
La Bolivia nel suo labirinto
Di fronte alla recente elezione di Rodrigo Paz nel ballottaggio presidenziale del 19 ottobre scorso i movimenti sociali, sindacali e delle popolazioni originarie del Paese si preparano ad avviare una nuova fase di resistenza in difesa dei risultati sociali raggiunti e della sovranità nazionale, ma per ora soono divisi e disorganizzati, senza dirigenti indiscussi e senza partito di fronte ad una destra che, nella sua campagna elettorale, ha chiesto la fine dello Stato Plurinazionale.
di Marco Consolo, da La Bottega del Barbieri
Tutto come previsto nel ballottaggio elettorale per decidere il nuovo presidente della Bolivia. Con una alta partecipazione (l’85% dei quasi 8 milioni di aventi diritto al voto, compresi i voti all’estero) dopo 19 anni, il governo torna alla destra. Rodrigo Paz, del Partido Demócrata Cristiano (PDC), figlio dell’ex presidente Jaime Paz Zamora, ha ottenuto il 54,5% dei voti, contro l’ex presidente Jorge “Tuto” Quiroga, (Alleanza Libre) con il 45,5%. Mentre il candidato della destra “moderata” pro-USA, Rodrigo Paz, (che aveva vinto il primo turno) ha vinto al suo primo tentativo di andare a Palacio Quemado, viceversa (e per la quarta volta) non ce la fa Quiroga, il grande sconfitto di questa tornata elettorale.
Con questo risultato, si chiude, per il momento, l’egemonia del Movimento al Socialismo (MAS) di Evo Morales, dopo quasi venti anni di governo con la presidenza di Evo Morales (2006-2019) e di Luis Arce (2020-2025), interrotta solo dal golpe contro Evo (con la complicità della UE e degli Stati Uniti) con il governo de facto di Jeanine Áñez tra il 2019 e il 2020. Nel 2020, la miscela di repressione, inefficienza e corruzione del governo golpista aveva facilitato la vittoria elettorale ed il ritorno del MAS, dato che si manteneva la sintonia tra il campo popolare e lo “strumento politico”, riattivata per riprendere il governo.
La svolta elettorale a destra si è immediatamente irradiata anche al potere giudiziario, che ha annullato le sentenze contro Áñez, non appena il MAS ha perso al primo turno, senza neanche aspettare il ballottaggio.
Al ballottaggio del 2025, non ha funzionato la strategia del “voto nullo” impulsata da Evo Morales, che nel ballottaggio ha raccolto un misero 4%.
La campagna di Paz ha combinato le “reti sociali” con azioni tradizionali, che includevano viaggi negli angoli più remoti del Paese, tra cui una piccola città nel profondo Altiplano, luogo di nascita di Evo Morales. La sua strategia è stata quella di mostrarsi più vicino alla gente comune, che alle élite economiche tradizionali. Rodrigo Paz ha anche parlato con insistenza di Dio e di religione, con una volontà evidente di rivolgersi al mondo evangelico pentecostale che, come in tutta la regione, è molto più forte che in passato.
Il suo insediamento è previsto per il prossimo 8 novembre.
L’elezione di Paz, pur segnando una svolta a destra, si caratterizza come il “male minore” e la ricetta neo-liberista sarà un po’ meno brutale di quella che avrebbe potuto realizzare Quiroga.
Alcuni elementi del voto
Rispetto alla geografia elettorale, la mappa del voto ha mantenuto la storica divisione Occidente/Oriente del Paese. Nelle Ande occidentali, Paz ha vinto con un ampio vantaggio, mentre a Oriente, Quiroga ha vinto con meno distacco. Paz ha ereditato parte dei voti dal MAS, che era forte nelle Ande occidentali a maggioranza dei popoli originari. Al contrario, i voti che hanno spinto “Tuto” Quiroga sono venuti per lo più dalle città capoluogo, oltre al sostegno diffuso dei dipartimenti di Beni e Santa Cruz: un voto da parte del ceto medio tradizionale e dei settori “aspirazionali”, predominanti nell’est del Paese, storica roccaforte della destra boliviana.
Per quanto riguarda la componente sociale, al secondo turno una maggioranza urbana-rurale dei popoli nativi ha optato per Paz, come ha fatto per Evo tra il 2005 e il 2014 e per il MAS nel 2020. Ad una prima lettura, una minoranza urbana di classe alta bianca si è ritrovata attorno a Tuto Quiroga, come ha fatto per Mesa nel 2019 e in maniera sparsa tra il 2005 e il 2014.
