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Lenin – Il socialismo e i contadini

10 ottobre 1905

Proletari, n. 20, 10 ottobre (27 settembre) 1905

La rivoluzione che la Russia sta attraversando è una rivoluzione di tutto il popolo. Gli interessi di quest’ultimo sono venuti in contrasto inconciliabile con gli interessi di quel pugno di uomini che costituiscono e sostengono il governo autocratico. L’esistenza stessa della società contemporanea, organizzata sulla base dell’economia mercantile, con i suoi enormi contrasti e antagonismi di interessi tra i diversi gruppi e classi della popolazione, esige che venga distrutta l’autocrazia, che venga instaurata la libertà politica, che gli interessi delle classi dominanti nell’economia e nella società civile siano espressi apertamente e direttamente nell’organizzazione e nella direzione dello Stato. La rivoluzione democratica borghese, per il suo contenuto economico e sociale, non può non esprimere le esigenze di tutta la società borghese.

Ma questa stessa società, che sembra oggi unita e compatta nella lotta contro l’autocrazia, è irrimediabilmente divisa dall’abisso che esiste tra capitalisti e lavoratori. Il popolo che è insorto contro l’autocrazia non forma un tutto unico. Proprietari e salariati, una minoranza insignificante di ricchi (“i diecimila che stanno alla sommità”) e decine di milioni di nullatenenti e di lavoratori, costituiscono, in verità, “due nazioni”, come diceva un inglese lungimirante fin dalla prima metà del XIX secolo [Benjamin Disraeli (1804-1881), deputato conservatore dal 1837 fu uno dei maggiori attori della politica britannica dal 1852 al 1880]. La lotta tra il proletariato e la borghesia è all’ordine del giorno in tutta l’Europa. Questa lotta già da tempo si è estesa anche alla Russia. Nella Russia contemporanea il contenuto della rivoluzione non è dato da due forze in lotta, ma da due guerre sociali diverse e di diversa origine: una in seno al regime attuale, autocratico, feudale; l’altra in seno al futuro regime democratico borghese, che già va sorgendo sotto i nostri occhi. Una è la lotta di tutto il popolo per la libertà (per la libertà della società borghese), per la democrazia, cioè per la sovranità del popolo; l’altra è la lotta di classe del proletariato contro la borghesia per l’organizzazione socialista della società.

Ai socialisti [oggi diremmo ai comunisti] spetta dunque il grave e difficile compito di condurre contemporaneamente due guerre, completamente diverse e per la loro natura e per i loro scopi e per la composizione delle forze sociali atte a prender parte in modo decisivo all’una o all’altra guerra. La socialdemocrazia [il movimento comunista dell’impero zarista] si è posta chiaramente questo difficile compito e l’ha adempiuto fermamente grazie al fatto che alla base di tutto il suo programma essa ha posto il socialismo scientifico, cioè il marxismo, grazie al fatto di essere entrata, quale uno dei suoi distaccamenti, nell’esercito mondiale della socialdemocrazia [la II Internazionale (1879-1914)], la quale ha sperimentato, confermato, spiegato e approfondito le tesi del marxismo in base all’esperienza di una lunga serie di movimenti democratici e socialisti dei più diversi paesi europei.

Da molto tempo la socialdemocrazia rivoluzionaria [Plekhanov, Lenin e i loro compagni fondatori nel 1898 del Partito Operaio Socialdemocratico Russo] ha rilevato e dimostrato che la democrazia russa [gli oppositori non marxisti dell’autocrazia zarista], cominciando dalla sua espressione liberalpopulista per finire con quella degli osvobozdentsy [i seguaci della rivista Osvobozdenie (L’emancipazione), organo della borghesia monarchica liberale pubblicato quindicinale all’estero dal 1902 al 1905], ha un carattere borghese. Essa ha sempre rilevato l’inevitabile ambiguità, ristrettezza, grettezza della democrazia borghese. E ha posto al proletariato socialista, nell’epoca della rivoluzione democratica, questo compito: attrarre dalla propria parte la massa dei contadini e, paralizzando l’instabilità della borghesia, spezzare e schiacciare l’autocrazia. La vittoria decisiva della rivoluzione democratica è possibile solo nella forma di dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e dei contadini [il rivolgimento che più tardi Mao Tse-tung chiamerà “rivoluzione di nuova democrazia” – vedasi La Voce n. 41, L’ottava discriminante]. Ma quanto più rapida e completa sarà la vittoria, tanto più rapidamente e profondamente si svilupperanno nuovi antagonismi e una nuova lotta di classe sul terreno del regime borghese completamente democratizzato. Quanto più integralmente attueremo la rivoluzione democratica, tanto più dovremo affrontare da vicino i compiti della rivoluzione socialista e tanto più aspra e acuta sarà la lotta del proletariato contro le basi stesse della società borghese.

