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Sul 36: riflessioni sulla politica del bordo tra università e spazi urbani; il problema delle due velocità

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Conversazione con il CUA Bologna a partire dalla vertenza dei tornelli al 36 di via Zamboni, realizzata nel giugno 2017

Nella “fiammata“ del 36 contro l’installazione dei tornelli si rintraccia il problema delle due velocità dell’organizzazione della vertenza e della possibilità della sua generalizzazione nel contesto più ampio di una soggettività giovanile presa nel settore universitario e sfruttata dentro e fuori da questo. Presenti alla configurazione generale, attenti alla complessità senza distogliere lo sguardo dalla punta del piede, domandando, caminantes alla ricerca di piccole contraddizioni che possano scatenare grandi incendi.


Questo materiale è stato la base di discussione da cui è partito il workshop “Spazi, bisogni e metropoli: la riproduzione sociale come possibile terreno di conflitto giovanile. A partire dall’esperienza del 36 di Bologna” del Seminario Autonomia Contropotere di luglio.

Pubblichiamo di seguito una versione ridotta dell’intervista a due compagni, indicati con le lettere A e B. Qui invece potete trovare il pdf con la versione integrale. Buona lettura.


I: Cos’era la biblioteca di via Zamboni 36?

A: Il 36 è un luogo pregno di significato e di valore simbolico, perché ha tutta una storia all’interno della zona universitaria di almeno 30 anni e ha rappresentato una situazione di incontro e attraversamento per 4-5 generazioni di studenti. Negli anni ’90, dal 1991 al 1996, il 36 è stato una sala studio occupata e autogestita. Sgomberato manu militari venne poi adibito a Biblioteca di Discipline Umanistiche, funzione che svolge tutt’oggi. La sua particolarità consiste nella somma di vari fattori (di scaturigine differente, non soltanto soggettiva-contro): è un luogo di aggregazione che è al centro della zona universitaria, accanto a Piazza Verdi e per come è fatta Bologna – una città che è ancora abbastanza zonizzata- la zona uni rappresenta proprio un pezzo di città con attraversamento quasi esclusivamente universitario a tipologia di vita (per routine, bisogni e comportamenti che determinano specifici flussi, attività commerciali, tempi ecc.) appunto universitaria . Il 36 si trova al centro di questo, circondato da dipartimenti umanistici che per un motivo o l’altro, storicamente o meno, sono comunque casse di risonanza e centro nevralgico di aggregazione e irradiazione di discorso politico, perciò necessariamente lì si coagulano molteplici spinte, molteplici contenuti politici-contro. Concorrono nel tempo, come dicevo, varie ragioni, di continuità antagonista lunga (sulle decadi) – che determina immaginario significando in senso forte questo territorio – e di funzionamento e configurazione dell’urbano bolognese. Nel 2006, la primavera dopo il movimento No Moratti, furono montati al 36 dei tornelli, quella volta non a porta, ma tipo quelli della metropolitana. Durarono pochissimi giorni. Al termine di una iniziativa in mensa, sempre contro il caro-mensa (guarda le coincidenze!), ci si spostò al 36 e si resero inutilizzabili e inservibili questi tornelli.  I segni dei tornelli ormai furono visibili sul pavimento fino al 2011, quando l’università li ha rimossi completamente. Sono quindi almeno 20 anni che a partire da questo spazio specifico, il 36 di via Zamboni, si sviluppano lotte, all’interno di uno spazio più largo, la zona universitaria, che da più di 40 anni è attraversata da lotte, movimenti e sommovimenti.

