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Attenti al lupo!

Amore mio non devi stare in pena,
questa vita è una catena,
qualche volta fa un po’ male,
guarda come son tranquilla io
anche se attraverso il bosco
con l’aiuto del buon Dio,
stando sempre attenta al lupo.

Lucio Dalla

Il governo Meloni, coerentemente con i suoi proclami, introduce un disegno di legge che ha lasciato carta bianca alle fantasie dei Ministri Piantedosi, Nordio e Crosetto che prevede nuovi reati e pene più pesanti per chi, come la levata di scudi conclude, “protesta”. E viene immediatamente da chiedersi, sì, ma chi protesta? Su questo ci torneremo dopo. 

Prima di tutto occorre guardare a questa novità ponendosi da un punto di vista che perlomeno provi a uscire dalla propria bolla. Vi sono alcuni aspetti del decreto che riguardano alcuni ambiti specifici che val la pena mettere in risalto: la questione carceri e cpr, l’approccio punitivo nei confronti delle donne, l’aumento dei poteri alla polizia e il tema del controllo elettronico. La lettura che inquadra questo attacco come un restringimento degli spazi del dissenso tiene conto soltanto di un aspetto, probabilmente il più marginale di questo ddl. Tendenzialmente il livello delle esigenze repressive si misura con la necessità di metterle in campo per dover fare i conti con i rapporti di forza. Il carcere e le misure cautelari che possiamo prevedere per le lotte future affondano le radici in un attacco di lunga data e ben precedente a questo ddl nei confronti di militanti e attivisti. Il punto, paradossalmente ben più grave, è guardare a questo attacco come una ristrutturazione della società capace di soffocare le spinte di rifiuto potenziali. Non è questione di minimizzare ma di comprendere quali sono i soggetti e i terreni che si vogliono colpire. 

A seguito dei cicli di rivolte nelle carceri viene dunque introdotta l’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi e un nuovo reato ossia il delitto di rivolta all’interno del carcere: la resistenza passiva, che sia il rifiuto di rientrare in cella o lo sciopero della fame, diventa un’azione punibile e penale. A fronte delle condizioni disastrose degli istituti penitenziari e del gravoso problema del sovraffollamento, il governo risponde con il carcere anche per chi prima ne era escluso: ad esempio le donne incinte e le madri con figli di meno di un anno. Non è più automatica la pena alternativa per questi casi e, per chi viene considerata passibile di reiterazione del reato, non vi sarà più alcuna possibilità di evitare il carcere per i neonati e le loro madri. Dalla propaganda sulla sacralità della famiglia alla genitorialità nella detenzione è un attimo. In risposta ai flussi migratori da contenere, altro cavallo di battaglia del governo che è stato totalmente incapace di dare qualsiasi segnale effettivo su questo fronte per confermare le aspettative di parte del suo elettorato, si semplificano le procedure per costruire nuovi Cpr e il dirottamento di fondi per ampliare e sviluppare i centri già esistenti. Parallelamente si revoca la cittadinanza per chi viene condannato per reati di terrorismo ed eversione. Lo spauracchio del terrorismo che non ha mai funzionato nel nostro Paese in maniera sistematica viene tirato fuori in occasione delle spinte date dalla mobilitazione in solidarietà alla Palestina, provando a scimmiottare in modo grottesco altri esempi europei. Interessante anche la norma che riguarda il codice delle comunicazioni elettroniche che dispone la chiusura degli esercizi commerciali per i negozianti che vendono sim senza identificazione del cliente. Un tentativo di controllo capillare, venduto come una misura anti illegalità diffusa e piccola criminalità per la quale in realtà non viene immaginata alcuna misura strutturale, ma che di fatto colpirà chiunque abbia bisogno di comunicare con il Paese di origine e che apre un tema importante rispetto alla sicurezza digitale. Il tutto condito da maggiori poteri e tutele alle forze dell’ordine, probabilmente lo zoccolo duro dell’elettorato meloniano anche perché gli unici a ricevere benefici, come se non bastasse l’inscalfibile sistema di copertura e garanzia di cui già godono. La polizia in questo Paese rimane l’unica impunita anche a fronte di inchieste per gli abusi commessi che solitamente vengono premiati e a fronte di gravi inadempienze quando si tratta per esempio di evitare che un marito uccida una moglie nonostante i divieti di avvicinamento e braccialetti elettronici al seguito. 