La socialdemocrazia deve condurre una lotta intransigente per non deviare in alcun modo da questa impostazione dei compiti democratici rivoluzionari e socialisti del proletariato. È assurdo voler ignorare il carattere democratico, cioè fondamentalmente borghese, della rivoluzione attuale [del 1905 in Russia], è assurdo perciò lanciare parole d’ordine quali la creazione di comuni rivoluzionarie. È assurdo e reazionario voler sminuire gli obiettivi che il proletariato si pone partecipando, e per di più con una funzione dirigente, alla rivoluzione democratica, sminuirli anche solo tacendo la parola d’ordine della dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e dei contadini. È assurdo confondere i compiti e le condizioni della rivoluzione democratica con quelli della rivoluzione socialista; le due rivoluzioni, ripetiamo, sono diverse sia per la loro natura, sia per la composizione delle forze sociali che vi partecipano.

Appunto su quest’ultimo errore abbiamo intenzione ora di soffermarci. L’insufficiente sviluppo delle contraddizioni di classe nel popolo in generale e particolarmente tra i contadini, è un fenomeno inevitabile nell’epoca della rivoluzione democratica. Questa getta le prime basi per uno sviluppo veramente largo del capitalismo. Mancando questo sviluppo dell’economia si ha la sopravvivenza e la reviviscenza, sotto questo o quell’aspetto, di forme arretrate di socialismo, che è un socialismo piccolo-borghese [Marx ed Engels nel III capitolo del Manifesto del partito comunista del 1848 passano in rassegna le sue varie espressioni], perché idealizza riforme che non escono dal quadro dei rapporti piccolo-borghesi. La massa dei contadini non comprende e non può concepire che la più completa “libertà” e la più “giusta” ripartizione, sia pur di tutta la terra, non solo non distruggeranno il capitalismo, ma, al contrario, creeranno le condizioni per un suo sviluppo particolarmente largo e possente. E mentre la socialdemocrazia distingue e sostiene solo il contenuto democratico rivoluzionario di queste aspirazioni dei contadini, il socialismo piccolo-borghese eleva a teoria l’arretratezza dei contadini, mescolando o confondendo in un tutto unico ed eclettico sia le condizioni e i compiti di una rivoluzione veramente democratica, sia quelli di una rivoluzione socialista immaginaria.

L’espressione più evidente di questa confusa ideologia piccolo-borghese è il programma, o meglio, il progetto di programma dei “socialisti-rivoluzionari”, i quali si sono tanto più affrettati a proclamarsi partito quanto meno erano sviluppate in loro le forme e i presupposti per esserlo. Esaminando il loro progetto di programma (cfr. il V period, n. 3 [Dal populismo al marxismo in Lenin Opere Complete vol. 8]) abbiamo già avuto occasione di rilevare che le radici delle concezioni dei socialisti-rivoluzionari sono costituite dal vecchio populismo russo. Ma poiché lo sviluppo economico della Russia e il cammino della rivoluzione russa, inesorabilmente e implacabilmente, ogni giorno e ogni ora, scavano il terreno sotto i piedi del populismo puro, le concezioni dei socialisti-rivoluzionari cadono inevitabilmente nell’eclettismo. Essi cercano di rabberciare il populismo mediante la “critica” opportunista del marxismo [si tratta del revisionismo di Bernstein, David e seguaci], oggi di moda, ma non per questo l’edificio in rovina diventa più solido. In generale, il loro programma è qualcosa assolutamente privo di vita, intrinsecamente contraddittorio e che nella storia del socialismo russo rappresenta soltanto una tappa sulla via dalla Russia feudale alla Russia borghese, sulla via “dal populismo al marxismo”. Questa definizione, tipica per tutta una serie di correnti più o meno rilevanti del pensiero rivoluzionario contemporaneo, vale anche per il recentissimo progetto di programma agrario del Partito socialista polacco (PSP) pubblicato nel n. 6-8 del Przedšwit.