[…] Ci sono passate tante generazioni e quindi col tempo si è venuto a creare – definendolo in modo un po’ improprio – anche un senso di comunità intorno al 36. I 36’s (o Quelli del 36) che abbiamo visto questo autunno nascono 4 anni fa quando facemmo delle magliette con scritto 36ers. Si trattava di tutta quella comunità molto trasversale di studenti e studentesse, che magari ora non stanno nemmeno più a Bologna, che in quegli anni attraversò e partecipò anche attivamente l’occupazione del soppalco. Era l’autunno 2013, aumentarono il costo del caffè (da 40 a 60 centesimi) alle macchinette  e l’università, in piena sbornia brandizzante, stampò il simbolo dell’Alma Mater sia sulle macchinette che sui bicchieri (distopico ma attuale; sembra eccessivamente pretestuoso ma, dietro quell’operazione, si insidiavano i primi tentativi di ri-collocare quello spazio di discontinuità dentro la riproduzione soggettiva universitaria). Non ce la fecero: noi occupammo una parte della biblioteca, che era appunto quel soppalco che dicevo, fino a quel momento vuoto e inutilizzato e mettemmo la macchinetta del caffè autogestita, facemmo un murales dentro e da quel momento diventò una sala studio libera e collettiva.. Da quel momento questa “comunità” si dette un nome e non è una cosa da poco. Si instaurò per quanto embrionale e labile un punto di partenza comune: siamo quelli del 36, quelli del soppalco, delle balotte in cortile, della Sala Affreschi. Anche questa è un luogo sui generis, una sala studio aggregativa che tutti conoscono come tale, che è una sala al 36 in cui ci sono gli affreschi (non lo avresti mai detto eh!) e i tavoli al centro, che era anche quella un po’ più della socialità, in cui potevi studiare ma anche chiacchierare, se bisbigliavi nessuno ti diceva ‘‘shh’’ eccetera… insomma attraverso vari vettori, ecco questa comunità si convocò appunto con questo strumento delle magliette e con una pagina facebook;  in quel periodo ci fu una coscienza collettiva di ‘‘essere del 36’’ e si è mantenuta sotto traccia fino ai giorni dei tornelli. Cioè nel tempo era un po’ sfumata, ma è stata facilmente recuperata sicuramente attingendo a una percezione collettiva ancora totalmente attuale; ci fu la prima assemblea la sera in Sala affreschi e c’erano più di 100 studenti. Fatto non scontato perché era a margine delle vacanze di Natale, il 23 gennaio.

I: E quindi in questo luogo particolare arriviamo a questo tentativo di installare i tornelli…

B: Quando sono arrivati erano mesi che parlavamo di tornelli, quindi è stato naturale chiamarli tornelli ma di fatto non erano tornelli. Era un muro di vetro, completamente di vetro, con una bussola da una parte e una dall’altra, una per l’entrata una per l’uscita: per entrare bisognava strisciare il badge, aspettare che si aprisse una porta, entrare, chiudere la porta, premere un pulsante e fare aprire l’altra porta. Quindi già di per sé, per una biblioteca attraversata come quella del 36, avrebbe significato  file chilometriche all’esterno perché per fare quest’operazione 30 secondi una persona ce li mette, e per quel che dicevamo prima rispetto al flusso, verso l’interno e l’esterno, questa barriera era qualcosa che lo interrompeva… smetteva di essere una cosa spontanea, che so, ti stai fumando una sigaretta fuori, la butti perché vedi un tuo amico dentro ed entri, no, a quel punto devi fare tutta sta trafila…

A: C’era una velocità organizzativa che ci aveva permesso di fare la settimana di autoriduzione in mensa, perché lanciavamo il concentramento fuori dal 36 e in un attimo la gente usciva. Quella era un’iniziativa antagonista micidiale, pericolosa, e il muro di vetro in effetti la minava, faceva venire meno proprio il processo per cui in un quarto d’ora ti trovavi in cento persone, andavi in mensa e facevi gli scontri. Un flusso-contro da interrompere, da sabotare.

I: Riprendendo la cronaca: primo giorno, c’è questo muro piuttosto che questi tornelli, è spontanea la pratica che si instaura di aprire le porte…

A: Sì, diciamo che l’abbiamo inaugurata noi e poi si è innescato un meccanismo. All’inizio eravamo i compagni del Cua, ogni mattina andavamo lì in una ventina, il primo giorno eravamo noi e poi eravamo già di più…

I: C’era stata comunque una assemblea per parlare di questa cosa e quindi un primo embrione di mobilitazione e attenzione su questa cosa, no?

