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Ragazzo suicida per lavoro a Varese: una tragedia e molte questioni aperte

Una vicenda che ci porta a considerare la materialità nefasta di una condizione di precarietà estesa e a ragionare su come cercare di invertire la rotta. Chi si arrabatta quotidianamente per cercare di vivere contando sulle proprie forze sa quanto spesso la precarietà sia una condizione che isola e esclude dal mondo circostante, divenendo un tunnel in cui il mix tra sfruttamento e mancanza di stimoli possono costituire purtroppo il preambolo a soluzioni estreme come quella scelta da questo ragazzo. A questa vicenda infatti fanno eco tante altre, di cui molte passano in sordina se non quando hanno un epilogo eclatante quanto nefasto. L’ultimo esempio è il tentativo di suicidio nella giornata di ieri di un ventottenne del ragusano, non andato in porto, per problemi legati al lavoro e disaccordo con i genitori.

 

Lungi dall’entrare nella discussione sul singolo episodio (dacché mondo é mondo ogni storia ha la sua peculiarità e lati oscuri, ma non può essere slegata dal contesto in cui si produce), ciò non solleva dal non tenere in conto di quanti vivono sulla pelle condizioni simili alla sua, dalle periferie delle metropoli alle aree industriali più isolate; semmai è da riflettere quanto la presenza di realtà di lotta e di esempi di riscatto sui territori possano divenire quantomai fondamentali, se capaci di coniugare il rifiuto delle logiche di impoverimento e solitudine al superamento delle barriere psicologiche che da individuo a individuo divengono più o meno (in)sopportabili.

E, d’altro canto, a cosa può essere realmente utile oggi la costruzione di campagne d’opinione sul tema, da costruire su un soggetto precario astratto, incapace di potersi rivedere nei disegni esterni alla sua realtà dei fatti? Non sarebbe il momento piuttosto di ripartire dalla presenza dei territori, dallo sporcarsi le mani, dal capire le contraddizioni più intime e pesanti degli sfruttati e delle nuove povertà, per riuscire a fare in modo che almeno alcune di queste storie possano avere un esito differente?

Non è che, lungi dal partire dall’ idealizzazione di un presupposto bisogno di liberazione incarnato dalla volontà di qualche militante o del proprio gruppo, ma dalla correlazione di bisogni emersi dal territorio che hanno bisogno reale di essere soddisfatti e semmai ricondotti a una proposta di lotta politicizzata quanto credibile che si possono aprire prospettive di generalizzazione?

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