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Ventimiglia, il cibo come strumento di lotta e solidarietà. Intervista alla Rete Eat the Rich

 

Iniziamo chiedendovi un aggiornamento sulla situazione a Ventimiglia in questo momento, dai dati numerici al livello dei rapporti tra migranti, istituzioni, solidali..

 

Rispetto al periodo della prima settimana in cui c’era un numero stabile di migranti – che si aggirava tra le 80 e le massimo 180 persone, adesso il presidio intercetta un flusso continuo di migranti, che continuamente si spostano dal Centro della Croce rossa di Ventimiglia e raggiungono il presidio. Lo fanno con tutta una serie di motivazioni, che partono dalle condizioni che i migranti stessi si trovano a dover affrontare in questo Centro vicino alla stazione di Ventimiglia in cui la loro libertà di muoversi, di mangiare, di comunicare è sempre in un regime di semi-libertà, abbastanza elastico ma limitato in quanto a orari – e diretto poi effettivamente – da una organizzazione terza.

 

Questo flusso comunque si sposta verso il presidio che è uno spazio che viene vissuto insieme da presidianti e migranti. E’ uno spazio auto-organizzato che ha tentato nelle ultime settimane di rilanciare la propria esistenza verso degli obiettivi che vanno verso il medio periodo, tentando anche di riorganizzarsi in modo che non sia solo un posto dove attendere o di passare la frontiera o di aspettare eventuali evoluzioni della situazione, a livello istituzionale e internazionale, ma sia un luogo dove si pratichino tutta una serie di attività e di resistenze attive che sono organizzate dai migranti e dai presidianti.

 

Si è quindi cominciato a dare il la ad una forma organizzativa che andasse in questo senso: il luogo fisico è molto cambiato in senso organizzativo rispetto ai primi periodi, sono stati costruiti dei bagni, sono state costruite delle docce, sono stati organizzati dei presidi di pulizia, abbiamo incominciato a organizzare magazzini, il più possibile inventariati di tutto il materiale che giungeva al presidio, tra donazioni tramite gli appelli che sono stati fatti per i beni di prima necessità.

 

Questo è un po’ il quadro: il flusso dei migranti si aggira all’oggi intorno alla cinquantina di persone ma resta molto variabile perché, essendo un flusso, dipende molto dalle contingenze del caso: il numero dei migranti è diminuito molto anche perché c’è stata nelle settimane scorse una militarizzazione del percorso, anzi dei vari percorsi, delle varie strade, dei vari sentieri che portano dal Centro della Croce Rossa al presidio. Militarizzazione che impediva sostanzialmente ai migranti di raggiungere il presidio dal centro, possibilità invece che appena era stata appena organizzata vedeva tanti migranti raggiungere continuamente gli scogli.

 

Sempre stando sul livello dell’attualità. C’è stata tutta una polemica sul fatto delle voci che parlavano di uno sgombero imminente del presidio negli scorsi giorni. In un comunicato invece del Presidio Permanente No Borders si diceva invece che è stato soltanto un modo di minacciare, e che questo sgombero non sarebbe mai avvenuto perché la strategia istituzionale è quella di prendere tempo, di sfibrare e di stancare..

 

Di dati concreti su un’evoluzione che porti effettivamente all’imminenza di uno sgombero non ce ne sono; non ci sono stati dei dati significativi da cui si possa dedurre che il pericolo di uno sgombero sia aumentato negli ultimi giorni. Esiste una ordinanza di sgombero che è stata firmata il giorno dopo l’allestimento del presidio, dopodiché ci sono state tutta una serie di pratiche intimidatorie, ufficiose e informali, da parte degli agenti della Digos. Effettivamente però non c’è mai stato nessun altro dato concreto da cui si possa determinare appunto un aumento di questo pericolo.

 

Si sono rilevate tutta una serie di pratiche intimidatorie: le forze dell’ordine sanno che, minacciando eventuali sgomberi, il numero dei migranti al presidio diminuisce, anche se questo poi non è per niente stato automatico. Logicamente la pratica intimidatoria era volta ad ottenere questo risultato della diminuzione dei migranti al presidio, però i migranti – in momenti assembleari e altri momenti informali – hanno sempre dimostrato una determinazione abbastanza risoluta nell’affrontare un eventuale sgombero e una forte consapevolezza nell’affrontare i rischi che una pratica del genere comportava, senza diminuire per niente la volontà di resistere.

