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Cosa non comprare per lottare contro l’occupazione illegale della Palestina

Il rapporto “Don’t buy into occupation” spiega che centinaia di aziende (comprese banche) fanno affari nelle colonie israeliane illegali

di Luca Pisapia da Valori

«La situazione a Gaza peggiora. Le Nazioni Unite ci dicono che non ci sono rifugi e sta per smettere di lavorare nell’area per mancanza di risorse e sicurezza. Il livello di distruzione nella Striscia resta senza precedenti, è peggio di quanto successe a Dresda». A dichiararlo è stato Josep Borrell, Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea. Lo stesso giorno, dopo diverse bocciature nel Consiglio di Sicurezza per veti americani, l’Assemblea Generale dell’Onu aveva approvato una risoluzione che chiede il «cessate il fuoco umanitario immediato a Gaza», esprimendo «grave preoccupazione per la catastrofica situazione umanitaria» in Palestina.

776 istituti finanziari europei sostengono gl affari nelle colonie illegali in Cisgiordania

Comunque la pensiate, dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre che hanno provocato 1.200 morti, l’invasione israeliana ha finora ucciso almeno 18mila palestinesi. La maggior parte civili. E lasciato sul campo oltre cinquantamila feriti. Per non parlare degli oltre due milioni di persone costrette a lasciare in tutta fretta case, scuole e comunità. Ma non è questione di numeri, quello che sta accadendo è sotto gli occhi di tutti. Il problema è che qualsiasi attacco, invasione o guerra, non nasce mai per caso. E nel caso specifico tutto nasce da un’occupazione definita “illegale” a più riprese dall’Onu. Dal Tribunale internazionale dell’Aia. E, a suo modo, anche dai secondi accordi di Oslo del 1995.

Mai dall’Unione europea però, dove solo cinque Paesi riconoscono lo Stato palestinese. Il motivo è molto semplice. Sono infatti innumerevoli gli istituti finanziari e le aziende europee che dall’occupazione illegale della Cisgiordania e dal regime di apartheid ci guadagnano. E per le democrazie europee, si sa, la pace e i diritti umani davanti alla possibilità di guadagno passano in secondo piano. Secondo l’ultimo rapporto di Don’t Buy Into Occupation, pubblicato da una serie di Ong europee e palestinesi, a fare affari nelle colonie illegali israeliane in territorio palestinese ci sono ben 776 istituti finanziari europei. Tra cui banche, fondi d’investimento, compagnie assicurative e fondi pensione che sostengono 51 aziende in coinvolgimento diretto con i territori occupati illegalmente.

Da Carrefour a Booking, Puma e Siemens: chi lucra sulla Palestina occupata

Tra queste 51 compagnie che lucrano nella Palestina occupata ci sono diversi nomi noti, marchi e loghi che ogni giorno incontriamo nella nostra vita. Prodotti che più o meno consapevolmente compriamo, utilizziamo, indossiamo o mangiamo. A partire dai supermercati della catena francese Carrefour, che anni fa hanno stretto accordi con Electra Consumer Products, proprietaria dei negozi della catena Yenot Bitan che in diversi territori occupati illegalmente vendono proprio i prodotti della casa madre Carrefour. O l’agenzia turistica online Booking.com, che non ha nemmeno bisogno di nascondersi dietro accordi con compagnie locali, ma pubblicizza e gestisce direttamente case e alberghi nelle colonie di Gerusalemme Est, Kfar Adumim, Almog, Ovnat e Kalia.

Lo stesso fa l’altro sito per viaggi Expedia, che gestisce anche i siti Hotel.com e Trivago. Restando nel turismo, Tripadvisor in diverse località che consiglia e recensisce come attrazioni turistiche dimentica sempre di comunicare come siano stati occupati illegalmente da Israele. Poi ci sono i vestiti e le scarpe della Puma. La nota azienda tedesca, sponsor anche di molte squadre di calcio italiane, proprio l’altro giorno ha annunciato di non volere più sponsorizzare la maglia della Nazionale maschile di calcio israeliana. Però continua a utilizzare i prodotti di fabbriche che gestiscono negozi nelle colonie, come la Irani Corporation.

C’è l’agenzia immobiliare Re/Max che gestisce come se niente fosse la vendita e l’affitto di diverse proprietà a Gerusalemme Est, Ma’ale Adumim, Ofrat e Neve Daniel. Infine bisogna citare i prodotti tecnologici di compagnie come Ibm, Siemens, Hewlett Packard e Motorola, che con questi o altri loghi abitano le nostre case. Qui andrebbe aperto un capitolo a parte, perché queste aziende non si limitano ad accordi commerciali, come le altre, ma forniscono materiale e aiuto allo sviluppo tecnologico che incide direttamente sul lato militare dell’occupazione illegale israeliana. E spesso anche sul controllo e sulla repressione dei civili palestinesi.

Tra gli istituti finanziari figurano anche Unicredit, Intesa Sanpaolo, Mediolanum e il fondo Anima

Poi c’è un altro problema. Dietro questi loghi e questi marchi che ben conosciamo ci sono centinaia di istituti finanziari europei che li sostengono economicamente. Il report quantifica questa cifra in oltre 300 miliardi di dollari, tra prestiti e obbligazioni (164,2 miliardi) o partecipazioni azionarie (144,7 miliardi). E questi grandi investitori sono appunto le banche e le assicurazioni che utilizziamo tutti i giorni, più o meno consapevolmente rispetto agli altri marchi. Ci sono nomi grossi come Bnp Paribas, Hsbc, Deutsche Bank, Société Générale, Barclays, Crédit Agricole, Santander, Allianz e Government Pension Fund Global (ovvero il mitologico fondo pensioni norvegese). E ci sono alcuni nomi italiani. A partire da Unicredit, che è tra i primi dieci finanziatori in assoluto, fino a Intesa Sanpaolo (diciassettesima posizione), Banca Mediolanum (quarantacinquesima) e il fondo Anima (cinquantesima).

Per concludere vogliamo quindi ricordare che per l’articolo 507 del Codice penale in Italia il boicottaggio con mezzi violenti è considerato un reato. Va però anche ricordato che non è un reato isolare economicamente un soggetto rifiutandosi di compare i suoi prodotti, e nemmeno invitare gli amici a farlo, a partire dalla sentenza della Corte di Cassazione del 1969. Anzi, bisognerebbe proprio ricordare che spesso il boicottaggio è un atto di giustizia sociale.

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