Natale in Palestina, tra nuovi attacchi e lotta quotidiana
La notte della vigilia di natale, Hala Abu Sbeikha, una bambina di tre anni, è stata uccisa da un “attacco mirato” che ha colpito il campo profughi dove viveva con la sua famiglia, nella Striscia di Gaza. Una decina i feriti di una serie di attacchi aerei che, da due giorni, colpiscono la Striscia, alla volta della distruzione di non ben precisate fabbriche di armi.
Hala è stata colpita da un attacco messo in campo come risposta all’uccisione di un membro dell’esercito israeliano sembra, ucciso durante un attacco di una milizia palestinese. Dopo questo fatto, le cui dinamiche non sono ancora chiare, uno dei tanti “attacchi mirati” che, messi in campo dall’aviazione israeliana, sempre più spesso sbagliano mira e vanno a colpire vite innocenti.
Servirebbero, a detta sionista, ad abbattere i “terroristi” e la loro rete di supporto. Obiettivi che si trovano nei cortili delle case, nelle scuole, nelle prigioni, nei campi profughi, in tutti gli ambiti legati alla vita quotidiana.
Ciò che gli attacchi israeliani, aerei o di terra, vanno a colpire è invece tutta una popolazione, colpevole di supportare la resistenza contro l’occupazione militare. Una lotta che assume varie forme e, spaziando da una resistenza culturale ad una militare, rappresenta nient’altro che un popolo che lotta per i propri diritti. Una resistenza supportata da tutti coloro che, nelle città, nei villaggi e nei campi profughi, in Palestina e in Diaspora, lottano quotidianamente per l’autodeterminazione.
Una realtà molto diversa da quella discussa da Abu Mazen con un Kerry, dalla leadership moderata dell’ANP che, nei salotti israeliani, accetta di sottomettersi sempre di più, di svendere i diritti del suo popolo per una pace fasulla e ipocrita, ben descritta dalle belle parole dell’ambasciatore USA di turno. Parole come “pace”, “negoziati”, altro non sono che una pacificazione forzata messa in campo a suon di espropriazioni, normalizzazioni e continui soprusi.
Proprio oggi è stata annunciata la costruzione di altre centinaia di insediamenti sui territori occupati, da parte dello stato israeliano che agisce spalleggiato dagli USA in barba alle convenzioni internazionali. Ancora questa mattina, per far spazio agli insediamenti, le forze militari hanno distrutto, per la sessantatreesima volta, il villaggio di al-Araqib, nel deserto del Negev.
Demolizioni, espropriazioni, espulsioni, insediamenti, e non si fermano gli arresti e gli scontri. Solo nella giornata di ieri 17 sarebbero i giovani palestinesi arrestati da nord a sud della Palestina, molti sono stati i feriti nei pressi di Tulkarem, durante scontri nati a seguito di una delle tante incursioni israeliane che, a colpi di carri armati e coprifuoco, terrorizzano città e villaggi.
Questo Natale, come del resto avviene da oltre 65 anni, mostra una Palestina fatta di repressione, ma anche di lotta e di resistenza.
Lo si vede nella vita quotidiana, lo si vede passando dalla celebre piazza della chiesa della natività di Betlemme. Di fronte a quella chiesa, dove si dice sia nato Gesù, un albero di natale racchiude le speranze del popolo palestinese. Attaccate ai rami dell’albero ci sono letterine in cui i bambini ricordano padri o fratelli morti in combattimento, uccisi durante le Intifada o per uno degli “attacco mirato” sbagliato. E ci sono decine e decine di proiettili e gas lacrimogeni di fabbricazione USA, sparati dai soldati israeliani in un vicino campo profughi, poi raccolti e attaccati all’albero come decorazione.
Lo si vede nei profughi di seconda o terza generazione, che mai hanno potuto vedere la loro terra, ma che giornalmente lottano per tornarci. Nella terra dei propri avi, nell’Al-Aqsa imbiancata dalla neve, quelle immagini sfuocate da check-point, da carri armati, da confini artificiali e militarizzati, da soprusi e violenze quotidiane.
Lo si vede negli occhi dei bambini che vengono arrestati all’ingresso della scuola, alla fine di un tragitto tra coloni arroganti e check-point, nei bambini in prigione, nello sguardo incredulo di Muhammed di soli quattro anni (nella foto), contro cui poche settimane fa era stato emanato un ordine di arresto, segno della fobia scellerata israeliana.
Lo si è visto, ieri, durante i funerali di Hala, quando migliaia di palestinesi scesi nelle strade di Gaza per ricordare la bimba di quattro anni adesso diventata anch’essa martire e simbolo della lotta.
Una lotta che, in tutte le sue forme, continua a pretendere giustizia – autodeterminazione, diritto al ritorno, in uno stato unico – una giustizia senza cui nessuno si darà pace, e senza il cui raggiungimento non ci sarà alcuna pace.
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