A: Sì, il primo giorno abbiamo fatto assemblea in Sala Affreschi, la mattina stessa avevamo aperto le porte. C’è stata assemblea, dicevo, il 23 sera con 100 studenti più o meno – cosa che è andata crescendo fino al giorno dello smontaggio in cui eravamo 200 – nel dibattito venivano fuori un sacco di nodi che sentivi prima nei capannelli della quotidianità. La vita del 36 era fatta di capannelli, di balotte come si dice qui a Bologna.

I: Ricostruiamo la cronologia, quindi: tornelli, assemblea, decisione di andarli a smontare…

A: Dopo la giornata di lunedì, si fa evidente la possibilità di continuità rispetto a tutta la stagione sulla mensa: poneva ancora la non-pacificazione della zona universitaria, era ancora motivo e contesto di forte ostilità all’università modello Ubertini e modello Gelmini e quindi un luogo di battaglia su cui investire. Abbiamo cercato di fare più passi avanti possibile. Intanto cercando di impedire che quel meccanismo potesse passare al 36 e in generale provare a tenere questo livello di tensione in zona universitaria tale per cui, anche rispetto alla storia di piazza Verdi, non potesse essere possibile pensare alla zona universitaria come pacificata. Renderla zona di scontro, scontro sociale, su fronti molteplici: mensa, welfare studentesco, diritto agli spazi; rendere la zona coacervo di micce sociali diffuse e questa cosa doveva essere per noi chiara e doveva essere percepita dalla città, dal sindaco, dal questore Coccia. Il punto era ed che in zona Universitaria, al 36, non sarebbero passati, quel tornello era necessario smontarlo, sia nel senso fisico che come disinnesco dell’iniziativa politica delle controparti che appunto provano continuamente in questa lunga stagione, dalla cacciata del 2013, a colpire e intervenire nella zona Universitaria e in tutti i luoghi di insubordinazione organizzata, fucina di discorso e comportamenti-contro. Quindi abbiamo detto: non giriamo la testa, questa roba non deve passare al 36 a costo di barricate. Che poi sono arrivate il 9 febbraio. Perché era appunto il primo passo di una carovana di recrudescenze politiche nemiche che avrebbe portato a un’altra serie di interventi, sarebbe stato il prodromo di una disfatta e dunque non poteva accadere. Quindi la scelta è stata quella di smontarli e portarli al rettorato a dirgli “tu questi qua te li tieni a casa’’, nell’ambito di una forte dialettica politica molto tesa all’interno dell’università, della città, del loro convergere e ibridarsi in questa particolarità bolognese. E qui va ribadito un altro nodo fondamentale: è dopo le barricate e il contrattacco del 9 febbraio che abbiamo le assemblee da 800 persone e i cortei arrivano a contare 3000 partecipanti, non prima. E qui che va in crisi il binomio conflitto e consenso e la sua coniugazione: lo scontro, agito in maniera intelligente, se capace di far saltare contraddizioni apre sempre nuovi spazi. Ma questo lo avevamo già verificato più volte.

I: Ok, quindi c’è questa decisione di smontarli…

B: Sì sì, allo smontaggio, l’8 febbraio, eravamo almeno 200 persone. La biblioteca si è svuotata, tutti sono usciti fuori a sostenere l’iniziativa.

I: Fino a questo momento c’era un discorso pubblico della controparte per giustificare quel tipo di dispositivo lì? Per dire, anche la questione della sicurezza quando è che cominciano a tirarle fuori?

