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Stralci di inchiesta (22): La “linea di genere” nel mondo del lavoro

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In quest’ultima puntata di Stralci di Inchiesta, presentiamo in seguito un’intervista con tre donne che hanno provenienze sociali ed estrazioni tra loro differenti, e con le quali abbiamo sviluppato una discussione sulle loro storie di vita rispetto alla questione lavorativa.

Dalla lunga discussione abbiamo estrapolato quattro punti che ci sembrano di maggior rilievo e interesse per portare in luce come la “linea di genere” attraversi e incida sull’ambito lavorativo.

Ci pare che dalle parole delle intervistate emerga in maniera chiara come questa dimensione agisca in profondità sull’esperienza soggettiva e sulla costruzione di gerarchie, evidenziando inoltre come questa demarcazione si sovrapponga di continuo con la “linea del colore” e con la stratificazione di classe.

La possibilità o meno di rifiutare determinati lavori a partire dalla propria estrazione sociale, la questione del velo e più in generale dell’essere o meno identificate come migranti, si accavallano a una selezione del mercato del lavoro che si struttura anche a partire da una determinazione patriarcale che tende a imporre standard estetici, adotta frequentemente comportamenti quali continue avance sul luogo di lavoro, si basa sul pregiudizio di una costitutiva inferiorità della donna in termini di capacità, fino ad arrivare alla questione della maternità.

Emerge inoltre in più punti l’elemento di come l’accesso al mercato del lavoro “in Occidente” abbia funzionato come aporetica acquisizione di indipendenza dal contesto familiare per inserire nuove linee di sfruttamento.

Buona lettura.

 

1. Il disagio di essere scelte per l’aspetto fisico e non per le capacità, insieme alle richieste di modificare il proprio aspetto e il modo di vestire

M – Quando si fa la commessa in molte situazioni ti dicono come vestirti, che cosa metterti, eccetera, in maniera più o meno velata: il titolare della bancarella in cui lavoravo mi regalava vestiti come pantaloncini e canottierine che vendeva lì”

[…]

F – Tutte le ragazze dei nostri dintorni che sono di provenienza straniera e per la maggior parte marocchina – che non hanno studiato come noi – lavorano in fabbrica, non fanno altri tipi di lavoro. La maggior parte è a fare la magliaia nel maglificio. Per la straniera che non ha studiato è faticoso anche fare la commessa, la barista o la cassiera perché…

A – Secondo me adesso non è un fenomeno solo legato all’essere immigrata…

F – Secondo me sì, perché c’è differenza tra una straniera come me ed una straniera che l’italiano lo parla un po’ meno bene e si vede che è marocchina. A me possono prendermi anche per fare la barista: perché mi vesto all’occidentale, perché per i canoni e lo stereotipo occidentale sono una bella ragazza, accattivante e adatta come barista. Però la marocchina che l’italiano non lo sa perfettamente perché non è nata qui ma ci è venuta che aveva dodici anni, che porta il velo e si vede che veste diversamente, non può far la cassiera – zero. Non può fare la barista, non può fare la commessa, non può fare un lavoro a contatto col pubblico.

Poi se tu sei una ragazza straniera occidentalizzata (tutte cose che io non sono e non ci tengo ad essere) puoi fare altri lavori. Ma se poi porti il velo è un altro discorso – lì fanno fatica a prenderti anche in altri tipi di lavoro. Nell’azienda dove io ho lavorato quando avevo 15 anni mandai anche mia cugina, e lei portava il velo. Ma come facevano tante donne: più come copricapo che come convinzione seria. Nel senso che magari lo hanno, ma se viene caldo lo tolgono e si sventolano un attimo. Poi ci sono donne come mia madre che lo portano perché non vogliono far vedere il capo con i capelli ed è un altro discorso. E a questa mia cugina era stato chiesto – nonostante lavorassimo in fabbrica e non dovessimo fare chissà cosa – di non portare il velo. Lei che non era religiosa e a cui non fregava un cazzo della cosa non lo portava quando era là; però era una roba comunque pesa perché se era una lavoratrice che o iniziava il lavoro o ad una certa lo voleva mettere sarebbe stata un’ulteriore discriminazione.

M – Ed è anche indicativo, perché non lo avrebbero mai detto ad un uomo.

F – Poi ho iniziato a fare la barista, presso una piscina. Mi hanno presa “perché ero molto carina”, perché io non avevo esperienza. La mia amica mi disse ai tempi: “Guarda hanno bisogno” “Mi dispiace, ma io non ho mai fatto la barista o la cameriera” “Non ti preoccupare, il mio capo ti prende perché sei molto carina”. Poi in realtà scoprono che sono capace di fare tante cose, e quindi ho preso in gestione il chioschetto e facevo un sacco di turni.