MAS: un tramonto annunciato
Come si ricorderà, all’inizio della decade del 2000, c’erano state massicce mobilitazioni popolari (“guerra dell’acqua” e “guerra del gas”) contro le privatizzazioni, ma che reclamavano (nelle strade e nelle urne) anche la possibilità di ricambio politico e di autogoverno.
In termini sociali ed elettorali, questo è stato l’inizio del Processo del Cambiamento. È stata la nozione di autodeterminazione di questi settori, per lo più dei popoli originari, che nel 2003 ha rovesciato il regime neoliberista e che, nel 2005, ha eletto Evo Morales Presidente. In una società con una forte presenza dei popoli originari, ha avuto un ruolo importante avere un candidato in cui riconoscersi. Poter votare qualcuno che ha lo stesso colore della pelle, lo stesso modo di essere, di camminare, di vestirsi, parlare, etc. in una sorta di auto-rappresentazione popolare.
A partire dall’unità raggiunta nelle mobilitazioni, si era rafforzato ed ampliato il tessuto di alleanze e di unità tra i movimenti sociali (urbani e rurali), sindacati, organizzazioni dei popoli originari e parte della sinistra politica, che aveva dato vita al Movimento al Socialismo – Strumento per la Sovranità dei Popoli (MAS-IPSP). Un ombrello ampio, più movimento che partito tradizionale, fortemente dipendente dalla figura di Evo Morales, ma che raccoglieva in maniera unitaria le tante anime della ribellione popolare.
Viceversa, nelle elezioni del 2025, il MAS si è presentato diviso in tre e con due candidati: l’ex ministro Eduardo del Castillo, con la sigla ufficiale, che ha ottenuto solo il 3,17% dei voti; Andrónico Rodríguez, che si è presentato con una sigla “prestata”, ha avuto l’8,5%. Infine, l’ex presidente Evo Morales, a cui i tribunali hanno impedito di presentarsi, che al primo turno ha fatto campagna per il voto nullo con un risultato non trascurabile: il 19% degli elettori ha annullato il voto. Anche se si esclude il 3,5-4 % dei voti nulli delle elezioni precedenti, si può attribuire all’ex presidente circa il 15-16% di questi voti. Con questi risultati, con una candidatura unitaria, il MAS probabilmente sarebbe potuto passare al ballottaggio. E anche in caso di sconfitta, avrebbe potuto contare su una presenza parlamentare ben maggiore di quella ottenuta al primo turno del 17 agosto, quando è praticamente scomparso dalla vita parlamentare. Va ricordato che, prima di quella data, non ha funzionato la strategia di Evo Morales di mobilitazione e di blocchi stradali per revocare la sua proscrizione elettorale. Blocchi che non solo sono stati repressi dal governo Arce, ma hanno anche provocato un rifiuto sociale, vista la crisi economica ed istituzionale. Nonostante ciò, l’ex Presidente rimane un importante attore politico.
In conclusione, ha funzionato la strategia imperialista di provocare un’implosione nel MAS e nelle organizzazioni sociali. Il partito che ha dominato la politica boliviana dal 2005 e che è stato l’anima e il motore della “Rivoluzione Democratica e Culturale” – con risultati storici del 64% dei voti alle elezioni del 2009, del 61% nel 2014 e del 55% nel 2020 – non solo è stato lasciato fuori dal secondo turno delle elezioni e dal parlamento, ma è praticamente imploso come movimento-partito.
Economia
I primi anni del MAS hanno mostrato capacità di inclusione “etnica” e sociale, ampliando la “foto di famiglia della nazione” e consentendo un lungo periodo di crescita economica e di ridistribuzione dei benefici. Ma, poco a poco, quel modello ha mostrato i suoi punti deboli dato che l’espansione economica, in gran parte, era basata sugli alti prezzi internazionali delle materie prime e su precedenti scoperte di giacimenti di gas. E in questi due decenni, i governi del MAS non sono riusciti a consolidare uno “Stato sociale” che andasse oltre la logica dei “buoni” specifici ai settori di basso reddito. In un Paese caratterizzato dal forte peso dell’economia informale, il progetto nazionalista del MAS sebbene abbia permesso una crescita economica significativa con una bassa inflazione, non è riuscito a industrializzare il Paese come aveva promesso.
Oggi, la Bolivia sta attraversando una crisi economica che tutti i candidati avevano promesso di risolvere. Sembra aver funzionato la promessa di Paz di “capitalismo per tutti”, che combini l’attrazione di capitali stranieri con un certo intervento statale. Un esperimento ancora indefinito che dovrà affrontare una crisi che si trascina da tempo, tra l’altro con una scarsezza di combustibile e di divisa.
