Askatasuna: “Così è, ci pare”
Abbiamo aspettato qualche giorno prima di prendere parola davanti alla delibera sull’Askatasuna emessa dal Comune di Torino. Fatecelo dire, le reazioni scomposte a cui abbiamo assistito ci hanno fatto ridere sotto e sopra i baffi.
Ci sembra di aver capito che a raccogliere firme contro Askatasuna e per la legalità ci andrà Augusta Montaruli, quella condannata per peculato per essersi comprata borsette Swarovski e cene di lusso coi soldi della Regione. Auguri! Qualcuno un po’ più sveglio di lei nel partito le ha fatto capire che, ad andare a chiedere in giro di Askatasuna, la destra cittadina potrebbe finire a gamba all’aria. Ma capiamo che per chi vive di politica da quando aveva 16 anni, la realtà fuori dai palazzi può apparire un po’ sbiadita. Ci sembra poi di aver inteso che c’è chi sogna un commissariato dentro il centro sociale. Vedere il livello di rodimento di fegato raggiunto a causa nostra da quegli stessi sindacati di polizia che applaudivano gli assassini di Federico Aldrovandi è un’ennesima medaglia. Abbiamo poi visto quattro pellegrini con striscioni contro l’Aska davanti a palazzo di città in una manifestazione oceanica che non avrebbe bloccato manco un monopattino. Abbiamo infine visto una procura nel pallone provare a intervenire in extremis con le ennesime misure cautelari sincronizzate con i desiderata della destra cittadina. Pulci sulla schiena di una realtà che anima i loro incubi da quasi 40 anni. Visto che il senso del ridicolo manca a questi giullari di corte, tocca a noi essere seri e provare a spiegare cosa siamo e cosa rappresenta per noi questa “uscita dall’alto”.
Non pretendiamo che faccia consenso, capiamo che a molti non vada giù, comprendiamo che ciò risulti incomprensibile in procura ma partiamo da un dato di fatto: tantissimi giovani si sono avvicinati e continuano ad avvicinarsi alla realtà del centro sociale Askatasuna. Non per oscure manipolazioni di un gruppo di viziosi violenti, come vorrebbero far credere i deliri questurini, ma perché l’Askatasuna prova a rispondere a un bisogno che va al di là dell’immobile di corso Regina 47. Il bisogno di un sogno comune, la voglia di costruire una potenza collettiva lontana dall’ipocrisia della politica istituzionale ma capace di pesare sulla città. È da questo bisogno che è nata una realtà che, come abbiamo visto in questi giorni, è cresciuta fino a diventare ossessione delle destre e cattiva coscienza di una sinistra che troppo spesso ha abdicato il ruolo di rappresentare la sua parte, quella degli oppressi. In un mondo in cui regna rassegnazione e individualismo siamo gente col pallino di fare politica. In un mondo in cui fare politica significa farsi pagare abbiamo invece capito che per fare politica bisogna pagare. Energie, tempo e anche, talvolta, libertà. Perché la storia dei popoli che lottano ci restituisce il fatto che legalità non sempre coincide con giustizia sociale e che serve lottare per fare prevalere i diritti, anche quelli fondamentali, sugli interessi di parte.
Da quando abbiamo commesso l’imperdonabile peccato di dare gambe e continuità alle proteste in Val di Susa, lo stato ha deciso di far pagare a decine di militanti un prezzo assai alto. In una decina d’anni gli indagati sono stati oltre 200, forse il numero più alto per un collettivo politico dagli anni ’70. Questo a fronte di un livello di conflitto tutto sommato estremamente contenuto sia rispetto alla storia del nostro paese sia rispetto a quanto vediamo altrove in Europa. Ma d’altronde c’è poco da lamentarsi: se c’è risacca è sempre più difficile nuotare liberi. Tanti, a volte appena adolescenti, hanno scontato carcere preventivo, tantissimi lunghi arresti domiciliari. I processi si sono risolti per la maggior parte in nulla di fatto, condanne “bagatellari” o addirittura assoluzioni. Ma questo importa poco, perché l’intento è sempre stato solo quello di fiaccare i vecchi e spaventare i giovani. In molti hanno continuato però, incredibilmente, ad aggregarsi a un progetto che, senza tante menate, prova a mettersi al servizio del conflitto sociale. Questura e procura aprono quindi un secondo fronte, quello per provare a disarticolare il legame tra Askatasuna e la città, con livelli di infamia da Guinness dei primati. Se il modello cattivi e violenti non funziona, proviamo a farli passare da ras e magnaccia. La digos arriva a inseguire chi spacciava crack davanti alla scuola elementare di Vanchiglia per strappargli una denuncia contro i ragazzi del centro sociale che avrebbero osato tirar loro un calcio in culo. Rintraccia un marito violento cacciato da un’occupazione abitativa per chiedergli di identificare i cattivi che l’avrebbero messo alla porta. E via culminando fino alla tentata operazione “associazione sovversiva” del 2022. Il modello doveva essere quello dell’asilo occupato di via Alessandria: reato associativo, sgombero e demolizione dello stabile. C’è però un intoppo, “l’associazione sovversiva” non viene firmata dal Gip e, per salvare parte del teorema, il Tribunale del Riesame tira fuori dal cappello il reato di “associazione a delinquere”, lo sgombero va a monte. Si apre quindi il terzo fronte, quello del logoramento amministrativo. Interventi dei vigili del fuoco, sigilli, mezzucci, tentativo di far passare uno spazio ricreativo in cui nessuno ha mai preso una lira per discoteca. L’obiettivo è uno, togliere il terreno sotto ai piedi a una realtà che non si piega e non si spezza, e l’epilogo ricercato evidente.
