Transizioni di classe nella crisi capitalistica – Introduzione e report finale del tavolo di Tracce su tra salario, sciopero, movimenti della forza lavoro
Riportiamo l’introduzione al tavolo “Transizioni di classe nella crisi capitalistica tra salario, sciopero, movimenti della forza lavoro” tenutosi il primo giorno del meeting cosentino Tracce, a cui segue il report della discussione riportato nella plenaria conclusiva della due giorni.
Partiamo da un’ipotesi: oggi il capitale (marxianamente: non una cosa, ma un rapporto sociale tra persone mediato da cose) ci getta in una fase di transizione, in cui l’aspetto distruttivo si sta esprimendo alla massima potenza laddove ormai da oltre un decennio non riesce a transitare verso un nuovo ciclo di accumulazione. La progressiva frattura e lo smembramento dell’ordine neoliberale non stanno insomma producendo un nuovo rilancio sistemico, per una serie di elementi economici, geopolitici e sociali.
In questo quadro si è affacciato e venuto definendosi un gioco di assemblaggio tra forme estremamente violente di nuova accumulazione originaria e si sovrappongono figure di sussunzione formale e sussunzione reale. Convivono e co-evolvono forme neo-schiavistiche e sfruttamento hi-tech, lavoro a domicilio digitalizzato e mansioni apparentemente arcaiche, in cui l’umano diviene organo incosciente di un sistema macchinico globale. In questo processo il progresso come visione lineare ed evolutiva della storia è definitivamente scomparso dall’orizzonte. Questo in alcuni ambiti da luogo a rimpianti idilliaci di un passato molto spesso mai esistito, ad in altri conduce all’inazione di fronte alla “catastrofe imminente”. Tuttavia la fine del progresso apre un nuovo spazio alla lotta di classe, che non procede mai per un tempo lineare ma sempre per balzi ed esplosioni repentine. Il problema che abbiamo oggi è dunque quello di cogliere e anticipare le tendenze sotterranee per poter accelerare le esplosioni a venire partendo da rinnovate forme di intervento e organizzazione.
Il punto di vista, e la scommessa politica guida di questo discorso, è l’emersione di un nuovo terreno della lotta di classe. Uno scenario in cui stiamo transitando, che presenta sfide inedite, potenzialmente più favorevoli che in passato, che stanno iniziando a mostrare nuove possibilità di sabotaggio, di blocco e di costruzione di contro potere.
Nel nuovo campo di battaglia che viene delineandosi quello di cui abbiamo bisogno è di una lettura politica dei fenomeni e delle trasformazioni che stanno venendo, cercando di guardare il rovescio di processi attuali con gli occhi della sovversione. Ciò significa non partire dalla debolezza o dalle supposte crisi della militanza, dall’immagine di estrema frammentazione sociologica, non partire dalle dimensioni del comando o dalla rappresentazione di un capitale totalizzante, ma partire invece dalle potenzialità di rottura e di costruzione di autonomia, di costruzione di forza di parte.
La cornice in cui sviluppare il ragionamento è quella di una nuova operaietà metropolitana, dove con operaietà non si intende qui chiaramente l’operaio di fabbrica, ma si intende indicare che l’industrializzazione è ormai elemento trasversale a tutte le forme di produzione e riproduzione, che l’agire umano è sempre più macchinizzato; e con metropolitano si intende l’ambiente capitalistico senza più un fuori che intreccia e sorpassa quanto si era abituati a distinguere con categorie e dicotomie rigide come città e campagna, centro e periferia, che oggi si sono moltiplicate, mescolate, ibridate e che assumono ormai caratteristiche del tutto nuove.
Questa operaietà metropolitana emergente ci impone di sintonizzarci sulle sue dinamiche, i suoi movimenti, le sue ritmiche. Sperimentare inchiesta e conricerca per sincronizzarci con le nuove potenzialità di conflitto. Questa operaietà, possibile soggetto imprevisto, che contiene la possibilità di essere eccezione soggettiva, inizia a stagliarsi e profilarsi in un panorama in cui dentro di essa si agitano e si nascondono una crescente disoccupazione di massa e un prolungato attacco alle forme di riproduzione sociale, processi di estrazione di plusvalore, in cui è la razzializzazione della forza-lavoro a determinarne la base, nonché una costitutiva relazione della produzione con il territorio e non ultimo la serie di trasformazioni tecnologiche che vengono ultimamente inquadrate come “rivoluzione” o “industria 4.0” (una delle più grandi sfide ideologiche lanciate negli ultimi anni da parte capitalista).