A –  Ho fatto molti lavori da barista, cameriera, hostess – tutte quelle robe lì.  E anche lì composizioni superfemminili dove le ho fatte io e legate sempre all’aspetto fisico, non mi chiedevano mai che esperienza avessi, cosa sapessi fare. All’epoca parlavo già cinque lingue perché le ho studiate da ragazzina e avevo già visto mezzo mondo – non gliene fregava un cazzo a nessuno. Facevo il liceo, facevo comunque i corsi dopo il liceo, mi sceglievano sempre per l’aspetto.

M – E hai fatto anche il colloquio in cui ti fanno la foto?… In piedi, seduta, vestita con la divisa?

A – Sì. E quindi la maggior parte di questi lavori qua li rifiutavo perché mi facevano proprio schifo. Non mi mortificava perché non mi dovevo autodeterminare così, però mi faceva schifo l’idea che fossi proprio un involucro, e lì era una questione di genere e di aspetto.

 

2. Le avances sui luoghi di lavoro, il fatto di venir notate se vestite in un certo modo, l’uso di nomignoli più o meno velatamente sessisti

M – Alle superiori ho lavorato anche come commessa in una bancarella … Ero sedicenne e lui ci provava con me spudoratamente, in situazioni super-imbarazzanti […]. Tra l’altro era cocainomane. È una situazione da cui non so come sia uscita viva.

F – In un altro lavoro sono stata presa “perché molto carina”, e molto spesso c’era questo capo idiota e era un pò coglioncello che si divertiva a lanciare commentini…

M – Comunque è impressionante perché stiamo parlando di gente – come quello dove facevo la commessa – di quarant’anni…

F – Certo! Io ne avevo 17 e lui era sposato con un figlio di una decina d’anni. A quell’età alcuni modi non sono quelli che uno ha per provarci; è più per dire sono un uomo di quarant’anni, tu sei una ragazzina di diciassette, posso farti qualche battutina perché non è che tu mi attacchi al muro e mi uccidi – io mi prendo la briga in quanto uomo, in quanto più grande di te, di poter fare dei commentini. Chiaramente non ero tranquilla neanche a 17 anni e molto spesso quando faceva la battuta prendevo la prima cosa che mi capitava sottomano e gliela buttavo addosso. Poi la cosa finiva “in tranquillità”, lui non se la prendeva e lo mandavo a fare in culo. Però io sapevo che era una cosa che non doveva succedere. Magari lì, in altre circostanze, c’erano le ragazzine a cui invece faceva piacere che il capetto di turno dicesse loro quanto fossero carine.

M – A me le cose che hanno dato più fastidio, le situazioni in cui mi sono sentita a disagio [in quanto donna] sono di due tipi. Uno sono le avance, sui posti di lavoro. Le attenzioni non richieste avvengono ovunque, anche se non sei una donna appariscente (come non lo sono io), anche per strada comunque c’è sempre quello che ti fa il commento, quello che ti rompe i coglioni… Solo che quando succede sul lavoro è molto peggio – sono quelle attenzioni che non desideri, a cui non puoi sfuggire ma sei lì e puoi dire poco, a volte non puoi dire niente – a volte sarebbe anche bello poter dire “vaffanculo, cambio lavoro” – e lì arrivi a mal sopportare qualsiasi commento. A me quello che ha dato molto fastidio è che sul posto di lavoro – di qualsiasi tipo anche adesso all’università – nessuno commenta come è vestito un uomo. Mentre ti fanno subito notare (ed io non sono una che ci mette particolare cura nel vestire) andando a lavoro con un vestito perché ho voglia, mi sento bene, non ho niente di pulito: “come sei carina..”ecc.

F – Dovresti venire più spesso a lavorare così.

A – L’avessero fatto i clienti, ma anche i miei colleghi… non si può. Forse perché io sono sempre vestita così, ma non esiste che se io ho sempre i jeans e una volta mi metto la gonna me lo fai notare cinque ore.

M – Io dico che mi sono travestita da femmina.

A – Anch’io, sempre. “Vedi, anch’io sono una femmina!”

