Oltre le agiografie: Gino Strada per noi
E’ difficile in queste ore parlare della morte di Gino Strada, molto si è già detto e si rischierebbe di ricalcare la solita agiografia oppure semplicemente di rivendicare che “era uno dei nostri” rifacendosi al suo passato sessantottino nel Movimento Studentesco a Milano.
D’altronde oggi fanno post per celebrarlo persino i suoi più fieri detrattori, dunque non ci interessa inserirci in questa schiera, né tra quelli che ne spulceranno le luci e le ombre per dimostrare che tutto sommato non era il santo che si vorrebbe rappresentare.
Abbiamo sempre avuto problemi con santità e beatificazioni, così come li abbiamo con le retoriche dei diritti umani e le anime belle di sinistra.
E’ difficile inoltre farlo in una fase storica in cui cose radicalmente differenti tendono ad essere rappresentate come identiche, dove tutto finisce in una marmellata di informazioni dove è complesso districarsi.
E’ da qui che vorremmo partire tutto sommato, perché nell’opera di Gino Strada, lungo tutta la sua vita, non abbiamo visto solo questo, ma alcuni aspetti da considerare che ci paiono più significativi.
In primo luogo ci pare di cogliere che il suo agire non sia stato mai unicamente mosso da un afflato etico e caritatevole, ma da una precisa visione politica, di cui si può discutere la prospettiva, ma pienamente tale. Svuotare la sua figura da questo aspetto è ciò che tanto da vivo, quanto adesso da morto vorrebbero fare gli avversari più scaltri, mentre quelli più stupidi si limiteranno a inveire o tacere.
Quando disse “Io non sono pacifista, io sono contro la guerra” evidenziò chiaramente questo confine. La differenza tra un approccio internazionalista, teso all’autodeterminazione dei popoli, dove la differenza tra oppressi ed oppressori e tra l’uso differente della violenza da parte loro rappresenta ancora un discrimine necessario.
La scelta di intervenire in paesi di guerra devastati dal colonialismo occidentale era doppiamente politica, da un lato forse il frutto di un tardo terzomondismo, discutibile quanto si vuole, ma ben più significativo di tante altre scelte, dall’altro la volontà di riportare la brutalità di questo colonialismo all’interno del dibattito pubblico dei paesi occidentali.
Lo diciamo chiaramente, per noi le Ong finiscono per essere molto spesso uno strumento del colonialismo interno ed esterno al netto della buona volontà, pur sempre da apprezzare anche se a volte mal riposta, dei volontari che credono che quello possa essere uno strumento per cambiare il mondo, o per lo meno per fare del “bene”. Quello che ci pare di notare in questo caso però è che persino in quel settore, pieno di chiaroscuri e ambiguità, ricco di contraddizioni, un esercizio di coerenza, di rigidità continua è uno spiraglio di dignità che la gente capisce, apprezza e condivide.
Infine vogliamo riflettere sulla sua figura a partire dal contesto che stiamo vivendo. Il tema della cura come campo di battaglia, della sua dimensione politica, della sua centralità latente come contraddizione della dimensione capitalista che oggi si sprigiona come discorso generale in tempi di emergenza pandemica globale. Gino ci ha mostrato come chi esercita funzioni come quella medica, o più in generale che hanno a che fare con la cura in questa società se assume un punto di vista radicale e credibile, attivo, se in poche parole rifugge al ruolo in cui la riproduzione capitalistica lo vorrebbe collocato, come mero aggiustatore di corpi e menti, se si mette in relazione con i soggetti curati su un livello differente, allora in quel caso è in grado di esercitare una forza, un potere che è un mattoncino nella direzione del cambiamento.
Ora certamente quello di Gino Strada non era un progetto antagonista o contrappositivo, ma questo non vuol dire che non si debba riflettere su quanto di buono può averci offerto la sua visione, convinti che tanti e tante come lui nel momento giusto siederebbero al fianco di chi si batte per costruire un futuro diverso e naturalmente questo non ci esime dal salutare un compagno di strada che, senza dubbio, ci mancherà. Ciao Gino!
Di seguito alleghiamo il suo ultimo articolo apparso su La Stampa che fa i conti con il risultato di due decenni di guerra in Afghanistan:
Si parla molto di Afghanistan in questi giorni, dopo anni di coprifuoco mediatico. È difficile ignorare la notizia diffusa ieri: i talebani hanno conquistato anche Lashkar Gah e avanzano molto velocemente, le ambasciate evacuano il loro personale, si teme per l’aeroporto. Non mi sorprende questa situazione, come non dovrebbe sorprendere nessuno che abbia una discreta conoscenza dell’Afghanistan o almeno buona memoria. Mi sembra che manchino – meglio: che siano sempre mancate – entrambe. La guerra all’Afghanistan è stata – né più né meno – una guerra di aggressione iniziata all’indomani dell’attacco dell’11 settembre, dagli Stati Uniti a cui si sono accodati tutti i Paesi occidentali.