Una nuova lettura politica, dicevamo, di ciò che accade nel “lavoro”, o se preferiamo nella tensione tra composizione tecnica e composizione politica, è quanto vorremmo provare a iniziare a definire in questa discussione, contemplando sia i conflitti “espliciti” sia la miriade di conflitti “invisibili” che quotidianamente si sottraggono, inceppano e rallentano il rapporto tra capitale e lavoro. La necessità dunque di iniziare a guardare “il rovescio” di una serie di processi di trasformazione: dove si sarebbe portati a vedere debolezza, è possibile trovare la forza, come abbiamo visto ad esempio di recente nella lotta a Italpizza nel modenese dove una condizione di sfruttamento e subalternità si rovescia in potenza nella lotta delle donne operaie migranti; oppure nelle varie lotte che in tutta Europa hanno attraversato e stanno attraversando il mondo dei cosiddetti rider, dove il comando algoritmico del lavoro e la digitalizzazione delle relazioni da strumenti di estrema disciplina si sono rilevati potenziali terreni di conflitto fornendo in ogni caso un ottimo terreno di analisi e intervento per le trasformazioni capitalistiche negli ambienti metropolitani; o ancora la questione della razza, che nel mondo della logistica era il primo strumento di divisione, ricatto e subordinazione, e che è invece divenuta veicolo di una nuova organizzazione operaia; o ancora: di fronte a un violento tentativo globale di ri-costruzione dell’ordine sociale fondato sulla Norma della Famiglia, ecco il movimento Non una di meno.
Per un’analisi quanto più concreta ed esaustiva non possiamo ignorare, però, anche le conseguenze più “tradizionali” dello sviluppo capitalistico, o meglio una nuova riproposizione di antiche contraddizioni che il capitalismo predatorio ha contribuito a riproporre negli ultimi anni. La centralità assunta da questo nuovo modello, in un certo senso, contiene e oltrepassa la stessa contraddizione Lavoro/Capitale, creandone di più estese e complesse, e di non facile interpretazione, come quella tra Capitale e territori. Pensiamo ovviamente al fenomeno dell’emigrazione che nelle regioni meridionali del paese (ma non solo!) ha assunto proporzioni superiori a quelle di 50-60 anni fa. Alla sfida che il lavoro sommerso e/o in nero rappresenta per chiunque voglia declinare in termini conflittuali e organizzativi un’enorme ed eterogenea massa di lavoratori privi di qualunque tutela o rappresentanza. Un contesto ideale, in molti casi, per il rafforzamento di quell’imprenditorialità “criminale” che rappresenta perfettamente il volto più truce del nuovo capitalismo estrattivo e un’endemica minaccia alla conflittualità sociale e al suo potenziale rivoluzionario.
Per una nuova lettura politica si tratta allora di elaborare una cartografia delle trasformazioni in atto, ma di leggerle con la lente della soggettività, ossia nella prospettiva del soggetto sfruttato che si fa soggetto contro lo sfruttamento.
Questo nuovo terreno in corso di definizione sta, infatti, dopo decenni di apparente silenzio, facendo emergere nuovi antagonismi e nuove fratture nel conflitto lavoro/capitale. Insomma, la vecchia talpa là sotto continua a scavare. Ciò evidentemente non significa che tutta una serie di categorie e di strumenti non necessitino di un radicale ripensamento, se non anche di forti scarti. Salario, sciopero, forma-merce, forza-lavoro, sindacato, automazione, razzializzazione del mercato del lavoro, sono tutti riquadri che bisogna riconsiderare per coglierne sia ciò che rimane del passato sia ciò che di radicalmente nuovo si muove al loro interno, quali archivi di lotta è possibile mobilitare e di quali novità radicali abbiamo bisogno.
