Social network and social movement
E’ importante cominciare un discorso del genere con una premessa. Non bisogna cadere nell’errore di pensare che il mezzo tecnologico – in questo caso i social media – possano essere causa e motore principale dell’attivarsi di grandi masse di persone. In realtà il quadro è sempre molto complesso e ci sono altre variabili molto più importanti: sedimentazione di lotte precedenti, collettivi e gruppi organizzati attivi sul campo, un contesto fatto di comportamenti e sentimenti diffusi che aprono scenari di conflitto sfruttabili da soggettività organizzate. In tutto questo i social media hanno un ruolo di strumento, strategico, di connessione (più avanti spiegheremo in che termini), tuttavia ostile, per lo più in mano capitalistica, e che diventa un campo di battaglia per la costruzione di narrazione delle parti in conflitto. Inoltre non esiste una strategia di utilizzo dei social media uniforme per tutti i principali movimenti degli ultimi anni, molte le differenze in base ai contesti o semplicemente alle scelte compiute dalle soggettività durante il farsi del movimento. Tuttavia alcuni elementi invarianti, almeno come ipotesi, ci sono.
Caratteristiche ricorrenti nei casi reali
In tutti i casi troviamo un contesto favorevole: in Egitto l’insofferenza verso il regime, in Spagna e negli Stati Uniti contro politici e banchieri dopo tre anni di crisi. E in questo quadro esistevano diverse soggettività individuali o organizzate, spesso formate o influenzate da cicli di lotta precedenti, che hanno scelto e costruito le condizioni perché la voglia di attivazione alimentata in rete si concretizzasse in qualche modo, in particolare con le occupazioni delle piazze.
Pagine aperte sui social media (in particolare Facebook) hanno funzionato come “luogo” di aggregazione, di auto-narrazione, identificazione e ri-narrazione collettiva per dei settori di classe – in grado di mobilitarne altri di conseguenza – e quindi come momento privilegiato per indicare una modalità di azione, una data ed un luogo di raccolta di vite e corpi pronti alla lotta. Nel caso egiziano per esempio ha avuto un ruolo la pagina “Kullena Khaled Said”, dedicata ad un giovane blogger ucciso dalla della polizia segreta di Mubarak perché aveva pubblicato foto provanti l’implicazione delle forze dell’ordine egiziane con il traffico di droga. Per i giovani della classe media metropolitana (in particolare) questa pagina, attraverso il fiorire di post spesso pubblicati anche dagli utenti – con particolare rilievo materiale video – , è diventata nel tempo un mezzo di identificazione e di costruzione del nemico. In ruolo simile per il caso spagnolo ha avuto la pagina Democracia Real Ya, con un armamentario linguistico e concettuale postideologico e cittadinista (simile a quello del M5S, che si rivolge ai cittadini “normali”, contro corruzione, banche e “casta”, evitando ideologie e “politica”). Il caso di Occupy Wall Street è in parte diverso: inizialmente la campagna non ha raccolto un’attenzione popolare e di massa, probabilmente per il contesto “controculturale” in cui è nata l’idea – la campagna ha inizialmente privilegiato Twitter, ignorando quasi Facebook, e soprattutto utilizzando post con poca carica emotiva. Ma alcuni giorni prima del 17 Settembre prende piede un blog Tumblr “we are 99%” sul quale centinaia di persone che si sentivano parte di quel 99% hanno pubblicato le loro storie, diventando un luogo di aggregazione e identificazione in una condizione comune.
