Appunti sulla guerra valutaria
Riprendiamo, dal nuovo blog Effimera legato ai ‘Quaderni disan Precario’, questo contributo dell’economista Stefano Lucarelli dove si fa il punto sulla guerra valutaria made in Usa e le ricadute europee (soprattutto a Sud) della politica di contenimento tedesca. Molto interessanti anche le osservazione sulle possibili conseguenze geopolitiche e geonergetiche dell’accelerazione americana in termini di estrazione petrolifera e di gas naturale (fracking). Un solo punto ci rimane oscuro: la “moneta del Comune”…
1. All’inizio del 2013, durante il vertice di Davos, la presa d’atto della nuova politica monetaria giapponese, impegnata a svalutare significativamente lo yen, aveva suscitato uno stato di agitazione che aveva condotto gli osservatori a dare per scontato che l’amministrazione Obama avesse tra i suoi obiettivi la perdita di valore relativo del dollaro.
Tanto il Giappone, quanto gli Stati Uniti – si diceva – vogliono da un lato recuperare quote nel commercio internazionale, e dall’altro ridurre il valore dei debiti che essi devono ai loro creditori (a seguito del probabile incremento dell’inflazione legata alla svalutazione delle proprie monete).
Dal momento che l’unica area economica priva di una vera politica valutaria è l’Eurozona, sembrava probabile che il dollaro si svalutasse proprio nei confronti dell’euro, aggravando i precari equilibri che caratterizzano i rapporti fra il modello di crescita tedesco – orientato alle esportazioni dei beni prodotti nei settori a più alto valore aggiunto – e i paesi mediterranei caratterizzati da deficit crescenti nella propria bilancia commerciale.
Se questa prospettiva si dovesse verificare, ciò accelererebbe la pericolosa tendenza che è comunque già presente tra i Paesi dell’Unione Monetaria Europea: ai Paesi periferici si continuerà a chiedere di ripagare i debiti a mezzo di deflazione salariale o attraverso la presenza rilevante dei capitali privati dei Paesi del Nord negli assetti proprietari dei settori potenzialmente redditizi:
i servizi di pubblica utilità, il sistema sanitario, forse il patrimonio museale e culturale e quella parte del settore manifatturiero presente in Italia che, in mancanza di una politica industriale, va svalorizzandosi per risultare appetibile ai Paesi che hanno accumulato dei surplus commerciali. Si configurerebbe un rapporto di potere molto prossimo al colonialismo.
Come ha sottolineato tra gli altri Marcello De Cecco (La Repubblica – Affari e Finanza 21 Gennaio 2013) un rapporto di cambio tra euro/dollaro che si stabilizzasse attorno a 1,50 rischierebbe di rendere inutili le politiche monetarie espansive della BCE poiché la debolezza della domanda interna europea non potrebbe compensare la riduzione dell’export prevedibile a seguito di un tasso di cambio di questa entità.
Tra Gennaio 2013 e Agosto 2013, tuttavia, il tasso di cambio euro/dollaro è lievemente oscillato attorno a 1,30 (tra Gennaio 2012 e Agosto 2012 invece era passato da 1,32 a 1,22). La tanto attesa guerra fra queste due valute non è esplosa.
2. Il primo a parlare di “Currency war” (guerra valutaria) fu il ministro delle finanze brasiliano Guido Mantega nel 2010, dopo le prime misure di quantitative easing negli Stati Uniti.
Secondo Mantega le politiche monetarie non convenzionali da parte della Fed avrebbero favorito una flusso eccessivo di capitali verso i Paesi emergenti generando spinte inflazionistiche, rivalutazioni monetarie, perdita di competitività e pressioni al rialzo sui prezzi degli asset.
