Mosul libera dall’ISIS cade nelle mani dei predoni di Baghdad. Commento di Davide Grasso ex-combattente YPG
Oggi tutti i governi del mondo, Gentiloni in primis, si congratulano con il premier iracheno Al-Abadi per la riconquista di Mosul. Io invece non me la sento di felicitarmi con la popolazione di Mosul, proprio perché a vincere non è stata lei, ma Al-Abadi. Contro un governo analogo nella sostanza la città era insorta nel 2013, nella grande piazza Tahirir, affrontando esercito e polizia dell’allora premier Al-Maliki, in solidarietà con la legittima Intifadah irachena avviata da Falluja e Ramadi. Dopo la repressione, i clan, già organizzati in milizie, decisero per la secessione e accettarono – scelta sciagurata – la protezione dell’Isis, fino ad allora in Iraq un forte gruppo clandestino. Oggi il popolo di Mosul, disperso per l’Iraq e con la sua città rasa al suolo, paga quella scelta forsennata, che neanche la legittima lotta contro il governo avrebbe dovuto giustificare. Ma la vittoria dello stato iracheno è una restaurazione, non una liberazione e come tutte le restaurazioni è fragile e non può durare. Il governo iracheno non ha un progetto politico diverso da quello che fu cacciato dalla città. Per condurre la battaglia si è servito delle milizie radicali interne ad Hashd al-Shaabi, null’altro che un Isis sciita. I crimini commessi contro i civili sunniti da queste milizie in questi nove mesi non possono essere conosciuti, perchè Al-Abadi ha impedito ai giornalisti di accedere alle zone davvero calde, commettendo una violazione storica del diritto d’informazione che nessun giornalista, mi risulta, ha finora ritenuto di denunciare pubblicamente. Il problema non è la guerra. La guerra è necessaria. Ma se una cosa atroce come la guerra deve essere accettata per sradicare un’entità inaccettabile come Daesh, almeno sia per una rivoluzione, per un cambiamento che renda socialmente più difficile il ritorno e la propagazione di quel male, e non per imporre nuovamente il potere tronfio di un’accozzaglia di predoni, contestati da oltre un anno, ormai, anche dalla popolazione sciita del sud, e rappresentazione di un ceto politico così impresentabile da riuscire a far apparire i criminali di Daesh, a molti musulmani nel mondo, come sconfitti in una resistenza eroica contro un avversario mosso soltanto dall’avidità.
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