A: Il discorso pubblico sul 36 la controparte lo ha costruito dopo, non ha creato i prodromi, le premesse giuste per costruire in città un umore ad hoc, e questo è stato un errore da parte loro. Hanno agito in maniera puramente organizzativa, tecnica in senso forte: questa è una governance di tecnici, matematici, ingegneri, quindi pensa gestionalmente e agisce in questo senso. In un vuoto politico nella città che c’è da un anno e mezzo e che ha riempito la questura, nessuno di loro ha avuto la premura di costruire questo tipo di discorso e di costruirlo non tanto per la comunità universitaria, ma neanche per la città. Il problema sicurezza sul 36 è arrivato dopo, quando si sono accorti di aver detonato tutta una serie di umori che andavano ben oltre la necessità di una soggettività unica, cioè il responsabile della biblioteca del 36, che produceva questo tipo di problema. Il rettore fa questa operazione qua: gestisce in maniera puramente organizzativa un luogo che inizialmente non legge politicamente, non conosce. E quindi tenta in maniera anche goffa di recuperarlo. Solo che ormai in città è difficile farlo, e li ha salvati paradossalmente in termini di narrazione pubblica lo spauracchio ’77. La controparte dopo il 9 febbraio per colpire, infamare, attaccare l’embrione di sommovimento che si stava creando nei termini della mobilitazione collettiva, auspicabilmente di massa (chiamarlo “movimento“ è fuori luogo), hanno dovuto ricorrere a questa cosa. E parliamo di una coincidenza fortuita, perché c’era il quarantennale del ’77 a Bologna. Mancava poco all’11 marzo. Merola stesso apre il consiglio comunale dicendo “questo non è il nuovo 77’’, a Palazzo d’Accursio, a un chilometro dal 36. In una maniera che ci sembrava funzionare, imponiamo al nemico il discorso, lo imponiamo a pezzi di controparte, li costringiamo su un terreno ostico. “Questa è una ristrutturazione, la città che cambia, la gentrificazione, l’estromissione, l’allontanamento di certe soggettività sociali da certi luoghi, il rifacimento di un tipo di flusso della città’’: questa roba qua l’abbiamo inserita noi, per allargare alla città il problema 36, perché non riguardava soltanto la comunità accademica. Per come è configurata questa governance, per quanto sia anche molto centralizzata, verticistica, con Ubertini che decide tutto, non hanno vissuto politicamente la questione all’inizio, siamo noi che l’abbiamo imposta in questa maniera: “voi state partecipando a questo“. Loro c’erano dentro ma non fino in fondo, non si erano costruiti le premesse, le condizioni, solo il chiacchiericcio. Il livello era il bibliotecario che ti diceva: “sapete che magari metteranno i tornelli“.  Era questo il livello di comunicazione politica all’università. Quindi non soltanto non c’era sulla città ma nemmeno sull’Università. Si sono salvati con lo spauracchio del ’77, in termini di pubblica condanna.  Quella petizione farlocca su change contro il CUA promossa da pezzi di CL, studenti ostili, associazioni di destra e resti di quel brodo culturale lì,  ha dato un forte segno di debolezza. Loro erano deboli politicamente su quello che avevano fatto, perché non avevano gli strumenti per difendere questa iniziativa, e l’unico modo era la polizia, i reparti mobili al soldo di un questore politico che riempie un “vuoto” politico e ci trascina il Rettore, marionetta ora di Salvini ora di uno sceriffo.

B: Il giorno dopo che vengono smontati i tornelli il 36 resta chiuso. Si decide così di rientrare, di occuparlo. Il 9 febbraio.

I: Torniamo sulla giornata dello sgombero: arriva la polizia e gli studenti come reagiscono? Chi si mette in mezzo? La gente se ne voleva andare?