 

C’è stato un momento assembleare molto bello in cui, dopo tutta una serie di consultazioni in cui avvocati, presidianti e migranti si sono riuniti insieme. Si è discusso dei rischi e di questo eventuale sgombero tanto paventato, e la risposta dei migranti è arrivata forte e chiara: “WE STAY!” Addirittura i migranti si sono auto-organizzati per far sì che il numero di loro a lasciare il presidio fosse poi controbilanciato dal numero di altri che arrivavano, per non fare abbassare appunto la presenza al presidio che sanno essere uno strumento molto utile. In questo senso ai migranti nuovi che arrivavano, si chiedeva di stare qualche giorno prima di ripartire, dando tutta una serie di informazioni e cercando di mantenere sempre bilanciato il numero dei migranti che uscivano rispetto a quelli che entravano.

 

Quello che ci è parso di capire è che ci sono due livelli di gestione: il primo nazionale (istituzionale) che poi si traduce sul secondo (la situazione locale di Ventimiglia) in modo sia formale che informale. Quello formale, e di facciata, lo vediamo con le ordinanze, con l’ordinanza di sgombero, con l’ordinanza sulla questione dell’uso della cucina che abbiamo messo in piedi noi e la somministrazione di pasti ai migranti; sono stati ad esempio abbastanza formali con puro scopo mediatico per alcune questioni, come quando all’inizio il presidio aveva tutta una parte, oltre che sugli scogli, anche sul marciapiede del lungomare e quindi anche in strada c’erano varie tende e alcuni migranti che ci dormivano. Un giorno, più di un paio di settimane fa, sono arrivati i giornalisti, le telecamere eccetera e la polizia ha fatto la sua parte facendo spostare tutto sugli scogli.

 

La questione del rischio sgombero in realtà ha una problematica bella grossa, e che ci dà la cifra della volontà dei migranti: se si procede ad uno sgombero in quella situazione lì, i termini della sicurezza di quello che potrebbe accadere nel farlo, con una carica sugli scogli, sono incalcolabili, ed una cosa del genere le forze dell’ordine difficilmente se la prenderebbero in carico.

 

Quando invece si parlava del piano informale della cosa, che secondo me dà molto il senso di come si vuole gestire o non gestire, del non voler trovare una soluzione a questo problema, lo vediamo da una serie di cose. Uno: nei primissimi giorni, c’era la Digos che andava dai migranti e cercava di spiegargli quali fossero i sentieri per andare in Francia! Questo restituisce abbastanza della volontà di (non) gestione della cosa. Due: il racconto di alcuni migranti al campo della Croce Rossa in stazione, a cui hanno fatto questo falsissimo riconoscimento in cui hanno preso l’impronta di un solo dito; ciò per fargli credere che quindi avevano fatto il riconoscimento e dovevano rimanere per forza in Italia.

 

Quindi c’erano i migranti che chiedevano: “ io ho lasciato l’impronta di un dito; questo vuol dire che non posso fare la richiesta di asilo in Francia, la devo fare per forza qui..”; c’è una gestione, anzi una volontà di non gestione della cosa, e la strategia abbastanza evidente è quella di portare allo sfinimento quel presidio, dalle condizioni iniziali che erano scandalose – non c’erano docce, ci sono state solamente quelle autocostruite, e c’erano solo tre bagni chimici quando all’inizio i numeri erano altissimi: erano più di 150 le persone sugli scogli, con appunto tre bagni chimici tra l’altro vicinissimi alle forze dell’ordine, che poiché sono le stesse che il giorno prima ti hanno manganellato, non hai tutta questa voglia di andare in bagno là… C’è stato un compagno che ha costruito un pannello solare con questo marchingegno per ricaricare i cellulari, e i pasti caldi: se non ci fossimo stati noi e, dall’inizio, queste due associazioni islamiche che venivano da Nizza a fornire pasti caldi, c’era la Croce Rossa che aveva solo cibo in scatola, latte e biscotti . La Croce Rossa poi aveva una gestione del cibo totalmente assurda, con scorte lasciate a marcire sotto il sole per dirne solo una..

 

Come all’inizio avete immaginato il vostro intervento lì, su quale progetto?

 

La cosa all’inizio è partita in maniera molto istintiva, abbiamo detto “proviamo ad andare lì, portiamo la cucina e vediamo quel che succede”. Tra l’altro, prima che noi arrivassimo, che partisse cioè formalmente la staffetta, c’erano stati alcuni compagni a noi vicini, sono andati lì a vedere la situazione. Son tornati dicendoci: “forse non ha tutto questo senso portare lì la cucina perché, appunto, ci sono le associazioni islamiche che portano i pasti, c’è la Croce rossa, probabilmente è uno sforzo inutile”. Si è detto alla fine però: “no, se andiamo lì ci andiamo comunque col nostro portato, col nostro progetto, noi facciamo cucina, facciamo anche cucina di strada, proviamo a vedere se questo strumento è uno strumento utile a scatenare dei processi politici in quella situazione.”