Il progetto divide il programma agrario in due parti. La prima espone le “riforme per la cui attuazione le condizioni sociali sono già mature”; la seconda “formula il coronamento e l’integrazione delle riforme agrarie esposte nella prima parte”. La prima parte, a sua. volta, si divide in tre sezioni: A) tutela del lavoro: rivendicazioni a favore del proletariato agricolo; B) riforme agrarie (in senso stretto, o, per così dire, rivendicazioni contadine); C) difesa degli interessi della popolazione rurale (autonomia, ecc.).

Nel programma si fa un passo verso il marxismo, tentando di stabilire una certa distinzione tra il programma minimo e il programma massimo, ponendo in modo del tutto indipendente le rivendicazioni di carattere puramente proletario e, infine, riconoscendo nei “considerando” del programma che è assolutamente inammissibile per i socialisti “lusingare gli istinti di proprietà delle masse contadine”. Per essere esatti, se si volesse esaminare a fondo la verità racchiusa nell’ultima proposizione e svilupparla fino alle estreme conseguenze, si avrebbe inevitabilmente un programma rigidamente marxista. Ma il guaio è che il Partito socialista polacco non è un partito coerentemente proletario e attinge le sue idee altrettanto volentieri dal repertorio della critica opportunista del marxismo. “Dato che non è dimostrato che esiste una tendenza della proprietà terriera alla concentrazione – leggiamo nei “considerando” del programma – è inconcepibile difendere con piena sincerità e sicurezza questa forma di economia [il capitalismo] e convincere il contadino che la scomparsa delle piccole aziende è inevitabile”.

Ciò non è altro che un’eco dell’economia politica borghese. Gli economisti borghesi cercano con tutte le loro forze di inculcare nel piccolo contadino l’idea che il capitalismo è compatibile col benessere del piccolo proprietario. Essi nascondono quindi il problema generale dell’economia mercantile, dell’oppressione del capitale, della decadenza e dell’asservimento della piccola azienda contadina isolando il problema della concentrazione della proprietà terriera [come se l’avanzata del capitalismo nell’agricoltura coincidesse sempre e ovunque con l’estensione della superficie delle aziende agricole]. Essi chiudono gli occhi sul fatto che la grande produzione, in particolari rami mercantili dell’agricoltura, si sviluppa anche nella piccola e media proprietà terriera, sul fatto che questa proprietà si disgrega a causa dell’aumento del canone d’affitto, del peso delle ipoteche, della pressione esercitata dallo strozzinaggio e lasciano nell’ombra un fatto incontestabile quale la superiorità tecnica della grande azienda agricola e l’abbassamento del tenore di vita del contadino che deve lottare contro il capitalismo. Il Partito socialista polacco non fa che ripetere i pregiudizi borghesi risuscitati dai novelli David [Eduard David, economista tedesco bernsteiniano. Per la critica di Lenin a David vedasi “La questione agraria e i “critici” di Marx” in 0pere complete.

L’inconsistenza delle concezioni teoriche del PSP si manifesta anche nel programma pratico. Prendete la prima parte, le riforme agrarie in senso stretto. Da una parte, leggerete i paragrafi 5 (“abolizione di qualsiasi limitazione nell’acquisto dei nadiel [terreni in uso della comunità contadina russa, confermata dalla Riforma del 1861 che abolì parzialmente la servitù della gleba]) e 6 (“abolizione dei lavori imposti”). Queste sono rivendicazioni minime prettamente marxiste. Formulandole (soprattutto nel paragrafo 5), il Partito socialista polacco fa un passo avanti in confronto ai nostri socialisti-rivoluzionari che, insieme alle Moskovskie Viedomosti, alimentano il debole dei contadini per la famosa “inalienabilità dei nadiel”. Formulandole, il Partito socialista polacco si avvicina molto alla concezione marxista della lotta contro i residui feudali, che deve essere la base e il contenuto dell’attuale movimento contadino. Ma pur avvicinandosi a questa concezione, è lontano dall’accettarla completamente e coscientemente.