Questi movimenti si sono poi concretizzati in particolare con la pratica dell’occupazione delle piazze – pratica che almeno nel caso di Occupy e degli Indignados è dovuta inzialmente all’iniziativa soggettiva di poche centinaia di persone, nel caso spagnolo superando l’intento iniziale di chi dalle pagine dei social media aveva indetto la giornata pensata come singola manifestazione/evento. Da questo momento – nel farsi di questi movimenti – l’utilizzo dei social media ha visto, generalmente, un cambiamento interessante. Le piazze diventano i momenti centrali di discussione, organizzazione e coordinamento del movimento, i rapporti faccia a faccia assumono maggior peso di quelli online e di conseguenza l’importanza/necessità delle soggettività organizzate pre-esistenti. Quindi le piazze occupate – Piazza Tahrir, Puerta del Sol, Zuccotti Park – diventano i centri focali di questi movimenti e di conseguenza i simboli principali di identificazione e attrazione, anche emotiva, per un gran numero di persone. Nonostante il processo di attivazione sia nato in forme reticolari, mediato dalle piattaforme tecnologiche e dal codice informatico, ha trovato le sue forme più intense nell’esperienza – diretta o mediata/simbolica – della concentrazione incarnata di corpi e vite e una riappropriazione dello spazio pubblico e, tendenzialmente, una reinvenzione della lotta ed agitazione politica “di strada” – con un incremento dell’utilizzo di grafiche murali, manifesti e altri elementi di propaganda off-line [1]. Quindi come vengono tendenzialmente utilizzati i social media in questa fase? Analizzarlo in maniera totalmente soddisfacente sarebbe chiaramente particolarmente complesso, tuttavia si possono individuare alcuni aspetti principali. Se il fuoco della carica emozionale ed identificativa diventano le piazze, i social media diventano l’amplificatore di quelle dinamiche reali verso i più ampi strati di popolazione che ha sentito parlare delle occupazioni, anche dai media ufficiali. Ed in questo senso, anche dal punto di vista delle analisi quantitative, il flusso di messaggi sui social media (e le emozioni espresse in questi) si è modificato a seconda degli eventi che accadevano sul campo.
Dai momenti organizzativi quotidiani venivano amplificate le necessità materiali: mancano persone, portate coperte o cibo e via dicendo – a parziale conferma della funzionalità di questo utilizzo analisi quantitative prodotte su Occupy Wall Street evidenziano la concentrazione dei flussi di comunicazione su questi temi nelle aree geografiche prossime alle piazze occupate. Durante le iniziative di piazza i social media hanno fornito informazioni per coordinare le persone dislocate sul territorio urbano, per indirizzarle o per informare degli accadimenti – c’è da notare che, a dispetto dell’ideologia orizzontalista che animava questi movimenti, questo meccanismo non è stato puramente orizzontale, ma alcuni account “ufficiali” del movimento o di attivisti riconosciuti hanno svolto la funzione di centri di coordinamento di questo tipo di comunicazioni (ci sono da aggiungere gli aspetti riguardanti la battaglia sulla rappresentazione mediatica degli eventi, ma di questo ci occuperemo più avanti). Aspetto forse più importante è quello della costruzione, tramite il flusso di messaggi pubblicati, di attenzione, solidarietà e attrazione “emotiva” rispetto alle piazze occupate e alle loro iniziative di lotta, aspetto che nell’accumulo di partecipazione e forza sul campo è andato crescendo vertiginosamente (per tornare alle analisi quantitative, questo tipo di messaggi ha avuto attenzione e diffusione ben oltre la dimensione locale, spesso con importanti assi tra le metropoli con le più forti esperienze di lotta analoghe).
