della barista implica ritmi serrati e fatiche fisiche che possono causare gravi danni sul corpo di chi lavora. Dall’altro lato, capita che alcune mansioni e attitudini siano pretese perchè rappresentano quelle caratteristiche che sono automaticamente assegnate al genere. L’essere più predisposte a fare le pulizie, alla gentilezza, al mantenere la calma con i clienti.. è un’aspettativa che diventa molto spesso imposizione senza che ci sia nemmeno il minimo riconoscimento di cosa significhi svolgere del lavoro in più.
“A livello lavorativo ci si aspetta sempre che la donna sia quella che abbia più attenzione a livello di pulizia e che sia quella che si occupa di queste mansioni, ma questo non l’ho visto solo qui ma ovunque. C’è questa differenza di mansioni che la donna si deve occupare della pulizia, di pulire i bagni per esempio, però non c’è un occhio di riguardo dall’altra parte.. quando c’è da fare i carichi, cambiare i fusti, cose pesanti per una donna che pesa 50 kg, qua per fortuna questa cosa non c’è. È paradossale, se io devo pulire allora non mi fare alzare 40 litri di birra, abbi del riguardo.”
“Una volta il mio capo ha detto di cambiare e i bagni li puliva un collega ma è durato pochissimo. Le mie colleghe si sentono frustrate da questa situazione e denigrate e non è giusto, sarebbe meglio girare determinati compiti e fare cose scomode tutti. E lì senti la differenza di genere perché dici ma un Luca e un Marcello (nomi di fantasia) quando mai fanno queste cose?”
Abbiamo chiesto come ci si riesca ad organizzare tra i tempi di lavoro e i tempi di vita. È indicativo come la richiesta delle lavoratrici non sia di lavorare meno ore ma di essere riassunte alla stessa quantità di ore al giorno.
“Lavoro 6 ore al giorno, con orario solitamente 7-13 o 13-19.30. Sotto quel punto di vista riesci a gestire la tua vita perché non ti occupa un sacco di tempo, sabato e domenica liberi, i ponti, cosa che per un barista non è pensabile, per fortuna è un lavoro che non ti occupa tutta la giornata e fatte le tue 6 ore di lavoro poi esci di li hai ancora tempo di fare aperitivo, una cena, vedere amici, è una cosa che a me piace un sacco. Io non voglio vivere per lavorare, io voglio lavorare per poter vivere , avere la libertà di godermi la mia vita, guadagnare il giusto che mi permetta di sostenere le spese e qualche mio vizio, ma avere modo di vivere la mia vita. Io comunque ho avuto altri lavori in cui facevo 12 ore al giorno, sottopagata a livelli vergognosi e lì capisci che non hai tempo di fare nulla, banalmente anche tornare a casa fare una lavatrice, pulire, vedere gli amici, pagare una bolletta.. e cosi io non la concepisco, preferisco guadagnare un po meno ma avere modo di vivere la mia vita altrimenti non ha senso. Altre situazioni che ho vissuto erano disumane, lavorare 10/12 ore al giorno, un giorno libero al mese, per 500 euro al mese. A livello di ristorazione ci sono un sacco di situazioni così: in nero, sottopagata, mal trattata, a livelli estremi.”
È significativo sottolineare come la gratitudine che viene pretesa dai dipendenti sia il contrappasso da scontare per avere un lavoro. Al tempo stesso la presa in carico di responsabilità non viene riconosciuta nè a livello contrattuale nè a livello personale. Una possibile alternativa a questa condizione di ricattabilità viene resa visibile dalla lotta, c’è la possibilità di scegliere di essere uniti e combattere per i propri diritti e ottenere qualcosa in più.
“è un ambiente molto difficile, faticoso a livello mentale e fisico, in cui i diritti vengono meno. Ero ormai impostata in una modalità -ringrazia di avere un lavoro e ringrazia che non ti appendiamo al muro-. Quindi ti scatta in testa che il lavoratore non ha diritti ma deve solo dare e quindi hai paura di dire qualsiasi cosa, perchè comunque hai paura che ti possano lasciare in mezzo a una strada, licenziarti o pure peggio, o ritrovarti in altre situazioni spiacevoli in cui non mi voglio piú ritrovare. Poi ti rendi conto, e lo sciopero su questo mi ha dato una grande mano, perchè ho capito che io non sono un numero, non ho solo doveri ma anche dei diritti e non è giusto che io dopo aver dato il massimo non abbia nessuna gratificazione. Tu dai il massimo per mantenere il controllo, per migliorarti, con i colleghi ci chiedevamo come fare le cose nel modo migliore possibile, dove sbagliavamo senza mai fermarsi.. un minimo di gratificazione la si merita. Non si chiede niente di che, noi stiamo chiedendo semplicemente ciò che ci spetta.”
“Lo sciopero ci ha unito molto. Ha unito perché ti rendi conto di essere nella stessa merda e capisci che l’unione fa la forza, e la forza che mettono insieme delle donne è diversa, si crea più forza. È una questione di sopravvivenza, io e le mie colleghe teniamo in maniera particolare al lavoro e a questo posto di lavoro qua. Io ho paura di quello che potrei trovare al di fuori da qua, abbiamo paura di lasciare questo posto e trovarci in situazioni più spiacevoli perchè le donne sono più a rischio sotto questo punto di vista. Io l’ho provato sulla mia pelle, purtroppo vieni ancora vista come il sesso debole, di cui ci si può approfittare, sia dal punto di vista di molestie sessuali, sia dal punto di vista di violenze fisiche.”
“Ho avuto esperienze lavorative passate orribili, tra cui violenza fisica e psicologica, quindi questa cosa mi terrorizza, il pensiero di ritrovarsi in una situazione del genere di nuovo ti butta ansia che non dormi la notte, e non riesci più a non pensarci, e se ritorno lì? Se mi ricapita una cosa del genere? Poi sottopagata, senza contratto o con contratti di merda, con 15 anni di esperienza alle spalle un po’ da barista un po’ da cameriera, non è giusto che mi ributti in una situazione del genere. Mi è venuto un po’ l’orgoglio perché l’esperienza ce l’ho e le capacità anche e non voglio più tornare in situazioni del genere, voglio qualcosa in più.”
È una questione di sopravvivenza, e quindi non si può accettare l’incertezza.
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