I punti principali del programma minimo del PSP che stiamo esaminando sono: 1. confisca e nazionalizzazione delle tenute della Corona, dello Stato e della Chiesa; 2. nazionalizzazione della grande proprietà fondiaria quando manchino eredi diretti; 3. nazionalizzazione delle foreste, dei fiumi e dei laghi”. Queste rivendicazioni presentano tutte le manchevolezze di un programma che pone oggi in primo piano la rivendicazione della nazionalizzazione della terra. Finché non esistono la piena libertà politica e la sovranità del popolo, finché non esiste la repubblica democratica, è prematuro e irragionevole rivendicare la nazionalizzazione, perché nazionalizzazione significa passaggio nelle mani dello Stato e lo Stato attuale è uno Stato poliziesco e di classe e lo Stato di domani sarà comunque uno Stato di classe. Questa rivendicazione non serve affatto come parola d’ordine che conduca a una più rapida democratizzazione, perché fa apparire come la cosa più importante non i rapporti fra contadini e grandi proprietari fondiari (i contadini occupano le terre di questi ultimi), ma i rapporti fra i grandi proprietari fondiari e lo Stato. Una simile impostazione della questione è radicalmente errata nel momento attuale, in cui i contadini lottano per la terra in modo rivoluzionario, sia contro i grandi proprietari fondiari, sia contro lo Stato odierno. Comitati rivoluzionari contadini per la confisca, come strumento per la confisca: ecco l’unica parola d’ordine che corrisponde al momento attuale e contribuisce al progresso della lotta di classe contro i grandi proprietari fondiari, lotta indissolubilmente legata all’abbattimento rivoluzionario dello Stato dei grandi proprietari fondiari.

Gli altri punti del programma agrario minimo del Partito socialista polacco sono i seguenti: “4. limitazione del diritto di proprietà, nella misura in cui questo diritto è di ostacolo alle migliorie, se queste sono ritenute necessarie dalla maggioranza degli interessati; … 7. nazionalizzazione dell’assicurazione dei cereali contro gli incendi e la grandine e del bestiame contro l’epizoozia; 8. legislazione che incoraggi la creazione di cooperative di produzione e di consumo; 9. scuole d’agronomia”.

Questi punti corrispondono completamente alle concezioni dei socialisti-rivoluzionari o (il che è lo stesso) del riformismo borghese, in essi non c’è nulla di rivoluzionario. Certo, sono progressisti, non si può negarlo, ma progressisti nell’interesse dei proprietari. Enunciarli, per un socialista, vuol dire appunto lusingare gli istinti di proprietà. Enunciarli è lo stesso che rivendicare l’appoggio dello Stato ai trusts, ai cartelli, ai sindacati, alle società industriali, che non sono meno “progressisti” della cooperazione, delle assicurazioni, ecc. nell’agricoltura. Tutto questo rientra nel quadro del progresso capitalista. Non sta a noi preoccuparcene, ma agli agricoltori, agli industriali. Il socialismo proletario, a differenza di quello piccolo-borghese, lascia ai conti De Roquigny, ai grandi proprietari fondiari degli zemstvo [istituzioni di autoamministrazione locale a cui potevano accedere solo elementi provenienti dalla nobiltà e dalla borghesia], ecc. la cura di organizzare cooperative di proprietari grandi e piccoli, e dal canto suo si occupa, interamente ed esclusivamente, della cooperazione dei salariati, ai fini della lotta contro i padroni.

Considerate ora la seconda parte del programma. Vi è un punto unico: “Nazionalizzazione della grande proprietà terriera mediante confisca. Le terre arabili e i pascoli così ottenuti dal popolo devono essere divisi in lotti e consegnati ai contadini senza terra o con poca terra, garantendoli con un contratto di affitto a lunga scadenza”.

Non c’è che dire, è un bel “coronamento”! Un partito che si dice socialista, come “coronamento e integrazione delle riforme agrarie” propone non già l’organizzazione socialista della società, ma un’assurda utopia piccolo-borghese. Ci troviamo di fronte all’esempio più palese di completa confusione tra rivoluzione democratica e rivoluzione socialista, alla completa incomprensione della diversità dei fini delle due rivoluzioni. Il passaggio delle terre dai grandi proprietari fondiari ai contadini può essere – ed in Europa lo è stato dovunque – parte integrante della rivoluzione democratica, una delle tappe della rivoluzione borghese, ma solo dei radicali borghesi possono dire che “corona” o “porta a termine”. La ridistribuzione della terra fra queste o quelle categorie di proprietari, fra queste o quelle classi di agricoltori, può esser vantaggiosa e necessaria alla vittoria della democrazia, per distruggere completamente i residui feudali, per elevare il tenore di vita delle masse, per affrettare lo sviluppo del capitalismo, ecc. L’appoggio più deciso a una simile misura può essere doveroso per il proletariato socialista nell’epoca della rivoluzione democratica. Ma solo la produzione socialista – e non la piccola produzione contadina – può “coronare e portare a termine”. “Garantire” ai piccoli contadini un contratto di affitto in regime di economia mercantile, in regime capitalista, è un’utopia piccolo-borghese reazionaria e nulla più!