Il Consiglio di Sicurezza – unico organismo internazionale che ha il diritto di ricorrere all’uso della forza – era intervenuto il giorno dopo l’attentato con la risoluzione numero 1368, ma venne ignorato: gli Usa procedettero con una iniziativa militare autonoma (e quindi nella totale illegalità internazionale) perché la decisione di attaccare militarmente e di occupare l’Afghanistan era stata presa nell’autunno del 2000 già dall’Amministrazione Clinton, come si leggeva all’epoca sui giornali pakistani e come suggerisce la tempistica dell’intervento. Il 7 ottobre 2001 l’aviazione Usa diede il via ai bombardamenti aerei. Ufficialmente l’Afghanistan veniva attaccato perché forniva ospitalità e supporto alla “guerra santa” anti-Usa di Osama bin Laden. Così la “guerra al terrorismo” diventò di fatto la guerra per l’eliminazione del regime talebano al potere dal settembre 1996, dopo che per almeno due anni gli Stati Uniti avevano “trattato” per trovare un accordo con i talebani stessi: il riconoscimento formale e il sostegno economico al regime di Kabul in cambio del controllo delle multinazionali Usa del petrolio sui futuri oleodotti e gasdotti dall’Asia centrale fino al mare, cioè al Pakistan. Ed era innanzitutto il Pakistan (insieme a molti Paesi del Golfo) che aveva dato vita, equipaggiato e finanziato i talebani a partire dal 1994.
Il 7 novembre 2001, il 92 per cento circa dei parlamentari italiani approvò una risoluzione a favore della guerra. Chi allora si opponeva alla partecipazione dell’Italia alla missione militare, contraria alla Costituzione oltre che a qualunque logica, veniva accusato pubblicamente di essere un traditore dell’Occidente, un amico dei terroristi, un’anima bella nel migliore dei casi. Invito qualche volonteroso a fare questa ricerca sui giornali di allora perché sarebbe educativo per tutti. L’intervento della coalizione internazionale si tradusse, nei primi tre mesi del 2001, solo a Kabul e dintorni, in un numero vittime civili superiore agli attentati di New York. Nei mesi e negli anni successivi le informazioni sulle vittime sono diventate più incerte: secondo Costs of War della Brown University, circa 241 mila persone sono state vittime dirette della guerra e altre centinaia di migliaia sono morte a causa della fame, delle malattie e della mancanza di servizi essenziali. Solo nell’ultimo decennio, la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) ha registrato almeno 28.866 bambini morti o feriti. E sono numeri certamente sottostimati.
Ho vissuto in Afghanistan complessivamente 7 anni: ho visto aumentare il numero dei feriti e la violenza, mentre il Paese veniva progressivamente divorato dall’insicurezza e dalla corruzione. Dicevamo 20 anni fa che questa guerra sarebbe stata un disastro per tutti. Oggi l’esito di quell’aggressione è sotto i nostri occhi: un fallimento da ogni punto di vista. Oltre alle 241 mila vittime e ai 5 milioni di sfollati, tra interni e richiedenti asilo, l’Afghanistan oggi è un Paese che sta per precipitare di nuovo in una guerra civile, i talebani sono più forti di prima, le truppe internazionali sono state sconfitte e la loro presenza e autorevolezza nell’area è ancora più debole che nel 2001. E soprattutto è un Paese distrutto, da cui chi può cerca di scappare anche se sa che dovrà patire l’inferno per arrivare in Europa. E proprio in questi giorni alcuni Paesi europei contestano la decisione della Commissione europea di mettere uno stop ai rimpatri dei profughi afgani in un Paese in fiamme. Per finanziare tutto questo, gli Stati Uniti hanno speso complessivamente oltre 2 mila miliardi di dollari, l’Italia 8,5 miliardi di Euro. Le grandi industrie di armi ringraziano: alla fine sono solo loro a trarre un bilancio positivo da questa guerra. Se quel fiume di denaro fosse andato all’Afghanistan, adesso il Paese sarebbe una grande Svizzera. E peraltro, alla fine, forse gli occidentali sarebbero riusciti ad averne così un qualche controllo, mentre ora sono costretti a fuggire con la coda fra le gambe. Ci sono delle persone che in quel Paese distrutto cercano ancora di tutelare i diritti essenziali. Ad esempio, gli ospedali e lo staff di Emergency – pieni di feriti – continuano a lavorare in mezzo ai combattimenti, correndo anche dei rischi per la propria incolumità: non posso scrivere di Afghanistan senza pensare prima di tutto a loro e agli afghani che stanno soffrendo in questo momento, veri “eroi di guerra”.
GINO STRADA, pubblicato su La Stampa, 13 agosto 2021
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