Gerusalemme. La “conquista” di al Aqsa
Da giorni vanno avanti le proteste palestinesi, nel settore arabo (Est) della città e in Cisgiordania e a Gaza, contro le ultime iniziative israeliane a Gerusalemme. «Il governo Netanyahu e il comune israeliano provano ad approfittare del quadro regionale e dell’attenzione internazionale concentrata sull’Iraq, la Siria e l’Isis per cambiare lo status quo sull’area di al Aqsa e per intensificare la colonizzazione nella zona araba (di Gerusalemme)», ci spiega Ghassan al Khatib, analista e docente all’università di Bir Zeit a proposito del progetto volto a permettere l’ingresso libero e incondizionato sulla Spianata delle moschee (terzo luogo santo dell’Islam, dopo Mecca e Medina) ai non musulmani (in realtà ai nazionalisti religiosi israeliani) attraverso una seconda porta, Bab al Qattanin, nella città vecchia di Gerusalemme.
Gli israeliani ebrei già entrano, dalla Porta dei Marocchini. Gli ultranazionalisti però chiedono di più: strappare l’amministrazione e il controllo del sito al Waqf, l’ente che amministra i beni islamici, e di prendere possesso del luogo dove secondo la tradizione ebraica sorgeva il biblico Tempio. Negli anni ’80 e ’90 qualcuno sorrideva, parlava di «folklore politico», quando Gershon Solomon, leader del gruppo “Fedeli del Monte del Tempio”, invocava il «trasferimento» (di fatto la distruzione) in un altro luogo delle moschee di al Aqsa e della Roccia, e la costruzione del nuovo Tempio. Oggi quel progetto appare fattibile ai religiosi sionisti israeliani, non proprio quattro gatti, e non “folle” a una buona fetta della destra in giacca e cravatta. Le proteste palestinesi non sono mancate, a Gaza e in Cisgiordania, dal presidente dell’Anp Abu Mazen al premier Rami Hamdallah, dai leader di Hamas ai deputati arabo israeliani alla Knesset.
«Morbide però sono state le reazioni nel resto del mondo arabo-islamico» avverte Ghassan al Khatib «situazioni analoghe in passato avrebbero visto una risposta più forte da parte dei governi e delle popolazioni della regione. E questo dato incoraggia le autorità israeliane e gli estremisti a portare avanti progetti da tempo nel cassetto».
Il premier Netanyahu e il sindaco Barkat da parte loro ripetono che Israele garantisce i diritti di tutti a Gerusalemme. E a inizio mese non hanno mancato di sparare bordate pesanti contro gli alleati americani, colpevoli di aver criticato l’ingresso nel quartiere palestinese di Silwan di decine di famiglie di coloni israeliani. «Così come un arabo può comprare una casa di un ebreo, un ebreo può comprare una proprietà araba», aveva protestato battendo i pugni sul tavolo il premier Netanyahu.
Come la società Elad (l’immobiliare dei coloni) sia riuscita a comprare “legalmente” 26 appartamenti in otto edifici palestinesi di Silwan non è ancora chiaro. Si tratta di un “colpo” senza precedenti quello messo a segno il 30 settembre dai settler israeliani – nell’area dove secondo la tradizione biblica 3000 anni fa sorgeva la città di Re Davide – denunciato come fraudolento dai palestinesi. Allo stesso tempo l’accaduto scuote Silwan, gli interrogativi sono laceranti. Chi ha venduto ai coloni? Qualche giorno fa un 53enne, Said Qarain, è stato ucciso, in apparenza in una faida tra famiglie. Qualcuno però sussurra che l’omicidio sarebbe frutto del clima di tensione che si è creato per la vendita delle case occupate dai coloni. Il direttore del “Wadi Hilweh (Silwan) Information Center”, Jawad Siam, nega che ci sia stata una vendita diretta dei palestinesi ai coloni e sostiene che gli appartamenti sono stati acquistati da società statunitense, la Kendall, con la copertura di attività di beneficenza e poi passati ai settler. Il geografo ed esperto di Gerusalemme, Khalil Tufakji, invece invita a guardare in faccia alla realtà. I documenti, afferma, dicono che alcune famiglie hanno venduto le loro case agli israeliani. Con le ultime occupazioni, i coloni sono passati dal 3,5 al 18% del totale degli abitanti di Silwan. La conquista continua nel silenzio del mondo e tra non poche ambiguità.
da Nena News
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