M – La mia provocazione è che tanto il genere è performativo, di solito mi metto i jeans. Però la mia ultima volta al lavoro – quando sono arrivata con un vestitino carino e poi mi sono messa una giacchetta perché faceva un freddo boia in laboratorio – il tipo che lavora di fianco a noi mi fa “eh no eh, però quella giacchetta ti sta male, se vuoi essere carina devi toglierla…”. E lì io non ci ho visto, gli ho proprio urlato. Ho anche i cazzi miei però tu non devi neanche notare come sono vestita e non mi devi venire a dire come sono più carina; perché non lo faresti con un uomo, perché da una parte ti senti che sei un corpo sempre disponibile. Che comunque viene sempre guardato con un certo tipo di discorso e viene sempre pensato come “È vestita bene o no? È carina o no? È disponibile o no?” ed è veramente terrificante.

 

3. Essere considerate meno autorevoli/capaci dei colleghi maschi, ricevere una paga inferiore – Differenze di mansioni tra i sessi

 

A – L’ultima volta che ho rifatto la raccolta delle barbabietole a fine di questi due mesi di lavoro le femmine non volevano pagarle, perché dicevano che non avevano lavorato davvero come gli altri. Io avevo 14 anni ed avevo già un certo tipo di atteggiamento e ho montato una rivolta delle ragazze – che comunque hanno reagito ma soprattutto dei genitori. Con zero contratti e tutto a nero abbiamo minacciato [il padrone] di rovinarlo – così ci ha pagato, ma una cifra forfettaria. Continuando a dire che non avendo forza fisica avevamo fatto meno degli altri.

M – Eh però gli faceva comodo quando vi ha preso a lavorare!

A – Dopo questo ho fatto solo cooperazione con ONG grosse ; e lì composizione maschile altissima e spesso quando fai i colloqui si parla di fisicità (alla resistenza del posto) ma ovviamente non di estetica. Però c’è anche lì un po’ di pregiudizio: la sensibilità femminile di vedere dieci bambini sgozzati sarà troppa rispetto a quella di un maschio quindi vediamo se lei la mandiamo in Iraq o in un altro posto – questo sì. Nel colloquio, lì per lì, però poi dopo li dimostri sul campo anche perché arrivi, succede e ci sono i maschi che si girano e tornano a casa. Però il pregiudizio iniziale nell’insieme di fare il percorso in cui ti formano spesso c’è. Anche se in un ambiente così non te lo aspetti, io questa cosa qui l’ho riscontrata però nella pratica no – cioè l’ho riscontrata prima e non dopo.

M – L’altra cosa che mi è sempre successa soprattutto in università – il posto in cui mi sono trovata peggio dal punto di vista del genere (ho lavorato anche in ambienti molto umili, con gente con un livello culturale scolastico non elevato) e che mi ha sempre di più affaticato, è che non hai nessun tipo di autorevolezza, e questo lo dicono anche i numeri dell’università italiana. Le donne si laureano con voti più alti e fanno in tantissime il dottorato, ci sono più dottorande che dottorandi, ma i posti di potere, i posti strutturati sono prevalentemente maschili. Ed è impressionante, ci sono alcune riunioni che avrei voluto filmare perché sono l’esempio di che cosa vuol dire essere donna in certi contesti. Essere interrotte molto più facilmente degli uomini, non essere punto di riferimento a parità di mansione e a parità di competenza su quell’argomento. Eravamo tutte dottorande femmine nel gruppo di ricerca, casualmente, in quel momento; però vedevo il post-doc maschio essere facilmente punto di riferimento sia del capo che degli studenti a parità magari di competenze con la post-doc donna. E quello era veramente pesissimo, non essere prese sul serio perché sei donna. E succede sulle cose classiche (ho fatto un dottorato in cui c’erano tante cose pratiche) ad esempio non essere presa come abbastanza autorevole se ti dico che da qui a lì in macchina ci si mette un’ora. Ero tornata a casa veramente inviperita quando i miei colleghi maschi sostenevano che io mi sbagliassi a dire il tempo che ci si metteva in macchina da X a Y. I miei colleghi di Y, che magari avevano fatto un paio di volte X-Y – però se permettete la pendolare sono io!Adesso forse questo è più paradossale, però il livello è quello. Davvero avrebbero messo in dubbio questa cosa se fossi stata maschio? OK, l’auto è roba da maschi come il fuorigioco… però questo fa incazzare: non sarò un meccanico, ma manco tu – ed io sono di X, vengo qua tutti i giorni e so quanto ci vuole in macchina.

Però è brutto quando invece ti viene fatto anche su cose inerenti al tuo lavoro. Perché deve essere punto di riferimento il mio collega sulla statistica multivariata? Io ho fatto il grosso su quello, mi occupo di quello. Lui anche ne ha fatto un po’ – OK, magari in questo caso gli diamo qualche anno di anzianità di lavoro in più di me. Però lì a volte veramente… mentre con quello che mi fa l’apprezzamento sul vestito o che mi fa l’avance non voluta ti puoi incazzare, se qualcuno ti interrompe troppo in una riunione non puoi dire “io sono brava!”.