A:  Sì, loro fanno irruzione, ci mettono un’oretta per sgomberarla perché comunque sono andati incontro a dinamiche di resistenza, quindi per alcuni momenti si sono trovati paralizzati. Pensavano di trovarsi dentro 50 militanti, si son trovati anche studenti che passata la paura iniziale, perché non se l’aspettavano minimamente, poi hanno reagito. E quindi si son dovuti confrontare con dinamiche di questo tipo. E poi c’è stata anche la resistenza che abbiamo visto, anche dentro perché la digos ha cominciato a prendere a pugni i ragazzi ed è saltato qualsiasi livello di timore: si era creato un livello di aggressione per cui chiaramente reagisci. Poi lo ripeto per noi il 36 è prima di tutto una comunità, così ci siamo sempre percepiti, non è inviolabile in quanto luogo aureo dei saperi, dei libri intoccabili, ma in quanto fucina-contro, irradiatore di discorso e pratiche-contro. Rifiutiamo questa posizione delle biblioteche intoccabili, delle aule intoccabili. I conflitti vibrano in queste pagine e, se proprio vogliamo dirla tutta, la metà dei testi della biblioteca del 36 parlano di guerre, rivoluzioni, critiche sociali. Con buona pace della direttrice. Quindi insomma aggressione della polizia, reazione e contrattacco.

B: Sì, sì, quando vedi uno accanto a te picchiato…

A: “Tout le monde detéste la police” è arrivato facilmente. Picchiano uno  e quindi “tout le monde detéste la police”, subito. Esce il corteo, arriva in piazza Verdi e anche qui “tout le monde detéste la police” e la dinamica delle barricate e del contrattacco per riprenderci il nostro spazio. Che poi abbiamo visto nella maniera più immediata…

I: Sul corpo studentesco più generale come è stata accolta questa cosa, non nei termini consenso/dissenso ma per stimolare un dibattito, una cosa che va sempre valorizzata: come ci muoviamo e che non è questione di ragionare in termini maggioritari/minoritari, e che la dicotomia consenso/dissenso è sempre insufficiente rispetto invece a cercare un’azione che spacca e che crea “la buona spaccatura”. Quel che ci chiedevamo è che tipo di discussione questa azione ha creato, se è stata un trampolino per generalizzare un discorso: almeno che la gente si facesse delle domande sulla trasformazione universitaria, gli spazi, cosa significa essere studente oggi?

A: Questa cosa sicuramente. Sicuramente quando abbiamo fatto l’assemblea oceanica, quella principale, quella degli 800 studenti al 38, ognuno apriva una finestra, un nodo, un problema differente e approfondito. Lì tutte queste energie sociali latenti si sono aperte, sono detonate, si sono liberate. Energie che andavano a individuare in questa mobilitazione, in questo evento dell’irruzione, tutti i caratteri di quel discorso politico, di quel che stava succedendo in città. Poi chiaramente capiamoci, altrimenti trasformiamo in un idillio quell’assemblea: convergevano anche  interessi e pulsioni diverse tra loro. Ma su alcuni nodi di fondo  poi c’era una sintesi. La concezione che il modo in cui si ristruttura la città produce saturazione e quindi insubordinazione, e che non accetteremo questo cambiamento, si diffondeva questo umore: vogliamo gli spazi, i servizi, la polizia è un problema. C’erano questi vettori di minima, si riscontravano, e quindi funzionavano: insofferenza sociale forte verso l’università che si ristruttura. Questo sicuramente, anche rispetto ai temi del lavoro gratuito, del tirocinio, delle possibilità lavorative. Tutte queste cose uscivano in assemblea. Era un discorso su cui negli anni avevi lavorato. Quindi funzionava. Stare in università e fare antagonismo in questi spazi è un intervento strategicamente nevralgico e attuale: ci sono possibilità di detonazioni, esistono delle vibrazioni che avevamo ipotizzato.