Vediamo ora che l’errore fondamentale del Partito socialista polacco non è un errore proprio solo del PSP. Non è un fatto isolato ne casuale. Esso esprime nella forma più chiara e netta (più della famosa “socializzazione” dei socialisti-rivoluzionari, che gli stessi socialisti-rivoluzionari non comprendono) l’errore fondamentale di tutto il populismo russo, di tutto il liberalismo e radicalismo borghese russo nella questione agraria, compreso quello manifestatosi nelle discussioni all’ultimo congresso (di settembre) degli zemtsy tenutosi a Mosca.

Quest’errore fondamentale si può così esprimere: Nell’impostazione degli obiettivi immediati, il programma del Partito socialista polacco non è rivoluzionario. Nei suoi obiettivi finali non è socialista.

O in altri termini: quando non si comprende la differenza tra la rivoluzione democratica e quella socialista gli obiettivi democratici non sono presentati sotto il loro aspetto effettivamente democratico e rivoluzionario e gli obiettivi socialisti sono espressi con la confusione propria della concezione democratica borghese. Ne risulta una parola d’ordine non abbastanza rivoluzionaria per il democratico e imperdonabilmente confusa per il socialista.

Al contrario, il programma della socialdemocrazia soddisfa tutte le esigenze, sia perché appoggia la democrazia veramente rivoluzionaria, sia perché pone un chiaro obiettivo socialista. Nell’attuale movimento contadino, noi vediamo la lotta contro il feudalesimo, la lotta contro i grandi proprietari fondiari e il loro Stato. Questa lotta, noi l’appoggiamo fino in fondo. Per appoggiarla, l’unica parola d’ordine giusta è: confisca delle terre da parte dei comitati contadini rivoluzionari. Che cosa fare delle terre confiscate? Questo è un problema di second’ordine. Non sta a noi risolverlo, ma ai contadini. È appunto per risolverlo che incomincia nelle campagne la lotta tra il proletariato e la borghesia. Ecco perché o noi lasciamo aperta questa questione (cosa che non piace ai progettisti piccolo-borghesi) oppure ci limitiamo a indicare l’inizio della via da seguire, che dovrebbe essere la confisca delle terre stralciate [le terre che con la Riforma del 1861 i nobili e il loro Stato avevano sottratto alle comunità contadine] (in questa rivendicazione, le persone che riflettono poco vedono un ostacolo al movimento, nonostante le innumerevoli spiegazioni date dalla socialdemocrazia).

Quindi, perché la riforma agraria, inevitabile nella Russia odierna, abbia una funzione democratica rivoluzionaria, c’è solo un mezzo: che essa si compia per iniziativa rivoluzionaria dei contadini stessi, a dispetto dei grandi proprietari fondiari e della burocrazia, a dispetto dello Stato, cioè per via rivoluzionaria. La peggior ripartizione della terra dopo una tale trasformazione sarà, da ogni punto di vista, migliore di quella attuale. È questa la via che noi additiamo, ponendo come condizione fondamentale la costituzione dei comitati contadini rivoluzionari.

Ma contemporaneamente diciamo al proletariato agricolo: “La vittoria più radicale dei contadini, che tu devi ora appoggiare con tutte le tue forze, non ti salverà dalla miseria. Per salvarti c’è una sola via: la vittoria di tutto il proletariato, industriale e agricolo, su tutta la borghesia e l’organizzazione della società socialista”.

Insieme ai contadini proprietari contro i grandi proprietari fondiari e il loro Stato, insieme al proletariato della città contro tutta la borghesia e tutti i contadini proprietari: ecco la parola d’ordine del proletariato agricolo cosciente. E se i piccoli agricoltori non accetteranno subito questa parola d’ordine o non l’accetteranno affatto, allora essa diventerà la parola d’ordine degli operai, sarà inevitabilmente confermata da tutta la rivoluzione, ci libererà dalle illusioni piccolo-borghesi, ci indicherà in modo chiaro e definito il nostro obiettivo socialista.

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