Oggi la crescita degli Stati Uniti (e in Giappone) si va consolidando, mentre quella dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) è in frenata. Certamente si possono avanzare dei dubbi sulla portata della ripresa economica; per esempio degli 848.000 nuovi posti di lavoro creati negli USA nel corso dell’ultimo anno (tra Gennaio e Agosto), il 59,4% sono part-time jobs. Siamo dunque dinanzi ad un consolidamento della trappola della precarietà: un esercito industriale di riserva che non è più al di fuori del mercato del lavoro, bensì al suo interno (come scrive Andrea Fumagalli, Lavoro Male Comune, p. 88).
Tuttavia anche gli analisti più scettici – fra questi un marxista ortodosso come Michael Roberts (si veda il post del 7 Settembre 2013 su thenextrecession.wordpress.com ) – devono riconoscere che le aspettative del mondo degli affari stanno migliorando, soprattutto nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Gli indici più attendibili per tener conto di ciò che i manager pensano riguardo allo stato del settore manifatturiero e dei mercati sono i PMIs (purchasing managers indexes) prodotti separatamente da Markit Group (che monitora 30 Paesi) e dall’Institute for Supply Management (quest’ultimo limitatamente agli Stati Uniti). Per quanto riguarda gli Stati Uniti, i dati su cui i PMIs sono calcolati, sono raccolti attraverso un sondaggio mensile al quale rispondono 400 manager del settore manifatturiero. Sono richiesti i valori attesi sull’ammontare della produzione, dei nuovi ordini, della velocità di consegne dei fornitori, delle scorte e dell’occupazione. Roberts riconosce che in Agosto, il PMI statunitense riferito sia al manifatturiero che al settore terziario è cresciuto raggiungendo dei valori (superiori al 115%) che indicano una probabile fase di espansione economica.
Secondo le stime della società d’investimento Bridgewater (riportate il 17 Agosto da Federico Rampini su Repubblica), gli Stati Uniti, il Giappone e le altre economie sviluppate forniranno circa il 60% della crescita globale del 2013.
I capitali gestititi dai grandi fondi di investimento, e le stesse imprese multinazionali, si allontanano dai BRICS. Vanno soprattutto verso gli Stati Uniti, sotto la duplice azione della politica monetaria espansiva attuata dalla Fed (capace innanzitutto di sostenere la domanda di titoli finanziari americani, dunque gli indici azionari) e dell’incertezza generata dagli eventi più diversi. Tra questi non si può escludere nel caso del Brasile il ruolo assunto dalle grandi mobilitazioni durante la Coppa delle Confederazioni, che hanno fatto emergere le contraddizioni del modello di sviluppo che è andato consolidandosi dopo gli anni di Lula.
Dopo aver creato le condizioni anche per un indebitamento a buon mercato volto a sostenere la crescita dei BRICS, Ben Bernanke ha dichiarato, a fine Giugno, di scorgere segni di deciso miglioramento nell’ economia americana: se il tasso di disoccupazione fosse sceso al di sotto del 7%, ciò avrebbe potuto determinare un mutamento nella strategia della Fed. Queste parole hanno causato sì il nervosismo di Wall Street e – come vedremo – la necessità di una quasi smentita, ma hanno anche creato le condizioni per un aumento il valore delle obbligazioni a medio lungo termine. Si è così incoraggiato il rientro dei capitali dalle economie emergenti verso gli USA. La rupia indiana ha perso il 25% del suo valore, il real brasiliano il 15%, il rublo il 10%.
Al G20 di San Pietroburgo l’immagine di una guerra valutaria tra questi Paesi e gli Stati Uniti ha iniziato ad assumere la forma di uno scontro diplomatico. La tensione geopolitica fra Washington e Mosca per quanto riguarda la Siria ha anche una faccia monetaria.
Anche il caso indiano è emblematico: dinanzi all’aumento dei rendimenti ottenibili sulle piazze finanziarie statunitensi, alla svalutazione della rupia e alla conseguente fuga di capitali dall’India, il governo ha dovuto reintrodurre dei controlli sui movimenti dei capitali.