Quali indicazioni per noi? Ovvero quale contro-uso…
Sappiamo che ciò che abbiamo di fronte oggi è una composizione sociale fortemente frammentata, non solo dal punto di vista delle condizioni oggettive di lavoro e vita, ma anche dal punto di vista delle reti sociali in cui le persone sono inserite e della debole o inesistente identificazione in una parte inserita in un conflitto “oggettivo”. Non esistono più le grandi concentrazioni di corpi in condizioni di vita e sfruttamento comuni che sono stati uno degli aspetti della forza del movimento operaio nel secolo scorso, tuttavia delle reti sociali frammentarie esistono, aggregate attorno, per esempio, ad alcuni quartieri, alle scuole o ai mercati rionali, e spesso si basano su cerchie di amicizie o di vicinato. Inoltre è diffusa la diffidenza verso le istituzioni (pubbliche o private) che verso le vecchie forme dell’organizzazione di classe. Abbiamo visto che tramite i social media si possono espandere e collegare diverse reti sociali esistenti, creando relazioni “informali” e, talvolta, anche un’alta componente di coinvolgimento personale. I social media consentono la potenziale connessione di soggetti e gruppi sociali altrimenti frammentati, la loro essenza è quella di ambienti di costruzione sociale; non a caso il capitale già sfrutta, da decenni, questa potenzialità per strutturare produzione e riproduzione secondo le proprie necessità di controllo, comando e sfruttamento. Soggettività singole o collettive possono creare degli spazi di narrazione delle condizioni di vita di ampi strati della società, costruendo identificazione della propria parte, di quella nemica e lanciare appuntamenti di lotta [2] che riescono nella riappropriazione dello spazio pubblico come momento di aggregazione, partecipazione e conflitto – in un momento in cui la governance si sforza di neutralizzare queste dinamiche. Per non ricadere in certe tecno-utopie bisogna sempre evidenziare il ruolo delle soggettività militanti nel farsi di questi movimenti e l’importanza di creare le condizioni perché gli accumuli di forze costruiti sui social network si possano concretizzare in situazioni di lotta. Infatti le potenzialità di costruzione sociale non sono dovute al semplice utilizzo dei social media (pagine, eventi ecc…), bensì è necessario l’intervento di soggettività antagoniste – o per lo meno agenti in una contrapposizione – in grado di saper leggere tensioni e comportamenti eccedenti della composizione di classe e saperli connettere, anche a partire dai linguaggi e dagli immaginari utilizzati. Sui social media possiamo immaginare il ruolo dei militanti come collettori ed elaboratori di rappresentazioni di parte.
Un’ulteriore conferma di queste potenzialità ci è stato fornito dalla recente protesta del 9 Dicembre. La dinamica (l’origine, il lavoro di costruzione delle parti in conflitto tramite la rete, la spinta alla concentrazione in luoghi pubblici etc) è in gran parte simile ed abbiamo visto che i luoghi in cui maggiore è stata la risposta sono anche quelli con la maggior presenza pregressa di lotte e sedimenti di organizzazione in alcuni settori di classe (per esempio a Torino i mercati). Un altro esempio di questo tipo sul terreno universitario può essere la pagina facebook “Spotted UniBo” nata con l’intento di segnalare gli abusi dei professori e immaginare una risposta collettiva in un quadro, però, di organizzazione ed innesco di vertenzialità autonome.
L’altro aspetto – per niente separato dai precedenti – nel contro-uso che i movimenti hanno fatto dei social media è quello del conflitto sulle rappresentazioni e le narrazioni dei movimenti durante le fasi della lotta, in opposizione e scontro con il mainstream e la controparte. I media gestiscono la realtà tramite l’istituzione di un regime di verità, come una vera e propria tecnologia politica. Inoltre i nuovi media vengono riassorbiti dai media preesistenti, che si riconfigurano per riassorbirli all’interno dei propri frame comunicativi. Proprio per questo ogni illusione su una connaturata alterità dei social media va messa da parte, perché il mainstream si è adatto ad usarli per la costruzione dei propri regimi di verità, si è fatto “partecipato” – basti pensare all’uso oramai diffuso da parte delle trasmissioni televisive di hashtag e tweet in diretta. Un esempio riguardante i movimenti è il caso “pecorella”: durante i giorni degli esprori in Val di Susa nel febbraio 2012 è stato costruito con l’ossessiva diffusione del filmato, pochi secondi estrapolati dal più ampio contesto, del ragazzo NoTav che dava del “pecorella” ad un carabiniere. Rafforzato proprio dai social media (per esempio l’hashtag #pecorella su Twitter) e da quegli utenti che, di proposito o meno, hanno contribuito ad alimentare questa discussione, allontanando l’attenzione dagli abusi delle forze dell’ordine, dalla caduta di Luca Abbà (questo caso, precedente al quale “pecorella” è la risposta, sarà citato più avanti) e dalla fase alta di lotta del movimento.