Ma torniamo al dunque, chi protesta?

Il punto è un po’ questo: il DDL viene partorito in un momento di estrema debolezza dei movimenti sociali e più in generale di assenza di mobilitazioni sociali che in qualche modo possano anche solo impensierire la stabilità del governo e dell’assetto istituzionale tutto. Alcune norme sono cucite a misura su movimenti sociali e lotte, da quelle ecologiste agli scioperi nella logistica, che pur rimanendo significative non vivono un periodo di espansività. Dunque quali sono gli scopi di questo DDL se sul piano dell’ordine pubblico non c’è molto che scalfisca gli assetti di potere esistenti? Ci viene da dire che sono almeno tre gli elementi da considerare: il carattere propagandistico di questo disegno di legge, l’impianto ideologico su cui si basa ed in ultima istanza le dinamiche globali della guerra.

La propaganda del governo Meloni in questi due anni si è fondata su due assi portanti: da un lato, l’immagine di una compagine assediata da nemici esterni, complotti e intrighi che fieramente si batte per portare avanti il proprio mandato popolare. Questa forma di propaganda non è solo figlia della tipica paranoia che permea gli ambienti di estrema destra, ma è una strategia collaudata per la raccolta del consenso intorno ad una figura eroica con nemici annidati in ogni dove. Dunque la pericolosità sociale di innocui attivisti/e per il clima viene ingigantita non perché questi rappresentino una qualche tipo di forza destabilizzante, ma perché raffigurandoli così si costruisce un nemico immaginario molto più potente. Il DDL fa parte di questa costruzione propagandistica: i fattori vengono invertiti, non vengono comminate pene assurde perché questi fenomeni sociali rappresentano un pericolo pubblico, ma essi rappresentano un pericolo pubblico perché gli vengono comminate pene assurde. 

L’altro asse propagandistico fondamentale è quello di offrire a chi se la beve l’idea di un paese che riparte e corre ad una velocità folle verso il progresso. La destra vuole dimostrare a chi conta nel circuito finanziario che il loro governo è in grado non solo di tutelarne gli interessi, ma di rimuovere ogni ostacolo, legislativo, politico e materiale all’espansione di questi interessi. Se i movimenti sociali che in questo momento sussistono nel paese non sono in grado di impensierire il governo e gli assetti istituzionali però in alcuni casi sono stati in grado di incidere nei confronti dei padroni dei magazzini, dei costruttori che provano ad imporre progetti devastanti sui territori e più in generale in alcuni momenti specifici hanno rappresentato, anche se per poco, un blocco alla circolazione e valorizzazione del capitale in alcuni territori, cosa che in un paese ricco di un’imprenditoria parassitaria e di aziende a basso valore aggiunto, qualche fastidio l’ha creato. Questo dovrebbe dirci qualcosa sulla fragilità del sistema produttivo italiano, ma non divaghiamo.

Questo disegno di legge risponde poi ad una precisa matrice ideologica che è tipica dell’estrema destra, ma è diffusa ben oltre di essa. Un’idea che ha a che fare con l’individualismo proprietario, più che con le comunità di sangue fasciste che si potrebbe così riassumere: “posso condurre una vita di miseria, ma l’importante è che nessuno mi disturbi”. Questo atteggiamento è socialmente diffuso ed è il prodotto di vari fenomeni: chi protesta non è detto che sia pericoloso, ma è un inutile rompicoglioni. Dunque viene a strutturarsi una idea di ordine e disciplina che in parte è nuova, in cui l’individualismo estremo (la libertà di consumare in sostanza) incontra l’imposizione di un rigido controllo sociale.