La cosa che chiaramente succede  in questo tipo di mobilitazioni qua è che ognuno arriva con la propria ipotesi di verità. C’erano sforzi laterali differenti rispetto al percorso centrale, chi veniva a dire “qua deve succedere questo e quest’altro!”. Pezzi di movimento che ormai fanno riferimento alle istituzioni che producevano un discorso differente rispetto a quello del tempo del riscatto possibile. Parte dell’associazionismo di sinistra ad esempio, da buoni gesuiti, viste le scabrose (per loro) giornate di lotte del 9-11 febbraio pensano immediatamente di venir a dar lezioni di buon gusto e metodo agli studenti scalmanati. Teachers! Leave those kids alone! Non poteva esserci spazio per questa cosa, era un problema politico. Non soltanto dovevamo individuare la generalizzazione possibile, ma anche rompere questo umore che si cercava di imporre all’assemblea, per cui “già tanto è stato fatto, adesso c’è bisogno di mettersi a un tavolo e discutere cosa fare della zona universitaria”, che poi significava aprire a qualche progetto legato al peggior associazionismo di sinistra. Quindi si davano anche spinte contrastanti. Quando queste spinte entravano in una dialettica virtuosa assistevi a grosse accelerazioni e allo sviluppo del processo di ricomposizione ; ma non sempre la dialettica era armoniosa, e quindi poteva portare anche a rallentamenti.   

I: Dopo questa aggressione nel giorno dell’irruzione ci fu l’assemblea: le domande che vi siete posti rispetto agli umori che percepivate sia la sera stessa dei riot che nei giorni successivi, parlavano di una risposta da fornire, ovviamente, rispetto a quel genere di aggressione. Qual era lo spettro delle risposte possibili: riaprire il 36 oppure la vendetta anche banalmente rispetto a quel gesto lì?

A: Era uno spettro appunto, non c’era omogeneità. Noi chiaramente abbiamo cercato il più possibile di mettere in sinergia le due cose, e quindi nella vertenza per la riapertura del 36 costruire le condizioni per il riscatto sociale. La sintesi che volevamo trovare era questa e passava necessariamente per la ri-conquista del 36. Cercavamo il più possibile di sottrarci ai moti ansiogeni e isterici immediatisti, cercavamo di pensare processualmente spinte e controspinte, senza essere un’istantanea di noi stessi. Cosa che ci avrebbe portati, e fortunatamente non sta succedendo, a prospettive dispersive del tipo “ci hanno cacciati, combattiamo nella città”.  La vittoria sulla vertenza era il trampolino necessario per aprirsi alle molteplici strade, venivamo da due mesi di scontri in mensa che avevano funzionato soltanto, ma giustamente!, sul terreno della soggettività. Si parlava di come funziona la città, di cosa vuol dire essere universitari, quali sono i vettori attraverso cui si riproduce soggettività capitalista e attraverso cui sei costretto ad assumerti delle velocità, dei bisogni che non ti sono propri…c’era tutto, ma si dovevano riaprire quei portoni.

I: Quindi oltre la questione del tornello…

A: Certo, era già oltre. Dovevi tenere insieme le cose: c’è la battaglia e c’è la guerra. Pugna e bellum, sul 36 ti scontravi con un sistema riorganizzativo che sta cambiando la città e l’università. Era quello il bordo dell’università ma non potevi dimenticare il centro, quindi era questa doppia velocità che volevamo cercare di tenere insieme, e tuttora è aperta

I: E invece per quanto riguarda i vostri dibattiti interni? Per quanto potete ricostruire quei momenti densi, di accelerazione, come CUA anche pensavate come vi aveva sorpreso anche la dimensione di quel singolo episodio? Quali domande vi siete fatti, quali nodi avete sciolto, quali cose avete capito per organizzarvi in maniera diversa… di che parlavate?