 

Quindi siam partiti con questa staffetta, abbiamo montato una cucina da campo; l’inizio è stato molto lento, c’era anche la giusta e normalissima diffidenza iniziale rispetto a “esterni” che arrivano e non sai chi sono, e così via. Però pian piano la cucina ha acquistato una sua centralità, soprattutto a partire da una festa organizzata tre settimane fa, probabilmente la prima grande festa organizzata in quel presidio, in cui una parte di questa giornata sarebbe stata una cena in cui bisognava coinvolgere i ragazzi nella costruzione di questa. Da quella sera in poi con loro è stato molto più semplice, attraverso appunto questo strumento banalissimo di cucinare assieme. E poi si mangiava assieme, e poi quello è diventato luogo di discussione, formale e informale dove capire la necessità di dover fare assemblee; si è riusciti da quei momenti a discutere di quello che volevamo fare tutti assieme, mentre prima questi processi erano molto più lenti, più farraginosi: si faceva assemblea ogni due-tre giorni. Questa cosa è stata un po’ scardinata, di lì in avanti la cucina anche fisicamente si è spostata in una posizione centrale.

 

Per cucina, di che cosa si parla?

 

Di fornelli da campo e pentole. Tra l’altro abbiamo coinvolto dei produttori locali di là, che ci hanno dato un bel po’ di prodotti, più una serie di produttori di Campi Aperti, alcuni sono anche venuti; i produttori locali di Dolceacqua, paese a mezzora di macchina da Ventimiglia, che sono stati i primissimi ad intervenire al presidio. Insomma, c’è stato anche questo dato di coinvolgere – dal punto di vista del reperimento dei prodotti e quindi della solidarietà attiva – la comunità locale, la rete nazionale di Genuino Clandestino e locale come qui a Bologna quella di Campi Aperti che ha messo a disposizione mezzi e prodotti.

 

Quella festa di cui si diceva è stato un passaggio: si è trovato un modo per fare qualcosa di molto semplice, di molto banale, però in cui loro erano finalmente parte attiva. La grande differenza tra il presidio sugli scogli e la stazione è questa, cioè loro sono presenza attiva, partecipe, nonostante la difficoltà di parlare in tre/quattro lingue diverse; ci si capisce, si riesce a collaborare e anzi, da lì sono diventati presenza attiva, cioè cucinano, aiutano a cucinare.. riuscire a stabilire banalmente quelle relazioni che danno senso alla propria vita quotidiana, in cui diventi padrone di te stesso e dei tuoi ritmi, questo è stato un cambiamento decisivo.

 

C’è via via stata una consapevolezza più diffusa da parte dei migranti, che hanno capito l’importanza di quel presidio. Molti di loro hanno anche visto cosa vuol dire essere passivi aspettando in stazione e quindi riconoscono quanto sia evidente la centralità del presidio, e non solo la cucina. Vengono date informazioni, vengono spiegati banalmente quali sono i tuoi diritti, che è un campo molto scivoloso ma se nessuno te li dice non sai minimamente come muoverti. L’impressione è che ci sia un desiderio di organizzazione maggiore, sia da parte loro che poi da parte dei compagni, solidali che sono lì dentro ad aiutare.

 

Per questo, forse una cosa da aggiungere sono gli appuntamenti che sono stati lanciati o che si vogliono lanciare per le prossime due settimane, che sono uno nel week-end 18-19 luglio sulla questione legale, in modo tale che ci sia un momento di diffusione di informazioni sia un momento di autoformazione delle persone che come noi vanno lì e magari non hanno perfetta conoscenza nel campo del diritto; c’è poi una tre giorni (24-25-26), con una rete di attivisti no-border, associazioni, operatori nel campo della prima accoglienza, cioè un modo per partire da Ventimiglia per poi cercare di diffondere questi discorsi e di connetterli alle lotte nei singoli territori.

 

Partendo dal tema del cibo avete quindi agito una contraddizione, quella che riguarda la vita dei migranti e l’organizzazione del presidio. Diciamo che voi avete utilizzato il cibo come una sorta di linguaggio, con il quale interfacciarvi ai migranti per scatenare altri processi. Eppure la questione è stata agita anche al contrario, basti pensare all’ordinanza del sindaco contro il cibo non “a norma”, o del modo che descrivevate prima con cui la Croce Rossa si è relazionata al contesto che stiamo descrivendo..insomma sembra che proprio a partire dal tema cibo si sia giocata una battaglia, che vorremmo capire come avete letto.

 

Il dato da tenere fermo, quello rilevante, è che si è riusciti ad intervenire su uno spazio gestito da migranti e presidianti (e dalle tante altre persone che lo attraversano) con una pratica di auto-organizzazione che ha assunto un forte significato politico; tutta una serie di dinamiche che partono dal basso sono riuscite ad avere un effetto contrastivo, conflittuale con la situazione data, con uno spazio che era prima determinato da altre associazioni le quali decidevano in tutto e per tutto la vita dei migranti: segmentandola, perimetrandola con gestione di orari e attività su cui i migranti stessi non avevano alcun potere di controllo, che erano costretti ad accettare passivamente.