Ci avviamo verso la chiusura dell’intervento, riprendendo le domande che accompagnano la traccia di questa sessione di dibattito, per poi iniziare collettivamente ad approssimare se non risposte, quantomeno ipotesi di intervento e connessione. Proviamo a raggrupparle in tre macro-domande, la prima sulla geografia dell’economia politica contemporanea e i suoi possibili punti deboli; la seconda si confronta sulla questione dello sciopero; la terza sulle possibili forme di organizzazione.
1. Dove si dissolve la concentrazione manifatturiera si fa spazio al divenire essenziale e strategico del settore dei trasporti e della logistica. Dove si flessibilizza emerge la questione dei servizi per la riproduzione sociale. Dove si estendono globalmente le catene globali del valore anche i punti più “bassi” del sistema produttivo diventano potenziali blocchi della catena. Dove si investe in innovazione tecnologica si aprono nuovi fronti di conflitto. Come è possibile rintracciare e interpretare politicamente questa dialettica nei conflitti oggi? Dove troviamo punti di attacco? Come si possono creare connessioni all’interno della galassia eterogenea delle figure del lavoro contemporaneo?
2. Lo sciopero sembrava relegato a vecchio arnese, divenuto uno strumento analogo a quello del voto, una blanda e ordinata forma di partecipazione episodica per supportare le dirigenze sindacali nel concertare piccole variazioni. Negli ultimi anni invece stiamo assistendo a uno straordinario riproporsi dello sciopero, con un suo aumento globale sia in forme tradizionali che come significante di nuove mobilitazioni. Il riferimento è ad esempio alle lotte nella logistica o nei call-centers, ma anche allo sciopero transfemminista o allo sciopero ambientalista dei Fridays for Future. Il tutto con tratti evidentemente anche problematici, ma che comunque conducono a riprendere in mano con forza il tema dello sciopero quale strumento di organizzazione e costruzione di forza, uno sciopero che fa prendere posizione anche a tanti nuovi soggetti, come ad esempio sta accadendo in Francia dove il movimento dei gilet gialli ha praticato una nuova forma di sciopero in cui una parte di società si è fatta sindacato di sé stessa e ha imposto il proprio punto di vista con la forza bloccando gli snodi logistici del paese;
3. Nel ritorno in veste nuova di vecchi elementi e nel proporsi di vecchi elementi in forma nuova, si apre un enorme campo di sperimentazione per nuove forme di organizzare. Il sindacato è un buon esempio da cui partire, laddove l’uso operaio di esso continua a rivelarsi una tattica spesso fruttuosa, ma che al contempo ripropone i limiti storici della forma-sindacato. Il punto infatti non è il lavoro in sè, ma in termini più generali come possiamo tracciare scenari per combinare e articolare pratica del blocco, sciopero della riproduzione, processi di autorganizzazione, movimenti urbani, all’interno della costruzione di nuove forme di potere di classe che necessariamente dovranno trovare e costruire nuovi istituti autonomi e nuove forme.
Si tratta di una sessione evidentemente complessa, nel senso che tiene assieme una costellazione di dinamiche, e che ha una serie di rimandi anche ad altre discussioni in altri tavoli. La posta in palio non è dunque solo mappare dei conflitti e discuterne qui, quanto provare a illuminare alcune tensioni sotterranee, trovare radici comuni nelle lotte, che sono comuni per le forme dello sfruttamento sotto il dominio nel salario intendendolo qui prima di tutto come elemento politico di comando sulla forza lavoro. La comunanza nello sfruttamento apre alle possibilità di un nuovo possibile divenire-classe dei nostri tempi, un diventare parte sociale, parte antagonistica…
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Report del tavolo in plenaria
1. Il tavolo ha presentato una discussione polifonica con decine di interventi che hanno restituito l’immagine di una geografia delle lotte estremamente articolata. Ci si è mossi tra luoghi “classici” del lavoro operaio e agricolo alle mappe digitali sulle quali vengono guidati i rider delle consegne a domicilio, tra aree peri-urbane e agricole a centri metropolitani, tra medie e piccole città a snodi logistici e molto altro ancora. Questa cartografia di lotte e inchieste ha dunque mostrato il carattere prismatico del lavoro oggi, la proliferazione di figure e ruoli. Laddove questa molteplicità rende, anche politicamente, impossibile una sintesi o la secca individuazione di baricentri, ciò che ha legato tutti gli interventi è stata una sostanziale comunanza di approccio, metodo, punto di vista rispetto al come orientare la militanza autonoma rispetto al mondo del lavoro oggi. La distanza siderale rispetto ad approcci che guardano all’indietro così come a una postura incline alla mera resistenzialità, il posizionamento militante nelle forme di inchiesta in atto e nell’internità alla tante lotte attualmente presenti è piuttosto quella di una ricerca di punti di attacco. Di snodi in grado di fare male alle controparti e di accumulare forza e nuove possibilità per il conflitto. Il tutto all’interno di un approccio che cura la quotidianità dell’intervento così come è pronto a gettarsi immediatamente nella mischia laddove conflitti, anche se con codici e caratteri lontani dalle culture politiche note, si manifestano, come ad esempio per il recente fenomeno dei pastori sardi.