A: Sono molti i problemi che ci siamo posti in brevissimo tempo. Questa cosa ci ha colto non dico alla sprovvista, perché comunque ti eri organizzato per sostenerla ma le cose sono andate oltre le aspettative. C’era come dicevo un problema principale: le parrocchie, una roba allucinante. Interessi differenti, strategie differenti e i soliti “pontefici a distanza”. A noi interessava quel portone chiuso, quel famigerato 36 e gli spazi di possibilità politica che apriva un’assemblea di 800 persone nel deserto. Trovare una sintesi che non producesse inutili spaccature era necessario, evitare che chi si organizza nei collettivi fosse percepito come un problema, fare quello che dobbiamo fare, aprire spazi, lotte, farle circolare e diffondere. Quando venne Davide (NdR: il riferimento è all’incontro con Davide Grasso, combattente italiano delle YPG) disse una cosa importante: pose l’accento sull’importanza dell’organizzazione. Quello dovevamo fare, niente querelle e opportunismi, la lotta punto e basta, né più né meno. Ovviamente a dirsi è un attimo, a farsi non proprio un attimo. All’assemblea degli 800, dopo la quale infatti uscimmo in corteo verso casa di Sara detenuta ai domiciliari, ti chiedevi “Siamo sul bordo, un bordo spesso 800 persone, come stiamo dentro la mobilitazione e la città?”.  L’unica risposta era lo sviluppo di soggettività-contro. Era tutto lì. C’era ancora dissenso politico praticabile.

I: Intendi il bordo tra università-città?

A: Università-città, università-mondo del lavoro. C’era gente che arrivava in assemblea con la bicicletta di Just Eat. Era questa roba qua. Noi dicevamo “esiste, c’è questo spazio politico”, e non è solamente dell’università come arena del dibattito fra idee, tra saperi. C’è di più. Un mondo dei saperi che è il mondo del precariato, c’è questa sinergia pratica da ipotizzare. Oggettivamente nelle lotte, e forse non soltanto, c’è ibridazione tra settori di classe sul terreno – ad esempio – di bisogni, desideri e comportamenti comuni. E’ questo che chiamo metodo del bordo, collocarsi su questa possibilità, su questa ipotesi. Il 36 è una biblioteca dicevamo sui generis, è uno spazio, averlo sgomberato già immediatamente lo relava coi centri sociali, con le case occupate. Ci passavi il tempo intermedio tra le urgenze riproduttive e dunque in assemblea emergeva il problema del tempo libero, si parlava di cosa fare quando non studi e non lavori, della sospensione disoccupazionale ecc.: in tutti gli interventi c’era questo, una partecipazione sociale a vari settori della vita e dell’organizzazione cittadina metropolitana. Questo ci interessava molto, vale la pena continuare a scommetterci.

Quindi all’interno di questi nodi era questo il problema, come coniughi la generalizzazione a partire da una vertenza singola: sennò era chiacchiera. Questo era difficile: tenere 2 velocità. 
Anche come iniziativa nostra, dentro il CUA, ci abbiamo riflettuto: come comunista non è che puoi viverti le tue vertenze soggettive e rimanere sempre in 50 nello stesso modo. Il tornello è stato possibile come complessità perché c’era iniziativa organizzata, perché in questi 3-4 anni abbiamo investito energie politiche qui e questo territorio è rimasto in tangibile tensione (Se non c’era la mensa come momento di scontro, e quindi di costruzione di soggettività-contro, probabilmente non c’era il 36). Poi è chiaro, noi siamo 30 e non abbiamo la bacchetta magica, quello che abbiamo visto quest’autunno è stato possibile grazie alla disponibilità, alla forza ed energia di tantissimi giovani. Ma anche qui, sicuramente se 4 anni fa avessimo spostato l’assemblea delle lavoratrici Sodexo dentro il 38 e non avessimo rotto prima l’ordinanza poi, cacciandolo, il blocco di polizia oggi non credo avremmo – passatemi il termine un po’ scabroso- capitalizzato questo diffusa e cospicua energia colletiva-contro. (NdR: il riferimento è alle giornate di scontro in piazza Verdi del maggio 2013).

