Israele vuole Anan Yaeesh, l’Italia intanto lo fa arrestare
Il caso del 37enne palestinese, residente a L’Aquila, accusato da Tel Aviv di finanziare la Brigata Tulkarem. Via libera di Nordio, ora a decidere è la Corte d’Appello. I giuristi: torture e trattamenti disumani nelle prigioni israeliane. Il legale: «Non è estradabile per il rischio di violenze in carcere»
di Chiara Cruciati da il manifesto
Anan Yaeesh ha 37 anni, è palestinese, nato e cresciuto a Tulkarem nella Cisgiordania occupata. Il 29 gennaio scorso è stato arrestato all’Aquila dopo la richiesta di estradizione mossa dalle autorità israeliane. Negli anni della Seconda Intifada, Anan era un adolescente, attivo nella sua città. Ha scontato quattro anni di prigione, detenuto politico.
Nel 2013 ha lasciato la Palestina per l’Europa: la Norvegia, e poi l’Italia dove vive dal 2017. Negli ultimi giorni la sua storia è emersa, grazie al «Comitato per la liberazione di Anan Yaeesh», che oggi alle 18.30 terrà un’assemblea pubblica a Roma.
«LE ACCUSE non sono dettagliate – ci spiegano dal Comitato – Sulla base dello scarno documento inviato dalle autorità israeliane, il ministero della giustizia ha proceduto al fermo cautelare. Dal momento dell’arresto, le autorità israeliane hanno fino a 40 giorni di tempo per inviare la documentazione dettagliata: di cosa è accusato, sulla base di quale prove».
La richiesta di arresto provvisorio, accolta dal ministero, è arrivata alla Corte d’Appello dell’Aquila (la città dove risiede) che, con di fronte un ventaglio di misure cautelari, ha optato per la più restrittiva: l’arresto.
Nel documento visionato dal legale di Yaeesh, Flavio Rossi Albertini, si fa riferimento alla Brigata Tulkarem, uno dei gruppi armati nati in alcune città cisgiordane, difesa dalle incursioni dell’esercito: «Anan sarebbe accusato di aver collaborato alla creazione della brigata – spiega Rossi Albertini – Israele indica pochi fatti e nebulosi, tra cui il finanziamento del gruppo, almeno una somma funzionale ad azioni contro militari o civili israeliani. Qui sta la chiave, il termine “civili”. In realtà non esistono notizie di attacchi della brigata fuori da Tulkarem e dal suo campo profughi. Solo contro i militari dentro Tulkarem. Il diritto internazionale riconosce il diritto a resistere contro un’occupazione militare, atti che Israele considera terrorismo».
In ogni caso l’estradizione va sempre vietata, qualsiasi sia il reato, «se c’è rischio, come scrive la Cedu, di trattamenti inumani e degradanti e tortura. Il principio non può essere derogato». Da capire poi, aggiunge Rossi Albertini, «come sono nate le prove, come Israele le ha ottenute, se con interrogatori che violano gli standard giuridici europei, come la tortura e i trattamenti degradanti. La Corte dovrebbe chiedere un chiarimento. Va poi detto che la richiesta non giunge da un paese qualsiasi, ma da un paese in stato di guerra e con un caso internazionale pendente per genocidio. Questo elemento dall’ordinanza manca del tutto».
Un caso atipico, dicono dal Comitato: non si hanno notizie di richieste di estradizione di palestinesi mosse da Israele che non vengano ignorate. «Perché, oltre al piano giuridico, c’è quello politico: le violazioni dei diritti umani nelle prigioni israeliane. Sembra quasi una prova di lealtà chiesta all’alleato italiano, una forzatura per creare un precedente».
IL PRECEDENTE potrebbe rivelarsi pesante. Al di là del presunto reato, estradare un palestinese in Israele sarebbe giuridicamente impossibile: «A un’estradizione ci si può opporre per tanti motivi – ci spiega Fausto Gianelli, dei Giuristi democratici – Il primo, ovviamente più complesso, è politico: si potrebbe contestare la richiesta sulla base dell’esistenza di un diritto alla resistenza in territorio occupato. Ma il motivo più efficace è quello delle condizioni carcerarie: l’estradizione va rifiutata se nel paese, non necessariamente una dittatura o un regime illiberale, il detenuto rischia di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti, torture o condizioni disumane».
Dopo il primo via libera del ministro Nordio, ora la palla è passata alla Corte. Il governo però resta un attore: «Entrambi, sia il potere giudiziario che esecutivo, hanno il dovere di verificare le condizioni carcerarie nel paese in cui la persona verrebbe estradata. Il problema con Israele è enorme: i prigionieri palestinesi sono sottoposti a un regime giudiziario diverso, quello militare, e detenuti in prigioni diverse dagli israeliani, in condizioni assolutamente non rispettose degli standard riconosciuti da Cedu e Onu».
Gianelli cita l’ultimo rapporto del Consiglio Onu per i diritti umani, pubblicato a luglio 2023: «Il Consiglio scrive che le condizioni di detenzione sono assolutamente inadeguate. Cito: reclusione in celle sporche e sovraffollate, privazione di cibo e sonno, negligenza nemica, gravi percosse e altre forme di maltrattamento. E conclude: è stato riportato anche l’uso di tortura. Al di là dei reati contestati, sia il potere esecutivo che giudiziario devono rifiutare l’estradizione». Il rapporto precede il 7 ottobre. Da allora la vita in carcere è diventata un inferno, denunciano inchieste giornalistiche e ong: nove decessi, torture, visite mediche e familiari sospese, avvocati a cui è negato l’ingresso in carcere, privazione del cibo.
«In questo momento – conclude Gianelli – mandare un palestinese in quelle carceri significa esporlo a sicura violenza. Il ministro non avrebbe mai dovuto dare corso alla procedura. Dal punto di vista legale Yaeesh non è estradabile».
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