 

La cucina è uno degli strumenti con cui si è riusciti ad avviare processi di autodeterminazione, che hanno permesso che in quello spazio si raggiungesse un’organizzazione dove erano le vite di chi lo attraversa forzatamente a deciderne lo sviluppo. Questo ci sembra un obiettivo primario che è stato raggiunto. Ad ogni modo, oltre alla cucina poi ci sono tutta una serie di strumenti che all’interno della complessità cercano di auto-organizzare la vita del presidio dal basso, noi e il nostro percorso siamo stati solamente uno di questi.

 

Rispetto alla gestione della situazione sicuramente c’è stato da parte nostra e di altri un forte conflitto rispetto a tutti gli attori istituzionali o simili che sono coinvolti, sulle motivazioni di questo basti ragionare sul fatto che la situazione decisamente paradossale a Ventimiglia: il centro della Croce Rossa di Ventimiglia ha 170 posti, mentre tra la stazione e il centro si aggirano tra i 200 e i 400 migranti. La stazione è lontana 10km dal presidio al confine. Nonostante questo sovraffollamento la volontà è stata quella di sfinire e logorare il presidio, di militarizzare le vie d’accesso ad esso: è vergognoso ad esempio che di fatto i migranti possono fare quello che vogliono, tranne che raggiungere il presidio agli scogli! E’ l’unico vero limite!

 

In definitiva il discorso è comunque che si è riusciti a far fare una sorta di salto di qualità alle potenzialità di quel presidio: in condizioni davvero difficili, tra il caldo e l’impatto del Ramadan, se non si riusciva a rompere un certo tipo di passività, c’era il rischio che il presidio potesse facilmente andare verso l’esaurimento. Da un processo di vittimizzazione quindi se ne è creato uno di autogestione, di crescita collettiva, che ha avuto impatto reale anche sulla vita dei migranti stessi, anche nel modo in cui guardano la loro esperienza che li oppone alla crudezza della Fortezza Europa.

 

Ribadiamo un po’ ciò che si diceva all’inizio: come ETR la nostra scommessa fondamentale era capire se a partire da una questione molto specifica, perimetrata e particolare come quella del cibo, (inteso come campo dell’esistente non neutro, che va agito, organizzato) si potessero scatenare dei processi politici. A Bologna il contesto è diverso, meno emergenziale, mentre a Ventimiglia, trovandoci di fronte a questa “bolla” creata artificialmente da Francia e Italia sul confine, con la volontà comune di sfinire i migranti in qualunque maniera, vietandogli di stare all’ombra nonostante il caldo e cosi via abbiamo davvero agito un ruolo nello scatenare processi di autodeterminazione.

 

La cucina all’inizio, era all’ombra, ed era diventata così il centro del presidio, come una delle sue attività. E’ arrivata un giorno la Croce Rossa, ponendosi da mediatrice tra noi e le forze dell’ordine, dicendoci che se i migranti e la cucina non si spostavano dall’ombra si sarebbe proceduti allo sgombero. Abbiamo dovuto all’inizio accettare, ma visto che poi come si diceva prima la minaccia era inattuabile, dopo che la Croce Rossa francese ha abbandonato la sua postazione (ora arriva solo a orario pasti la Croce Rossa italiana, e tra l’altro con scarsi risultati di partecipazione) abbiamo deciso di ritornare a stare all’ombra e tuttora il punto-cucina è vivo della partecipazione dei migranti.

 

Diciamo in fin dei conti che la cucina è stata una bella occasione per poi riuscire ad aprire su altri campi: tra l’altro anche tanti altri da Bologna che non fanno parte della rete o di altri collettivi hanno deciso di dare una mano e partecipare alla staffetta. Il discorso sulla coscienza, sulla crescita politica è particolare: molti sono consapevoli, anche tra i migranti, di quello che si sta costruendo, altri meno. Tutto dipende anche banalmente dal discorso della lingua: è unanime però che l’alleanza che si è costruita ha portato al fatto di aver reso chiaro che loro sono più forti se ci siamo anche noi. Basti pensare che ad un mese dall’inizio della resistenza sugli scogli i migranti hanno auto-organizzato una manifestazione che portasse striscioni alla frontiera, di fatto senza il nostro contributo tecnico: c’è stato un passaggio di coscienza e conoscenza collettivo. Non sappiamo se c’è una totale presa di coscienza da parte del soggetto migrante del presidio: senza dubbio però si è creato evidentemente un humus nel quale tanti scenari potrebbero aprirsi.

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