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Stati Uniti, la crisi è epocale

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Le comunità nere si sono ribellate spesso, dagli anni Sessanta fino a tutto il nuovo millennio, fino a ora. Ma questa volta è diverso, la sollevazione non è mai stata così generale, così duratura, così politicamente forte e propositiva.

 

Di Bruno Cartosio per Sbilanciamoci

 

Sbilanciamoci, 22 giugno 2020

Contingenze e persistenze. Tra le prime, la peggiore delle pandemie, in coincidenza con la peggiore amministrazione presidenziale delle ultime generazioni. Tra le seconde, mezzo secolo di economia politica poco meno che criminale e di dominio da parte di un piccolo ceto di plutocrati. Al fondo, una crisi sociale, in cui la continuità plurisecolare del razzismo contro gli afroamericani ha fatto corto circuito con i processi pluridecennali della sottrazione di reddito, servizi, dignità a danno degli strati medio-bassi e poveri della popolazione. I fatti delle cronache di queste ultime settimane negli Stati Uniti sono stati ambivalenti: terribili per i reiterati omicidi polizieschi di cittadini afroamericani e straordinari per l’immediatezza della risposta nera e le grandi manifestazioni di solidarietà interrazziale, intergenerazionale, intersezionale (e internazionale) che l’hanno accompagnata finora. Il movimento afroamericano è diventato una sollevazione generale contro il razzismo, l’ingiustizia sociale, Trump. Sottraiamo dunque la cronaca dalle considerazioni che seguono per cercare di fornire qualche elemento che ne spieghi le radici e le ragioni. 

Supponiamo di prendere l’ormai famoso, apodittico giudizio espresso una decina d’anni fa dal finanziere Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi del mondo: la mia classe ha fatto la lotta di classe e l’ha vinta. Le pezze d’appoggio sono tutte implicite. Nella lingua del vincitore sono date per acquisite, note, tanto evidenti da rendere indiscutibile quel giudizio. Anche gli sconfitti potrebbero essere altrettanto sintetici. Le prove materiali della sconfitta operaia al termine di un secolo di lotta di classe sono altrettanto note, sono le stesse. Sono sotto gli occhi di tutti, stanno nella distruzione delle grandi città industriali cresciute con la seconda rivoluzione industriale, nella disgregazione delle comunità di lavoratori che le hanno abitate e rese grandi, nell’approfondimento drammatico delle disuguaglianze sociali. 

Ancora per un attimo: in un immaginario confronto a due, il Lavoratore e il Capitalista arriverebbero a conclusioni politiche diametralmente opposte: dispongono e usano ognuno dei due gli stessi dati statistici/quantitativi, economici e sociali, ma mentre all’uno va bene avere vinto la guerra di classe, all’altro va male averla persa. Non è un esempio campato per aria. Le ricerche storiche ed economico-politiche di Kevin Phillips sono servite sia allo stesso storico per mostrare da dove viene il male delle grandi e crescenti disuguaglianze sociali, sia agli analisti di Citigroup per mostrare ai loro clienti privilegiati quali siano le dinamiche da cui proviene il bene del loro arricchimento sfrenato. 

Non è solo una questione di cifre, come piace agli economisti-economisti. Capitalismo e democrazia. Il passaggio dal “capitalismo sociale” del lungo secondo dopoguerra al “capitalismo neoliberista” degli ultimi cinquant’anni è stato una svolta decisiva nell’economia politica statunitense e poi mondiale. Il liberal Colin Crouch ha scritto di post-democrazia; Wolfgang Streeck parla invece di “de-democratizzazione del capitalismo”. Le diversità tra vincere e perdere hanno a che fare con il grado di comando del grande capitale, con il grado di giustizia sociale e di risposte ai bisogni delle persone. Queste ultime dipendono in gran parte dal funzionamento dei sistemi amministrativo ed economico-politico e dalle culture dominanti, formali e informali. 

Trent’anni fa lo stesso Phillips scriveva, argomentando, che la democrazia negli Stati Uniti era diventata plutocrazia. Non erano molti, allora, gli studiosi che mettevano in evidenza quella trasformazione. Prima di lui, il pericolo incombente era già stata segnalato in linea di principio da un giurista come Louis Brandeis: “Possiamo avere la democrazia, o possiamo avere la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe”. Dagli scorsi anni Novanta in poi formulazioni secche sono venute anche da altri liberal, politologi come Robert Dahl (“Un’economia capitalistica di mercato limita seriamente l’uguaglianza politica: cittadini che sono disuguali economicamente è improbabile che siano uguali politicamente”, 1998) e da economisti come Joseph Stiglitz (“La disuguaglianza economica determina una disuguaglianza politica”, 2017). E’ con questo discrimine che abbiamo a che fare.

La tesi dell’evoluzione plutocratica trova conferma nell’analisi della struttura oligopolistica del potere economico-finanziario e nel controllo oligopolistico dell’informazione-intrattenimento. La giustificano anche la prolungata passività politica dei comuni cittadini e la “lontananza” da loro della politica istituzionale. (Alla fase attuale, che invece è un’esplosione di partecipazione democratica, arriviamo tra poco.) Tanti cittadini rinunciano alla partecipazione politica perché privilegi e corruzione truccano la partita, scrive Robert Reich. “Ma se rinunci alla politica”, aggiunge, “rinunci alla democrazia, e se rinunci alla democrazia è come se dicessi ai potentati del denaro…’prendetevi tutto’…A quel punto è finita. Siamo una plutocrazia al 100 per cento”. Reich e mille altri sanno bene che l’allontanamento delle persone dalla politica e dal voto è stato ed è un obiettivo perseguito dai ceti dominanti. Altrimenti come mai nelle elezioni comunali voterebbe un’infima minoranza, in quelle congressuali meno del 40 per cento e nelle presidenziali meno del 60 per cento (le percentuali un po’ più alte del solito nelle presidenziali del 2016 e nelle congressuali del 2018 sono state eccezioni). 