Quindi nelle traiettorie seguite dalle rappresentazioni non possiamo eliminare l’elemento umano, ovvero le soggettività che agiscono nel campo mediale, e diventa per noi necessario saper riconoscere “chi” confeziona l’informazione, per legittimare quale delle parti in conflitto, con quali strategie e per quali motivi. Prendiamo ancora il caso del movimento NoTav: le narrazioni e rappresentazioni dei media mainstream cercano di disarticolare l’eterogeneità del movimento, lo si è visto nel tentativo – che in verità avviene continuamente da anni – di dividere tra buoni e cattivi (utilizzando, per esempio, il folks devil dei black bloc) dopo le giornate del 27 giugno e 3 luglio. Ciò che si è dimostrato antidoto a questa strategia è stata la caratteristica del movimento di essere una comunità in lotta, costruita in anni di movimento ed individuazione della controparte, che quindi non può essere semplicemente (ri)costruita su altre basi dai media che ne parlano. Tuttavia l’informazione segue anche delle logiche commerciali, in competizione tra loro, che li porta a cercare e gonfiare qualsiasi cosa sia notiziabile. In questo modo è possibile rompere la costruzione mainstream: sfruttando eventi di cui i media non possono tacere si può mettere in crisi la loro coerenza, quindi “vincere” lo scontro sul campo della narrazione. Questo successe nel febbraio 2012, quando i media sono stati obbligati a dar notizia della grave caduta di Luca Abbà ma allo stesso tempo è dovuta trapelare l’informazione rispetto ad una
valle in lotta, ad una composizione eterogenea e determinata.
Per concludere e tornare ai social media. Bisogna contro-utilizzarli come vettore della produzione autonoma, partigiana ed in tempo reale di rappresentazioni e narrazioni proprie non subendo quelle mainstream, anzi con la possibilità di metterle in crisi su vasta scala3.
Un mezzo utile, ma ostile
Se fino ad ora abbiamo considerato soprattutto il modo con cui i movimenti hanno utilizzato, e possono utilizzare, i social media e la rete, è importante discutere anche dei lati negativi, ostili di questo mezzo tecnologico4. Anche l’innovazione tecnologica, come altri momenti del sistema sociale, è caratterizzata in certa misura dall’ambivalenza, momento della decisione e del conflitto sulla direzione del suo sviluppo – beninteso determinato dai rapporti di forza vigenti. Quindi la rete, ed i servizi che su di essa si appoggiano, sono nati e si sono sviluppati secondo criteri informati dai rapporti di forza di parte capitalista: massimizzazione del profitto finanziario e distruzione di capacità umana.