Infine, torniamo a dirlo, questo disegno di legge si inserisce all’interno di una società che si prepara alla guerra. Questa è una tendenza internazionale: se c’è un problema reale che impensierisce i governi occidentali è la tendenza delle popolazioni al disfattismo, ad essere recalcitranti all’intruppamento. Quando i tamburi di guerra suonano non ci si può permettere nemici interni che magari riescano a coagulare questo sentimento di ostilità. Questa non è una legislazione speciale per far fronte ad una conflittualità sociale dispiegata o montante, ma l’obiettivo è quello del disciplinamento preventivo: di spaventare chi scende in piazza o chi in futuro potrebbe farlo, favorendo un ritorno nel privato sempre più coatto. Il problema a questo punto non è solo o tanto come difendere i nostri mondi, le nostre lotte da quest’attacco frontale, ma piuttosto come contribuire alla costruzione di mobilitazioni di massa, significative a livello sociale che pongano la questione dell’agibilità delle piazze, la legittimità della protesta. Non ci sono molte scorciatoie al riguardo: se pensiamo che semplicemente ricomporre quello che esiste contro la repressione sia sufficiente a far cambiare strada a questo governo o che ci sia su questo terreno un bacino di consenso sociale da attivare facciamo un errore.

Quindi, provando a riassumere il meccanismo: il governo fa il decreto e lo propaganda sulle tv di Stato per creare consenso e spaventare i pochi insubordinati, i giornali di “opposizione” (gruppo Gedi) ne “denunciano” la portata esorbitante, creando un circolo vizioso che alimenta la paura verso la possibilità di sfidare la legge. Sarebbe da capire come non finire in questo meccanismo malsano e controproducente per le lotte. Non si tratta di ignorare il problema ma avere coscienza che le masse proletarie si muovono nonostante la ferocia repressiva, e che nella nostra società, è invece spesso l’ombra dello Stato e del Capitale con i suoi meccanismi di cattura sulle soggettività a reprimere le lotte con la sussunzione. Diverso è approcciare questo ddl sul suo piano tecnico e capire collettivamente quali spazi concreti chiuda alle militanze.

Infine, la propaganda su cui il governo attuale basa tutto il suo apparato scava solchi sul tema della sicurezza, leva utilizzata per approfondire la guerra tra poveri e il generale deterioramento dei rapporti sociali accompagnato dall’abbandono programmatico di interi territori. Pensiamo alla questione dello spaccio, del degrado, della produzione di “esubero” nelle metropoli e nelle sue periferie. L’insicurezza percepita da larghe fette di società non è qualcosa su cui imporre un discorso ideologico ma una bella gatta da pelare. Questo ddl si inserisce dunque perfettamente in un quadro atto a distogliere l’attenzione dai reali obblighi delle istituzioni nei confronti dei suoi cittadini, costruendo un contesto che permetta agli apparati statali di gestire in maniera abbozzata l’ordine e i soggetti che sfuggono al disciplinamento formale, lasciando il carico della loro complessità ai territori stessi, ai vicini di casa, alle famiglie, ai giovani, alle donne. La dinamica dello spostamento del problema attraverso l’utilizzo di presidi di polizia che provocano la militarizzazione di territori senza avere alcun effetto reale sulla strutturalità del problema è soltanto uno degli effetti superficiali. La tutela da parte della polizia e delle istituzioni di certe dinamiche rappresenta una precisa volontà di mantenere un sistema sociale basato su rapporti di consumo e di dipendenza che vanno nella direzione di diluire le possibilità di riscatto e di acuire rapporti di profitto. 

Che questo ddl possa essere occasione di porci qualche domanda in più senza gridare al lupo al lupo potrebbe essere un augurio da farsi. L’ambivalenza dei contesti sociali in cui sperimentiamo i nostri percorsi di lotta non può risolversi in una polarizzazione sterile che neghi il problema di una società violenta, ma dovrebbe imporre maggior lucidità nell’affrontare i tentativi di restringimento dell’agibilità politica nell’ottica di rappresentare possibilità riproducibili di contrapposizione conflittuale. 

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