E se si considera che chi vota di più sono i benestanti e ricchi, si capisce sia perché il Congresso non legiferi a favore delle classi subalterne (dalla tassazione alla difesa del lavoro, al welfare…), sia perché gli stessi “rappresentanti del popolo” appartengano alla stessa classe di chi li vota (sesso maschile e razza bianca inclusi). Se non fosse così, come potrebbe un candidato al Congresso spendere milioni (suoi e della sua cerchia di finanziatori) per la propria campagna elettorale, e come mai la maggioranza di Rappresentanti e Senatori è costituita di milionari? E vorrà dire qualcosa se i lobbisti attivi a Washington per conto del grande capitale sono oggi quasi 10.000 (18 di loro per ogni membro del Congresso) e nel loro insieme spendono circa 3 miliardi di dollari all’anno per “influenzare” i comportamenti degli eletti dal popolo.

Nei trent’anni tra il 1977 e il 2007 l’1 per cento più ricco della popolazione, da solo, si è preso quasi il 60 per cento della crescita del reddito nazionale e il 10 per cento di vertice se la è presa quasi del tutto, lasciandone lo 0,5 per cento al restante 90 per cento della popolazione. La Grande recessione iniziò a cavallo tra 2007 e 2008 e durò – negli Stati Uniti – per un paio d’anni. Nel 2011, Michael Cembalest, della J.P. Morgan, scriveva in un rapporto riservato ai propri investitori: “I margini di profitto hanno raggiunto livelli che non si vedevano da decenni… Sono le riduzioni dei salari e delle prestazioni sociali che spiegano la maggior parte dell’incremento degli utili”. E aggiungeva che la tendenza alla riduzione era in atto da tempo, “la retribuzione dei lavoratori americani si colloca al punto più basso da cinquant’anni a questa parte”. Grazie, dal loro punto di vista, alla deindustrializzazione, alla distruzione dei sindacali e alla precarizzazione del lavoro. Più vicino a noi: secondo l’Ufficio di statistiche del lavoro, la quota di reddito nazionale spettante ai lavoratori statunitensi è passata dal 63,3 per cento nel 2000 al 56,7 per cento nel 2016. Detta nel linguaggio giornalistico di Thomas Edsall, del New York Times, “La parte di torta che spetta al lavoro sono sempre le briciole”. Era il giugno del 2018; è inutile dire che oggi le briciole sono diminuite ancora. 

La pandemia ha indotto un rallentamento generale dell’economia e la caduta dei consumi. Le chiusure di tante attività produttive “non necessarie” hanno avuto una ricaduta immediata e drammatica sull’occupazione. Secondo l’Ufficio del censimento tra la metà di marzo e la fine di maggio, il 47 per cento degli adulti maggiorenni – 118.530.000 su 249.171.000 – ha perso il reddito da lavoro. E tutte le fonti, inclusa la Fed, hanno confermato che le percentuali di disoccupazione e sottooccupazione degli afroamericani (delle donne più degli uomini), seguiti dagli ispanici, hanno subito un’impennata ulteriore negli ultimi mesi. Già prima i neri avevano tassi di occupazione più bassi (di 4-5 punti) e di povertà doppi rispetto a quelli dei bianchi (20,8 contro 8,1). Le cronache hanno anche evidenziato che gli afroamericani, anche in questo seguiti dagli ispanici, hanno subito contagi e decessi da Covid-19 in percentuali sproporzionatamente alte rispetto alla loro presenza (pari al 13 per cento) nel complesso della società.

Non è difficile figurarsi che cosa intendessero i ricercatori del Censimento quando scrivevano che gli americani “si sentono ansiosi o nervosi” per metà del loro tempo. I neri più di tutti. Ed è stato su un simile stato di cose che è caduto l’assassinio di George Floyd il 25 maggio a Minneapolis. Erano già successi gli altri omicidi di Ahmaud Arbery il 23 febbraio, in strada, per il puro odio razziale di un ex poliziotto, e di Breonna Taylor il 13 marzo, massacrata da poliziotti che avevano fatto irruzione in casa sua sparandole nel suo letto. Avevano entrambi suscitato un’ondata di indignazione, ma erano le fasi iniziali della pandemia; una minaccia ancora più grave, capillare e incomprensibile stava investendo la comunità nera. 

Quando sono stati ammazzati George Floyd, Manuel Ellis (ucciso in marzo a Tacoma, ma di cui si è saputo solo ai primi di giugno) e infine Michael Thomas l’11 giugno ad Atlanta, le esasperazioni combinate della pandemia, della mancanza di lavoro e dell’estrema violenza poliziesca sono esplose. Gli episodi di brutalità delle polizie locali sono ricorrenti: sono un migliaio ogni anno e le vittime afroamericane sono 31 per milione, contro i 13 per milione dei bianchi. Le comunità nere si sono ribellate spesso, dagli anni Sessanta fino a tutto il nuovo millennio, fino a ora. Ma questa volta è diverso, la sollevazione non è mai stata così generale, così duratura, così politicamente forte e propositiva. Thomas Jefferson disse che una “piccola insurrezione” è necessaria, di tanto in tanto, per prevenire “la degenerazione del governo” e accendere “l’attenzione per la cosa pubblica”. La degenerazione di questo governo non è più prevenibile, ma l’attenzione alla necessità urgente di cambiare il “sistema” è stata sollevata. Si vedrà quanto piccola o grande sarà l’insurrezione.

 

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