Con la presidenza di Paz, il cammino che prenderà la Bolivia sarà molto distante dalle politiche del MAS di rafforzamento dello Stato (dopo decenni di neo-liberismo selvaggio), di nazionalizzazioni delle imprese strategiche (gas, litio, etc.), di ridistribuzione della ricchezza. Il nuovo governo ha già promesso un durissimo aggiustamento neoliberista, fiscale, monetario e cambiario, la limitazione delle tasse al 10 %, l’apertura agli organismi finanziari internazionali, oltre ad incentivi al settore privato per rilanciare gli investimenti nel settore estrattivo (idrocarburi e miniere, litio in particolare). Un bottino che fa gola a molte multinazionali occidentali, anche rispetto alla cosiddetta “transizione energetica”.
Anche la proposta di Paz di redistribuire il bilancio a favore delle province (che in altre latitudini risponderebbe ad una decentralizzazione), in Bolivia si traduce automaticamente nel rafforzamento delle élite locali, estremamente violente e storicamente inclini al separatismo. C’è il rischio concreto di ri-cattura dello Stato nazionale da parte di caudillos locali, nostalgici del periodo coloniale, nonché di un possibile tentativo di secessione, un’ipotesi mai abbandonata dalle élite locali delle aree ricche del Paese. È bene ricordare che la Bolivia non ha mai avuto un sistema di democrazia liberale e fino al 2005 è stato governato da un’oligarchia classista e profondamente xenofoba. Con il risultato dell’esclusione della maggioranza della popolazione (rappresentata dai popoli originari) dagli spazi di potere e dai benefici delle risorse naturali, che hanno arricchito l’oligarchia locale e le multinazionali occidentali.
Per applicare il suo programma, visti i numeri di Paz in Parlamento che non gli garantiscono la maggioranza (16 senatori su 36 e 49 deputati su 130), il nuovo governo dipenderà dalla capacità di costruire alleanze e coalizioni con il resto delle destre. Il tono conciliante di Paz è stato chiaramente funzionale alla caccia dell’appoggio parlamentare di Quiroga e/o di Doria Medina (7 senatori e 26 deputati), l’altro sconfitto a destra. Come si sa, i voti nulli non eleggono deputati.
La politica estera
Per le sue implicazioni geopolitiche verso tutto il Cono Sud, la Bolivia è una delle chiavi dell’egemonia statunitense nel sub-continente, ancor più dopo la vittoria di Rodrigo Paz. Naturalmente, la sua vittoria è stata salutata con gioia dalla Casabianca, che spera di riprendere i rapporti diplomatici (e non solo) dopo l’espulsione dell’ambasciatore statunitense nel 2008 e della DEA, l’Agenzia “antidroga” statunitense.
A distanza di 20 anni, l’implosione del modello politico ed economico realizzato dal MAS è una vittoria di Washington, che non ha mai smesso di destabilizzare il processo di trasformazione boliviano per riprendere il controllo del Paese. Il dominio totale (oggi reso possibile dalla vittoria elettorale della destra locale) era un obiettivo perseguito da Washington durante i governi di Evo Morales e Luis Arce. Da parte sua, Rodrigo Paz ha chiarito che manterrà una “posizione aggressiva” per cercare accordi di libero scambio con diversi paesi, tra cui gli Stati Uniti.
La svolta a destra, tra l’altro, metterà certamente in discussione gli accordi raggiunti con la Cina e con la Russia per lo sfruttamento del litio, del gas e delle altre risorse naturali strategiche. Si riprenderanno i rapporti diplomatici con Israele, mentre sono a rischio quelli con il Venezuela e Cuba.
C’è ancora incertezza su cosa farà il nuovo governo nei confronti dei BRICS, alleanza in cui la Bolivia è stata ammessa da poco.
Sul versante delle alleanze regionali, la Bolivia è stata appena espulsa dall’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America – Trattato di Commercio dei Popoli (ALBA-TCP) dopo i commenti del neo-eletto presidente, Rodrigo Paz, con cui ne sminuiva il ruolo. Sia l’attuale presidente Luis Arce, che l’ex presidente Evo Morales, hanno espresso pubblicamente il loro impegno nei confronti del blocco regionale che ha promosso numerosi programmi sociali per sradicare l’analfabetismo nella regione, risolvere i problemi abitativi o restituire la vista (Operaciòn Milagro) a chi vive in zone isolate nel continente. La difesa dell’ALBA arriva dopo la decisione del blocco di sospendere la Bolivia per la “condotta antibolivariana, antilatinoamericana, proimperialista e colonialista” del governo eletto, dopo che quest’ultimo non ha invitato alla sua investitura i Capi di Stato di Cuba, Nicaragua e Venezuela, senza reali giustificazioni politiche.