La Goldman Sachs ha considerato preoccupante l’alto livello di indebitamento del sistema delle imprese in Cina. Tuttavia la scelta di una stretta creditizia, di fatto promossa dalla Banca Popolare Cinese, rischia di riprodurre in Cina una dinamica molto simile a quella che ha messo in ginocchio gli Stati Uniti nel 2008.
3. I flussi di capitali verso gli Stati Uniti rischiano di alimentare delle spinte speculative che potrebbero condurre ad una nuova crisi finanziaria. È molto probabile che le continue iniezioni di liquidità da parte della Fed abbiano già creato una bolla finanziaria. Han Jon Chan sul Guardian (30 Agosto) ha rilevato che nonostante l’aumento dei tassi di crescita del PIL statunitense, gli investimenti pubblici e le spese per il welfare non sembrano ancora ad un livello sufficiente per delineare un modello di crescita duraturo. La moneta ex novo potrebbe non tradursi in produzione di valore. Molto dipenderà dall’effettiva rilevanza del nuovo paradigma tecnologico emergente.
Tuttavia la sola percezione di uno stop al quantitative easing, provocata dalle dichiarazioni di Bernanke, ha comportato una vendita in massa dei titoli americani sui mercati mondiali che ha spinto verso l’alto i tassi a lunga. I mercati finanziari americani sono dunque stati caratterizzati da una sfiducia crescente oltre che dall’incremento dei flussi di capitali che dai BRICS rientravano negli USA. Il numero 1 della Fed ha dovuto così dichiarare in Luglio che la politica dei tassi bassi non è destinata ad interrompersi, ma che durerà nel tempo: un altro segnale del fatto che, nel capitalismo contemporaneo, sono i mercati finanziari il luogo in cui la sovranità monetaria assume una legittimazione. Ciò tuttavia significa che anche le politiche monetarie vengono determinate secondo uno stato di eccezione che poggia su convenzioni instabili (quelle che emergono dall’interazione fra operatori finanziari eterogenei) a scapito delle convenzioni durevoli su cui le istituzioni dovrebbero costruire la propria ragion d’essere.
In questa situazione un coordinamento fra Fed e BCE diventa fondamentale. Tuttavia non può essere dato per scontato, soprattutto viste le faticose modalità di azione che caratterizzano gli interventi del banchiere centrale dell’Unione Monetaria Europea.
4. Stando a quanto ha riportato il Telegraph (1 Agosto), il senior economist della Fed Robert Hetzel, in un paper intitolato ECB Monetary Policy in the Recession, pubblicato in Luglio, ha attaccato la politica della BCE. Hetzel ha sostenuto che la BCE “manca di una strategia coerente per creare la base monetaria richiesta per sostenere la ripresa […]. La Bce deve essere chiara che i paesi in surplus dovranno attendersi un’inflazione superiore al 2% per un periodo prolungato e spiegare all’opinione pubblica tedesca che si tratta di un risultato favorevole”.
Hetzel denuncia a chiare lettere che la BCE – al di là delle apparenze – sta attuando una politica di contrazione del credito come leva per i cambiamenti strutturali dei Paesi che soffrono maggiormente la crisi. Una strategia su cui è lecito dubitare, a meno che non si traduca nel quasi-colonialismo cui prima accennavamo. La Germania e i suoi satelliti cercano di sfruttare le periferie europee mantenendo un controllo sulla struttura produttiva e sulla realizzazione del valore prodotto:
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le politiche di austerity e l’impoverimento delle finanze pubbliche che essi generano, contestualmente alla riduzione del consenso nei confronti della gestione pubblica delle risorse, favorisce la diffusione dei processi di privatizzazione delle public utilities che vanno a vantaggio delle grandi società di servizi tedesche e francesi;
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alcuni segmenti produttivi dei Paesi del Sud Europa che, se opportunamente supportati potrebbero crescere, vengono ridotti a subfornitori in una filiera produttiva che viene controllata a monte dai Paesi che hanno veri sistemi nazionali di innovazione resi possibili da una politica industriale reale;
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si incentiva una fuga di cervelli dal Sud Europa verso il Nord Europa (la scuola e l’università pubblica italiana, ad esempio, sta formando specialisti che verranno impiegati all’estero) alimentando nel Nord un esercito industriale di riserva nel mondo della ricerca che contribuisce a contenere i costi di produzione;
Così si ridefinisce la divisione tecnologica del lavoro all’interno dell’Europa, costringendo i Paesi del Sud ad adeguarsi alle esigenze dei Paesi del Nord.