In questo contesto ci è sembrato fondamentale riprendere l’iniziativa. Rilanciare politicamente per uscire dall’angolo in cui i nostri avversari ci avrebbero voluto tenere. Non abbiamo mai avuto problemi col fatto che le istituzioni riconoscano il valore di quanto fatto dal basso (i doposcuola, le feste per bambini, la musica, la palestra, il cinema), anzi. Lo stesso csa Murazzi fu concesso dal Comune nel lontano 1989 dopo una serie di occupazioni, sgomberi e mobilitazioni. E da lì in poi ci pare che tutto ci si possa imputare, tranne di essere stati indulgenti col centro sinistra torinese, dall’occupazione della sede dei DS per protestare contro l’arresto di Ocalan nel lontano 1999. A seguire, le dure contestazioni contro la sinistra di guerra che bombardava Belgrado e l’irruzione nel centro sociale in modalità che anticipavano quanto poi accadde alla Diaz di Genova. La storia è lunga… e arriva fino all’operazione di venerdì scorso con una decina di nuove restrizioni e divieti di dimora per giovanissimi compagni e compagne.
L’importante per noi è come si arriva a quello che può essere, a seconda dei contesti, un passaggio utile, inutile o deleterio. L’azione politica è plasmata al ribasso dalla necessità di farsi riconoscere dalle istituzioni? Peggio, ci si fa riconoscere per provare a ottenere un posto al sole per qualche capo o capetto? Oppure si costruisce pazientemente un radicamento fino a far diventare uno spazio occupato un punto di riferimento imprescindibile per la città? Detto questo, per noi il centro sociale è sempre stato un mezzo e non un fine. Se per qualche motivo, strettamente politicista, questo percorso in futuro dovesse arenarsi, non cambia il dato di fatto che è già evidente per una grande fetta di Torino. Dai bimbi dell’asilo di via Balbo che vengono a festeggiare il compleanno coi loro amichetti dentro l’Aska, fino ai ragazzi venuti sin dalla provincia torinese a danzare sulle note della tecno nessuno ha aspettato un pezzo di carta per sapere che Askatasuna è già un bene comune della città.
Precisiamo un paio di punti, per dissipare ogni dubbio e levare qualche grillo per la testa. Siamo più che disponibili a investire le nostre energie per migliorare la sicurezza dello stabile e garantire una maggiore fruibilità e facilitarne l’accesso. Perché siamo convinti, insieme a tanti altri, che il centro è ormai diventato patrimonio comune che va al di là del collettivo politico che lo ha curato fino a oggi, garantendo lo svolgimento di tante attività per la città. Il nostro impegno in tal senso non significa però in alcun modo abdicare ai legami che abbiamo costruito col quartiere Vanchiglia e al nostro impegno politico sul territorio. Ci siamo stati per questo quartiere quando era un deserto di servizi. Ci siamo stati quando le amministrazioni hanno avviato un processo per trasformarlo in “tavolinificio”, rilasciando licenze a destra e a manca. Ci siamo stati quando si è voluto militarizzare il quartiere per reprimere una vita notturna spostata lì di forza dalle scelte scellerate fatte a palazzo di città. Ci siamo stati per dare attività all’aria aperta ai bambini del quartiere durante la pandemia quando le famiglie sono state lasciate sole dalle istituzioni. Capiamo che per politici che ragionano con scadenze elettorali a 4 o 5 anni siano dinamiche secondarie, ma per noi che abbiamo plasmato la vita di Vanchiglia e siamo stati plasmati da essa, sono cose centrali. Per quel che ci riguarda, siamo all’inizio di un percorso, tutto può ancora accadere: è un terreno per noi inesplorato ma lo pratichiamo con la stessa determinazione e parzialità con cui da decenni siamo parte viva delle lotte sul territorio, in città, in valle e ovunque sarà necessario mobilitarsi.
Così è, ci pare.
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