A – Ma perché anche se lo dimostri, tanto… io volevo fare la stessa riflessione. Il fastidio dell’approccio sempre fisico, ma anche del “ti sarà più facile perché sei carina”, delle robe… offensive comunque – non solo a livello del genere ma anche dell’altra persona dell’autorevolezza messa sempre in discussione.

M – Però dall’altra parte… la cosa chiamiamola positiva, che però lì al momento ti torna è a volte un po’ la benevolenza che hanno, che è una roba terribilmente sessista…

A – Ma ancora peggio!

M – Però io ammetto che ogni tanto ci ho un pò marciato per ottenere delle cose, la benevolenza del capo per cui c’è una ragazza, una femmina… Un pò c’è questa cosa che esiste a volte meno aggressività nei miei confronti quando mi rapporto con posizioni di peso, col mio capo o con qualcuno sopra di me. Non so se poi magari è il mio carattere che non sono troppo aggressiva di mio.

A – Comunque la questione dell’autorevolezza è lo specchio della frustrazione del tuo genere opposto; perché quando sto sul campo e a fine giornata succedono delle cose che io affronto in un certo modo (e non le affronto in quanto donna), ho sempre notato soprattutto in quelle situazioni di tensione altissima della frustrazione da prestazione. “Com’è possibile che siamo in questo contesto qui ed io sono scioccato e lei no?” E non è mai perché ci siano due esseri umani, uno scioccato ed uno no – ma perché c’è un uomo scioccato ed una donna non scioccata, questo mi è successo anche nel contesto più “compagno”, mi è successo sempre. Pietre tirate dai coloni, M-16 puntati, manette – “perché tu non piangi ed io stanotte ho avuto gli incubi?”

 

4. La maternità e il lavoro. Come influiscono le storie familiari, il contesto culturale, la classe e la provenienza geografica

 

M – Io su questo sono in una situazione molto particolare. Ho avuto la mia nonna materna che pur venendo da una famiglia molto benestante ha sempre lavorato; addirittura la mia bisnonna lavorava. Mia nonna materna ha potuto studiare, mentre mia nonna paterna ha fatto la terza elementare.

A – Anche questo mi ha condizionato perché ho i bisnonni laureati.

M – Capito? La mia bisnonna era andata a Firenze da sola per studiare belle arti, cosa che ha fatto anche scandalo in famiglia. Quindi vengo, da parte materna in particolare, con questa idea della donna che deve fare figli, che deve fare la femmina; però che deve valorizzarsi nel lavoro, ecc. Da una parte questo è un insegnamento per certe cose interessante, perché ti tramanda anche l’autonomia; non una concezione rivoluzionaria del tuo essere donna, ecc. però neanche quella troppo classica del “trova qualcuno che ti mantiene, fai i figli e quello è il tuo ruolo”. Non che fosse mai messo in discussione il ruolo della donna come madre nella mia famiglia – neanche da mia madre. Però è vero che questa cosa del lavoro è stata vissuta da tante donne come liberazione dal ruolo esclusivamente materno – anche se non basta ciò per metterlo in discussione.

Sia mia nonna che mia madre si sono laureate, ma quest’ultima quando ero già nata – e ha sempre tenuto molto che studiassi. È stato abbastanza determinante perché dall’altra parte avevo mia nonna paterna che invece ha avuto quattro figli, uno schieramento di nipoti e si risolveva in quello. Ha lavorato un po’ quand’era ragazzina perché non poteva fare altrimenti però alla fine si è sposata ed ovviamente ha smesso di farlo. E vedere che cosa voleva dire la vita di una donna con quattro figli – non dico che non sapesse leggere, ma mia nonna non è in grado di leggere un romanzo – è stato formativo. Obiettivamente la vita di mia nonna è stata una merda. Non stavano malissimo in famiglia perché comunque mio nonno lavorava in banca. Però con quattro figli… sempre attenta ai soldi, sempre dietro ai figli, pulire la casa che a quei tempi doveva essere splendente… e senza nessun tipo di svago che non fosse chiacchierare con le amiche.

