Strategia USA
Continuiamo la nostra ricerca intorno al problema più volte qui segnalato ovvero l’apparente sproporzione tra l’ambizione che traspare nei piani americani e la forza effettiva dell’amministrazione Biden.
Quanto all’ambizione, non v’è dubbio che l’attuale amministrazione si sia data compito strategico di ampia portata ovvero fare i conti col destino apparentemente inevitabile di un ordine multipolare che annullerebbe ogni vantaggio sistemico per gli Stati Uniti. Fin qui nulla di particolarmente nuovo, il nuovo potrebbe essere nel modo di perseguire l’obiettivo o forse un nuovo molto antico. Nell’ambito del pensiero strategico americano, si è a lungo ritenuto la Cina il competitor a cui gli USA dovevano guardare. Alcuni realisti hanno anche prospettato come utile una “strategia Kissinger” che riproponesse il vecchio “divide et impera” applicato al tempo di Nixon, quando uno dei più conservatori presidenti americani venne portato a Beijing a stringere la mano addirittura a Mao Zedong, pur di separare comunisti cinesi da quelli russi che ai tempi erano il nemico principale.
Secondo questa linea di pensiero, si sarebbe dovuto quindi cercare di staccare gli interessi russi da quelli cinesi. Ricordiamo che la Russia è una potenza armata non economica, la Cina il contrario, a grana grossa. Ha destato quindi un certo stupore verificare la foga e l’impegno materiale e politico straordinario con il quale Biden (qui come nome di una strategia collettiva di gruppi di potere di Washington) ha affrontato la, a lungo coltivata e poi scoppiata, guerra in Ucraina. Perché la Russia quando l’avversario strategico è la Cina?
Le strategie rispondono a problemi molteplici, quindi hanno ragioni molteplici ed applicazioni molteplici. La domanda semplice, quindi, non può non avere che una risposta complessa. Ma qui non abbiamo spazio e tempo per indagare questo campo di analisi. Diremo solo che ci sembra importante quanto dichiarato dal Segretario alla Difesa Lloyd Austin il 25 aprile scorso ovvero che il fine dell’impegno USA nel conflitto ucraino ha come obiettivo “vedere la Russia indebolita” strutturalmente, cioè a lungo. “A lungo” va oltre il conflitto ucraino, si riferisce al conflitto multipolare che durerà anni, non mesi. Tre gli assi dell’agognato indebolimento: a) quello strettamente militare ovvero distruzione prolungata dei materiali bellici russi che richiedono anni per il rimpiazzo; 2) quello economico agito tramite sanzioni ed isolamento economico e finanziario, se non altro con il sistema occidentale, comunque, ancora ben al di sopra del 50% di ricchezza mondiale; 3) quello diplomatico che s’accompagna al secondo obiettivo. Come disegnato dal nuovo strategist della Casa Bianca, quel T. J. Wright ex direttore del Brookings Institute nel suo “All Measures Short of War” (2017), gli USA non possono recedere dalla prioritaria difesa dell’ordine “liberale” globale, senza arretrare di un millimetro nonostante la crescita dei problemi, dei concorrenti, del disordine del mondo sempre più complesso.
Solo che Wright proponeva una strategia complessa che non usasse più di tanto a leva bellica mentre ciò a cui assistiamo ed in conseguenza di ciò che ha detto Austin, va in senso contrario. Non si può fare i conti col desiderio strategico di voler vedere la Russia indebolita senza fare i conti con le questioni belliche poiché la forza della Russia è bellica, non economica. La loro stessa forza diplomatica che vediamo penetrare lentamente in Africa agisce tramite armi non investimenti come fanno i cinesi. Va qui precisato che la strategia generale di un sistema come gli USA, non è mai pensata e decisa da un solo attore, è vano cercare l’Autore originario in quanto non c’è, ci sarà un gruppo con molti attori neanche noti o visibili, di cui il presidente o il suo più stretto entourage politico, fa sintesi. Tra l’altro ciò permette il fatto che la strategia generale resti ignota nel suo disegno complessivo, poiché pochissimi ne condividono l’intera architettura. Quindi Wright va benissimo quando si tratta di sanzioni e diplomazia, ma non è affatto detto che si prenda sul serio la sua “Short of War”.
Torniamo allora al 14 aprile quando Biden convoca alla Casa Bianca i vertici degli otto maggiori produttori d’arma americani per un briefing generale. Ufficialmente, l’incontro è stato messo in relazione con i continui sforzi americani di armare gli ucraini. Pochi giorni prima, un think tank militare di Washington (CSIS) aveva sfornato un report in cui si diceva che già allora, gli americani avevano consumato un terzo delle proprie riserve di Javelin e Stinger e che ci sarebbero voluti tre-quattro anni per ripristinare le scorte per i Javelin, cinque per gli Stinger. Ma una fonte anonima della Casa Bianca ripresa dalla stampa americana, aggiungeva che non era solo per quello che s’era indetta la riunione. In effetti, se fosse stato solo per quello ce la si cavava con un paio di telefonate a Raytheon e Lockheed-Martin. La fonte faceva capire che: a) la prospettiva di fornitura e consumo d’armi sarebbe stata molto prolungata nel tempo; b) la questione non riguardava solo gli Stati Uniti e l’Ucraina, ma anche gli alleati.