Tutti noi siamo attratti dalla rete per le opportunità che ci offre, contatti sociali, informazioni, prodotti culturali e molto altro, ma allo stesso tempo modifica il modo in cui agiamo, percepiamo il mondo ed agiamo. Questo oltre ad essere il punto di vista teorico legato al lavoro di McLuhan trova anche conferme nella ricerca sulla neuroscienze: il funzionamento neuronale del nostro cervello si modifica in base alle capacità richieste dalle operazioni che svolgiamo frequentemente e dagli strumenti che utilizziamo, è plastico, ma non è elastico – quindi i cambiamenti persistono nel tempo. Per come sono stati sviluppati, i servizi del web hanno un forte controllo sulla nostra attenzione, molto superiore ai mezzi precedenti. E tuttavia la valutazione dei link, delle immagini, pop-up sempre più numerosi nelle pagine web, sebbene sviluppino le capacità di multitasking, creano dei cortocircuiti e dei sovraccarichi nei nostri processi mentali rendendo difficoltoso l’approfondimento, la concentrazione e la creatività: la rete è configurata come macchina neo-tayloristica in cui gli umani hanno la funzione di semplici unità di elaborazione di dati e segnali a velocità sempre maggiore – inversamente proporzionale alla profondità dell’elaborazione. Questa situazione è stata costruita in anni di sviluppi e ricerche dai colossi mondiali dei servizi in rete (quasi monopolistici) che commerciano in pubblicità, informazioni riguardanti gli utenti e dati da loro elaborati, e che raggiungono stratosferici profitti finanziari con le quotazioni in borsa. Google, Facebook, Apple, Microsoft sono oggi i più grandi finanziatori, e produttori, di ricerca ed innovazione nel campo dell’intelligenza artificiale, degli algoritmi di ricerca e ottimizzazione su reti complesse, dei processi cognitivi. Schiere di neuroscienziati, fisici ed informatici sono impegnati a cercare il modo nel quale i movimenti mentali di elaborazione dei dati richiesti agli utenti possano diventare sempre più efficienti e produttivi. Lo scopo è vendere spazi pubblicitari sempre più personalizzati, produrre risultati dei motori di ricerca sempre più scremati (con quali criteri? Che conseguenze comporta per l’accesso alla voce di chi non ha potenti mezzi?), organizzare pagine web sempre più “distraenti”, che facciano aumentare il numero di click, di contenuti visualizzati e di traffico sui server di queste corporation – va da sé, misura diretta dei loro profitti. Gli algoritmi alla base di questo neo-taylorismo vengono affinati – in alcuni casi proprio allenati! – attraverso lo studio degli stessi dati prodotti dalle attività degli utenti (i cosiddetti BigData). Sul discorso dei BigData bisognerebbe aprire una parentesi che riguarda le direzioni che prende l’innovazione capitalistica. La quantità impressionante di dati che ogni attività umana, in ogni ambito, produce (tutto oramai viene registrato in rete) fa gola a think-tank e coorporation, le quali hanno già messo in campo studi per rendere più efficiente – quindi che produce maggiori profitti, ma
più impoverente per chi sta in basso – l’organizzazione e i processi di innumerevoli aspetti della produzione e della riproduzione: valutazioni di rischi finanziari, indicazioni tecniche che sopperiscano alle incertezze della decisionalità di basso livello nelle gerarchie aziendali, tagli e riorganizzazioni del welfare – per citare solo alcuni aspetti, perché il campo delle applicazioni è in continua evoluzione.
Considerando come è sono stati sviluppati i servizi in rete non ci si può illudere sulla sua neutralità e orizzontalità. Infatti modifica profondamente il modo con cui ci relazioniamo alle informazioni fornendoci risultati immediati, decontestualizzati e basati su criteri nemici, e scoraggiando ogni sosta prolungata sulle pagine aperte.
Da un lato le grandi coorporation della rete sono grandi sostenitrici della gratuità delle informazioni e della diffusione delle connessioni veloci, perché questo per loro vuol dire maggiori traffici e profitti – mentre allo stesso tempo sono in atto tentativi di differenziare il traffico internet con differenti velocità corrispondenti a differenti tariffe. Dall’altro le dinamiche di competizione capitalistica hanno portato alla definizione di “walled gardens”, ambienti del web chiusi e che tendono a trattenere gli utenti più a lungo possibile, fornendo una quantità sempre maggiore di servizi, assicurandosi la proprietà privata dei loro dati e di fatto trasformando la rete in un arcipelago di piccoli mondi distinti. Le notizie che visualizziamo, per esempio, su Facebook sono solo quelle che i nostri “amici” condividono su quella piattaforma, inoltre ulteriormente scremate dagli algoritmi che evidenziano o nascondo le condivisioni in base alle interazioni pregresse.
Oltre le potenzialità per i movimenti sociali, la rete ha anche dei lati oscuri e dei rischi, compresi quelli di ritrovarsi in realtà isolati, frammentati ed incapaci di produrre momenti di lotta e di cambiamento reali.
Note
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