A- Uno può anche fare una scelta di questo tipo però io non capisco quando questa diventa una gabbia. Perché ho delle amiche ad oggi che hanno fatto una scelta di questo tipo qua; e lo so che è una scelta perché hanno lavorato, è gente che ha fatto un dottorato ed a un certo punto diventa una specie di…

M – …Involuzione? Il lavoro non nobilita la donna, non nobilita l’uomo e non ti libera da niente…

A – Però stai parlando di due dimensioni, che non sia per forza il lavoro; se ti scegli una dimensione che però poi ti fa “involvere” vuol dire che non è più tanto una scelta…

M – Sì, quando pensi che quella sia l’unica scelta che hai. Mia nonna non ha mai neanche pensato che potesse fare qualcos’altro. Magari non lo voleva, per carità; però magari lo avrebbe voluto, ma non era neanche una scelta.

M – Una collega insegnante mi ha detto che era da parassiti stare in disoccupazione finchè le scuole non chiamavano per le supplenze lunghe (invece di accettare quelle brevi). Lei stessa però ha fatto dei manini incredibili per riuscire a stare a casa quando le è nato il secondo figlio. Ha fatto delle cose che secondo me ha obiettivamente fatto bene a fare, però un po’ brutte perché lei riusciva a mettersi tipo per 15 giorni in malattia poi 15 giorni in malattia del bambino, così è riuscita a stare a casa quasi un anno.

F – Bella!

M – Così a chi ti fa la supplenza non viene rinnovato il contratto ogni 15 giorni. Quindi non si prendono i punti dell’annuale…è vero che è il sistema che è sbagliato, non è lei che sbagli.

A – Certo! Ma non dico che non sia il sistema, però perlomeno stia zitta…

M – Infatti questa cosa mi ha fatto un po’ pensare perché secondo lei andava bene fare così ma non sfruttare la disoccupazione perchè nel suo caso stava espletando il suo ruolo, era madre e doveva prendersi cura di entrambi i suoi figli. E questa roba è impressionante. C’è l’etica del lavoro, però comunque sono donna, sono madre…

A – Perché lei si sentiva giustificata.

M – E se sacrifico il mio lavoro per il mio ruolo, per la cosa importante che è tirare su i figli allora va bene. C’è una grossa etica del lavoro a scuola, grossissima, ma la maternità è considerata di gran lunga più importante.

F –  . Non so se sono così tutte le famiglie marocchine o la nostra in particolare, perché noto comunque che ci sono delle differenze.  Mentre in Italia c’era e c’è la visione della donna che può lavorare; però se lavori, un po’ non compi al 100% il tuo ruolo da donna, un po’ sacrifichi il tuo ruolo da madre lavorando. In realtà questa visione non l’ho mai vista in Marocco: è normale, molto normale, non succede a tutte le donne, molte donne non lavorano per scelta, molte donne lavorano e fanno le madri e non viene visto il lavoro come un sacrificio del ruolo di madre e moglie. Forse perché molto spesso le famiglie sono povere, quindi la donna è per forza di cose costretta a lavorare; e comunque anche nelle generazioni più giovani dove le mie cugine adesso sono madri, sono sposate, ecc. e lavorano, mai e poi mai viene messo in dubbio il fatto che loro possano sacrificare il loro ruolo. A me sembra di vedere che nonostante tutto nella società marocchina la donna possa autodeterminarsi – nel senso che può decidere se voler essere madre – e solo madre, quindi casalinga – oppure se voler lavorare e comunque far la madre e fare le altre cose.

M – Ma secondo te perché è la figura della donna che non si risolve nella madre o che il lavoro non viene visto come una distrazione o alternativo all’essere madre?

F – Secondo me la seconda, perché è vero che nella famiglia di mia madre quando lei era giovane non tutte le donne lavoravano. Però quelle che hanno lavorato non erano viste con un “ah vabbé, però non hanno fatto le madri”. Era comunque fondamentale svolgere quel ruolo lì: dovevi tornare, dar da mangiare ai bambini, pulire la casa…però non veniva visto come un sacrificio enorme. È come se il ruolo della donna secondo quella cultura lì non fosse per forza soltanto la madre; che potessi fare anche il lavoro, sono un po’ cazzi suoi. Però con questo io non voglio dire che sia una cultura non sessista – assolutamente – oppure che sia un passo in avanti. Perché, potrebbe essere anche una mia impressione (non vivendo e non essendo una ragazza nata e cresciuta lì ed al 100% marocchina) ma non credo, per noi è un po’ normale vedere una donna che lavora […]. Però il ruolo di madre ce lo dovevi avere. Che tu volessi lavorare o meno quello comunque è il tuo ruolo perché tu sei una femmina, avrai dei figli… Puoi scegliere o non scegliere di sposarti, però quando avrai dei figli sarà il tuo ruolo lo starci dietro.

 

 

 

 

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