Non passa giorno, incluso ieri, che Stoltenberg non ribadisca che il conflitto sarà molto, molto lungo. Ma non è questa la piega che sta prendendo il conflitto sul campo, gli ucraini non sono in grado per uomini e sostenibilità economica e psicologica di reggere un conflitto per “anni ed anni”. Né lo vogliono gli europei che poi son quelli che debbono mettere i soldi per la ricostruzione di cui tra l’altro Zelensky parla sempre più spesso come di cosa ormai anche più importante delle armi stesse. Altresì, la recente conversione armaiola di Germania, Europa e presto Giappone oltre ad Australia, Canada oltre a Gran Bretagna che sull’argomento fa da sé e si è già organizzata per tempo a riguardo (dichiarazioni Johnson già da molto prima del 24 febbraio ), chiama ad un impressionante incremento produttivo proprio americano poiché è l’unico competitivo sul mercato ad oggi e tale rimarrà almeno per i prossimi cinque-dieci anni o forse più visto il vantaggio tecnologico che ha su ogni altro tentativo di esplorare competitivamente questo particolare mercato.
Sono così andato a verificare cosa realmente producono non solo Raytheon e Lockheed-Martin, ma anche gli altri convocati alla famosa riunione, cioè: Boeing; Northrop Grumman; General Dynamics e L3Harris Technologies. Molti di questi non producono nulla che possa servire alla guerra in Ucraina, ad esempio forze aeree, spaziali, navali. Così, se a livello di radar, missili, droni e carri si poteva trattare la faccenda al telefono o a livello di singoli responsabili di approvvigionamento-produzione, per una grande stagione di riarmo generale, non solo americana ma occidentale in senso più ampio e tenuto conto se il riarmo occidentale trainerà il riarmo globale, la faccenda diventerà sistemica e quindi la riunione ci stava tutta.
Abbiamo qui già presentato la prossima puntata conflittuale dell’Artico che è poi quella che ha mosso la altrimenti inspiegabile entrata nella NATO dei due scandinavi (in pacifica convivenza coi russi da sempre, privi di contenziosi, di allettanti risorse, di russofoni maltrattati o di rilevanza strategica generale che la Scandinavia non ha mai avuto in nessun modo e quanto alla Svezia, addirittura di confini comuni coi russi). Riprendendo le analisi di un numero dedicato a suo tempo da Limes, Fabbri stesso l’altro giorno ricordava la base russa di Murmansk, l’unica libera dai ghiacci tutto l’anno, ad un tiro di schioppo dal confine finlandese, ma volendo anche svedese. Ma nell’incontro tra il turco Cavasoglu e Blinken, si è parlato anche di Caucaso (dove è in subbuglio l’Armenia, storico alleato di Mosca) e del centro-Asia i cui presidenti facenti parte della piccola NATO russa (CSTO) si sono di recente incontrati a Mosca, preoccupata dello scarso entusiasmo che gli alleati hanno sin qui mostrato per l’avventura russa in Ucraina. Pare in aumento anche il contingente americano in Siria, in Somalia, e si può sempre prevedere qualche ripresa delle dispute russo-giapponesi su Sakhalin (nientemeno che oro, argento, titanio, ferro, carbone e tra i più grossi giacimenti del mondo di gas e petrolio ancora non estratti) o la famosa disputa della Isole Curili in cui i russi hanno strategiche basi di navi e sottomarini.
Letti gli azionisti dei top-eight produttori d’arma ovvero il gotha finanziario dei grandi fondi di Wall Street che da mesi sta uscendo dalle posizioni sul hi-tech, si può riconsiderare il famoso sistema centrale del potere americano indicato da Eisenhower nel 1961 come oggi diventato: complesso militare-industriale-congressuale-finanziario. Il Congresso a cui Biden aveva chiesto da ultimo 30 mld per l’Ucraina, ha deciso invece di dargliene 40, sua sponte bipartisan poiché il sistema beneficia tutti e due i partiti. Il Congresso immette la liquidità, i militari chiedono all’industria di produrre per poi usare in proprio o vendere agli alleati ora avidi di armi che non sanno produrre in proprio. La finanza banchetta e così sono tutti felici. Industria e finanza, poi tornano parte del bottino in finanziamento dei partiti e dei singoli rappresentanti, anche col sistema delle porte girevoli, posti di lavoro per le corti di amici/amiche ed assistenti, think tank et varia. Le armi verranno regolarmente usate nella collana di perle di ferro dei mille conflitti che oscureranno la collana di perle di seta cinese. La Russia sarà sfiancata in attriti multipli, sotto sanzioni, punita diplomaticamente. Gli alleati non avranno scelta che seguire il capo branco anche perché non hanno forza, strategia ed intenzione alternative comparabili.
La forza del sistema denunciato più di settanta anni fa da un presidente che però era anche un generale ed anche repubblicano sebbene il suo famoso discorso d’addio vene scritto da un sociologo democratico (democratico ideologicamente, alla Dewey), può forse garantire la strategia anche dopo l’aspettata sconfitta alle prossime mid-term. Rimane una strategia ambiziosa, ma è calcolata. Bene o male lo vedremo. Chissà che alle prossime presidenziali americane non si sospenda il voto se gli USA, nel frattempo, saranno entrati in guerra in prima persona.
In questi giorni le frastornate opinioni pubbliche scoprono il problema alimentare globale noto già dai primi giorni di guerra ma inadatto ad esser allora posto vista l’urgenza della pressione comportamentista alla Watson-Skinner a base di “aggressore-aggredito”. Per questo, come per quello ecologico-climatico, come per quello geopolitico-economico-valutario-finanziario, gli USA hanno la soluzione, non è nuova ma funziona da cinquemila anni ed è obiettivamente forse l’ultimo loro esclusivo vantaggio comparato. Sempre che non sfugga di mano e non trascenda nell’atomico. Rischioso? Ce lo disse Ulrich Beck già nel 1986, la nostra è l’Età del rischio.
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