Bisogna fare ipotesi sulla riproducibilità di quanto accaduto questo autunno a Bologna, intravedendone anche i limiti, lo dico fuor di retorica, per superarli. Ad esempio bisogna tenere sempre presente che il nodo della generalizzazione tanto discusso non è mai un passaggio freddo, automatico. Non è che arrivi, come qualcuno pensava di fare, ingenuamente o opportunisticamente, e butti tutte le questioni, o quelle che ti fanno più comodo, nell’arena. Finisci per parlare di tutto e nulla, per disperdere forze ed energie. In quanto organizzazione noi non dobbiamo collocarci né davanti né dietro le soggettività sociali che si attivano, ma nel mezzo. Per dirla in altre parole, da un lato non possiamo pretendere di riprodurre soltanto i nostri desiderata, dall’altro non possiamo semplicemente andare a ruota della spontaneità (che poi come abbiamo detto in precedenza si è trattato comunque di una spontaneità organizzata, che nasce da anni di lotte e vertenze che hanno costruito una soggettività-contro).Ma dobbiamo collocarci nella pancia di queste soggettività, coglierne gli umori e lì costruire organizzazione per rafforzare e accelerare il processo di lotta e ricomposizione. Andare oltre, provare a generalizzare, non può significare eludere l’evento scatenante. Non possiamo eliminarlo all’improvviso  “perché tanto chi se ne fotte del tornello io voglio fare la rivoluzione”. Poi però quella spinta si esaurisce, la rivoluzione non la fai e se perdi anche su quel tornello si chiudono ulteriori spazi di riproduzione di soggettività-contro, che è poi l’unica cosa che può garantire nuove future precipitazioni.
Insomma, ci sono sempre due piani, che spesso hanno anche due velocità diverse. Se siamo in grado di stare su entrambi e sincronizzarli, o comunque fare in modo che uno tenga a traino l’altro, allora si, la prateria si può infiammare.

IntervistaZsulZ36Z-ZIntegrale.pdf

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Dal 4 giugno 23 persone, attive nei movimenti sociali di Bologna, sono sottoposte a misure cautelari, 13 di loro hanno ricevuto un divieto di dimora, ossia il divieto di poter entrare in città.

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Divise & Potere

Aggressione repressiva alle lotte a Bologna!

Da questa mattina è in corso la notifica di 22 misure cautelari nei confronti di compagne e compagni di Bologna, e altre decine e decine di notifiche di indagine.

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Conflitti Globali

Bologna: provocazione della celere in piazza Scaravilli, ma le tende per Gaza resistono e si moltiplicano

L’”acampada” per la Palestina allestita in Piazza Scaravilli a Bologna, nell’ambito della cosiddetta “intifada degli studenti”, è stata attaccata dalla celere nella serata di venerdì 10 maggio, al termine di un corteo dimostrativo.

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Conflitti Globali

Intifada Studentesca: le tende per Gaza stanno diventando un movimento globale

A quasi sette mesi dallo scoppio della guerra a Gaza, in numerose università del mondo sta montando la protesta degli studenti contro la risposta militare di Israele.

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Crisi Climatica

Bologna: un “mondo a parte” che non si lascerà mettere tanto facilmente da parte

Breve reportage sulla grande assemblea che si è tenuta l’altro ieri al parco Don Bosco: centinaia le persone accorse dopo il rilascio senza misure cautelari del diciannovenne arrestato la notte prima.

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Crisi Climatica

Bologna: giovane aggredito e picchiato dai Carabinieri al Parco Don Bosco.

Nella “democratica Bologna” tre volanti dei carabinieri aggrediscono e picchiano un giovane all’interno del parco Don Bosco.

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Conflitti Globali

Bologna: dopo le cariche all’inaugurazione dell’anno accademico, occupato il rettorato

Occupato il rettorato dell’Università di Bologna. L’iniziativa si inserisce all’interno della “Israeli Genocide Week”, settimana di solidarietà e mobilitazione nelle Università contro il genocidio in corso a Gaza, promossa dai Giovani Palestinesi d’Italia.

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Conflitti Globali

Bologna: “UNIBO complice del genocidio. Stop accordi con Israele”. La polizia carica il corteo per la Palestina

Centinaia di studentesse e studenti in corteo per le strade di Bologna mentre si svolge l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università felsinea alla presenza della ministra Bernini.