2. Il panorama delle forme di sfruttamento riportato nella discussione consente di tematizzare quella che potrebbe essere definita come cifra dell’attuale modo di produzione capitalistico e del suo presentarsi come nuova rivoluzione industriale 4.0 in atto. Si sta parlando della co-esistenza, co-implicazione e inscindibile intreccio tra forme hi-tech e forme che a prima vista potrebbero apparire come arcaiche, come residui del passato. Ciò che emerge è invece una piena contemporaneità di forme come lo schiavismo, il caporalato, il cottimo, che co-evolvono assieme al comando algoritmico sul lavoro, alla sua digitalizzazione, e a forme sempre più raffinate di investimento in tecnologia e automazione.
3. Coerentemente con quanto appena delineato, è possibile indicare alcuni degli ambiti di intervento o di ipotesi di inchiesta che più si sono rincorsi nella discussione. Questi hanno spaziato dai rider delle piattaforme digitali al bracciantato agricolo, dal lavoro nei call center all’organizzazione della disoccupazione, dalla logistica agli operatori sociali e al lavoro nero. Questi sette nodi sono dunque quelli emersi chiaramente come luoghi del lavoro dove sono in corso forme interessanti di conflitto o dove è utile orientare nuovi processi di inchiesta e con-ricerca.
4. Uno dei fili conduttori del dibattito è stata la possibilità di una pratica del conflitto rispetto allo sciopero. Laddove esso, infatti, è ormai da qualche decennio completamente svuotato come istituto nella sua forma “classica”, e ormai da tempo sancita la lontananza genetica della rappresentanza sindacale concertativa da figure come ad esempio quelle nominate nel punto precedente, sono però emerse negli ultimi anni nuove pratiche di sciopero, ed è in corso una sua complessiva ri-significazione. La pratica del blocco così come un nuovo valore d’uso da parte operaia di alcuni terreni agiti dal sindacalismo conflittuale di base, il sabotaggio del processo di estrazione di valore o lo “sciopero dei disoccupati” si sono assommate con la potente marea femminista dello sciopero, che lo ha dislocato anche sul terreno del lavoro riproduttivo. A ciò va aggiunta la dinamica dello sciopero ambientalista promossa, pur all’interno di evidenti ambiguità, dal Fridays for Future, che si può leggere politicamente come opposizione all’appropriazione da parte capitalista di “lavoro di cui non si paga il costo”, nella sua dinamica di estrazione di risorse ambientali.
5. All’interno di questo quadro, la discussione ha tematizzato la questione del “doppio sfruttamento”, di genere e di razza. Rispetto a quest’ultimo tema si è posto il nodo di come le lotte che si stanno muovendo proprio a partire dal protagonismo migrante possano definire un nuovo antirazzismo politico, in grado di contrapporsi sia all’imperante razzismo di stato che alla variante umanitarista, che condividono l’oggettivazione della figura del migrante. In conclusione, all’interno di un passaggio in cui produzione, riproduzione, circolazione e consumo vengono definendosi come unico sistema integrato e intimamente intrecciato con l’intero territorio, la ricerca di nuovi punti di impatto tra lavoro e capitale si gioca su una condizione complessiva di nuove possibilità da praticare, individuare e costruire.
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