Un sistema così configurato, in assenza di una politica fiscale comune o di altri meccanismi riequilibratori tipici di un’area monetaria ottimale, non può che essere percepito come altamente instabile.
La “graduale ripresa economica nella parte rimanente dell’anno e nel 2014” di cui ha parlato Mario Draghi per spiegare la scelta di lasciare invariati i tassi d’interesse nonostante la liquidità nell’Eurozona sia in diminuzione, lascia gli Stati Uniti con la paura che un surriscaldamento di Wall Street riporti in vita i fantasmi del passato.
5. Più che le elezioni federali tedesche per il rinnovo del 18° Bundestag, che si terranno il 22 settembre 2013 e più che la fine del mandato di Ben Bernake (nel gennaio 2014), gli eventi più significativi per gli assetti del sistema monetario internazionale, dunque soprattutto per la direzione e l’intensità dei movimenti di capitali, da cui dipendono principalmente le variazioni dei tassi di cambio, potrebbero essere legati a una nuova ondata di innovazioni.
Lo sviluppo di nuove tecniche di estrazione del petrolio e del gas naturale negli Stati Uniti ed in Canada ha permesso di raggiungere e sfruttare dei nuovi giacimenti di energia. Gli Stati Uniti potrebbero divenire entro il 2020 i maggiori produttori mondiali di petrolio e di gas naturale.
Uno shock tecnologico di questa portata avrebbe delle conseguenze rilevanti sul piano commerciale, (laddove gli Stati Uniti fossero in grado, come sembra, di esportare il gas naturale nel resto del mondo), sui flussi di capitali verso gli Stati Uniti e verso i Paesi che vorranno investire nelle nuove tecnologie estrattive, potrebbe favorire l’aumento della competitività globale dell’intera industria americana, e potrebbe comportare una ridefinizione degli equilibri geopolitici, anche alla luce delle recenti tragiche vicende che affliggono il Medio Oriente.
Forse, ancora una volta, è da qui che le sorti delle economie europee potranno ripartire, da una nuova edizione di un mondo trainato dalla domanda statunitense, con tutte le contraddizioni che ne deriverebbero. La presunta indipendenza della BCE, posta di fronte di un ipotetico specchio della verità, riflette l’immagine di uno spazio conteso fra gli Stati Uniti e la Germania.
La possibilità che le convenzioni finanziarie del domani siano compatibili con una sovranità americana capace di risolvere le contraddizioni in cui l’Europa si dimena (problema che per inciso ci obbliga ad analizzare anche cosa si muove all’interno dei Paesi europei che attendono l’adesione all’Unione Monetaria Europea, come la Lettonia e la Lituania), non fa certo venir meno il lavoro che a livello europeo i movimenti sociali sono chiamati a svolgere.
Riaffermare una sovranità monetaria dal basso contro l’espropriazione perpetuata nel nome dell’austerità rappresenta una sfida che può creare le condizioni per una mobilitazione europea. Come anche la possibilità di dettare le condizioni di un reale sviluppo tecnologico che non si tramuti nell’ennesimo disastro ecologico.
L’invenzione di un futuro che non sia imposto dalle logiche dello sfruttamento e dell’alienazione passa per la denuncia delle contraddizioni che caratterizzano l’Unione Monetaria Europea, ma dovrebbe procedere insieme alla condivisione di strumenti monetari che possano mantenere in vita l’insieme variegato dei saperi inappropriabili che combina la produzione sociale. Questa è la nostra guerra valutaria: dare un senso alla moneta (del) Comune.
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