Anticomunista da “guerra fredda”, Paz è meno entusiasta delle guerre culturali condotte dalla nuova destra, anche se ha dichiarato di voler chiedere aiuto al salvadoregno Bukele per la “sicurezza” e ha elogiato l’argentino Milei e il cileno José Antonio Kast.
E rispetto al Cile, rimane complicata la relazione con la Bolivia, in particolare per il netto rifiuto da parte cilena di risolvere le storiche rivendicazioni marittime del Paese andino, messe nero su bianco nell’art. 268 della Costituzione boliviana.
Più in generale, è chiaro che la svolta a destra comporterà l’allineamento con gli alleati di Washington nella regione ed un distanziamento dalle alleanze internazionali tenute in questi 20 anni (Cina, Russia, Cuba, Venezuela, Iran), che la Casabianca vede come il fumo negli occhi.
Una nuova tappa di resistenza
Con l’implosione del MAS, si chiude un ciclo politico e ideologico aperto con le guerre dell’acqua e del gas del 2000 e del 2003. La sinistra boliviana ritorna così alla situazione di prima del 2005, con il rischio che una parte dei movimenti possa essere comprata con prebende statali. Il MAS è stato un partito di movimenti, fonte di forza, ma anche di debolezza, dato che non aveva una struttura organica e dipendeva da Evo Morales per mantenere l’unità. Oggi, la leadership di Evo non è più come la conoscevamo, ma la sua figura, sebbene messa al bando, continua a essere un fattore chiave nello scenario politico ed elettorale, dopo essere stato rieletto due volte con una ampia maggioranza.
Così, per ora divisi e disorganizzati, senza dirigenti indiscussi e senza partito, la sinistra politica e sociale e la maggioranza dei popoli originari devono fermare una destra che nella sua campagna elettorale ha chiesto la fine dello Stato Plurinazionale, il ritorno alla Repubblica tradizionale (e non più pluri-nazionale) e l’espulsione dei “masticatori di coca” dal governo.
Di fronte a questo nuovo scenario, i movimenti sociali, sindacali e delle popolazioni originarie del Paese si preparano ad avviare una nuova fase di resistenza in difesa dei risultati sociali raggiunti e della sovranità nazionale.
Il primo difficile compito è quello di rimarginare le profonde ferite provocate dalla spaccatura nel “Patto di unità” delle organizzazioni sindacali, sociali, di contadini e popoli originari. Il Patto riuniva la Confederación Nacional de Mujeres Campesinas Indígenas Originarias de Bolivia “Bartolina Sisa” (CNMCIOB-BS), la Confederación Sindical de Comunidades Interculturales Originarias de Bolivia (CSCIOB), il Consejo Nacional de Ayllus y Markas del Qullasuyu (CONAMAQ) e la Confederación de Pueblos Indígenas de Bolivia (CIDOB), oltre alla Confederación Sindical Única de Trabajadores Campesinos de Bolivia (CSUTCB).
Un segnale positivo è stato il recente Congresso della principale centrale sindacale, la storica Central Obrera Boliviana (COB), con l’elezione di un nuovo gruppo dirigente. Dando un segnale chiaro, i nuovi dirigenti hanno già dichiarato la loro opposizione a qualsiasi misura governativa di carattere neoliberista, sia che si tratti della soppressione dei sussidi sui combustibili, della privatizzazione della sanità e dell’istruzione o della svendita delle risorse naturali.
Seppure in grande difficoltà, sarebbe quindi un errore considerare concluso il Processo del Cambiamento che, seppur disperso, è ancora vivo in quel tessuto a rete costruito in questi anni.
Per riprendere il cammino della trasformazione è necessario avviare da subito un processo di dialogo di tutte le organizzazioni popolari, non solo per realizzare le necessarie autocritiche, ma soprattutto per elaborare insieme le basi di una piattaforma programmatica comune, come strumento per mobilitare la popolazione nella difesa dei diritti conquistati ed affrontare le misure neoliberiste nel prossimo quinquennio. Senza negare l’importanza della crescita di nuovi dirigenti che potrebbero emergere dai conflitti sociali.
Vedremo se il presidente eletto saprà muoversi con il dovuto realismo rispetto a un’opposizione dal basso che, nonostante la sconfitta della sua espressione elettorale, rimane organizzata per resistere agli attacchi anti-popolari.
La strada dell’unità del campo popolare è piena di buche ed in salita, ma all’orizzonte non ne appaiono altre.
Link all’articolo originale: https://marcoconsolo.altervista.org/sulla-sconfitta-boliviana/
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