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Sulaimaniya contesta Barzani, scatta la repressione


Chiara Cruciati Il Manifesto

Sulaimaniya è altro rispetto ad Erbil. Centro liberale del Kurdistan iracheno, è la città delle opposizioni al sempreverde presidente Barzani, la città della cultura popolare e delle voci critiche.

Da qui è partita l’ondata di proteste che prima ha imbarazzato il Kdp, il partito di Barzani, e poi ha giustificato la dura repressione della polizia. A monte la rabbia per una crisi economica pagata solo dai ceti medio-bassi, ma che non scalfisce le ricchezze accumulate dall’élite politica ed economica. Una crisi giustificata con la lotta all’Isis e l’arrivo di due milioni di profughi e imputata unicamente al governo centrale di Baghdad. Ma dietro c’è altro: il nuovo protagonismo kurdo che sfrutta l’avanzata islamista sia per far tacere le opposizioni che per ampliare i confini, strategia a cui reagiscono le milizie sciite che aprono il fuoco contro i peshmerga a Kirkuk e l’esercito iracheno, impegnato a Ramadi. Ieri la presa da parte governativa del Ponte Palestina ha tagliato del tutto la via dei rifornimenti all’Isis arroccato nel capoluogo dell’Anbar.

«Le manifestazioni di protesta non sono nuove – spiega al manifesto Kamal Chomani, giovane organizzatore dei sit-in a Sulaimaniya – Saddam le aveva frenate, era una minaccia più seria rispetto all’autoritarismo del governo kurdo. Ma oggi l’assenza di riforme socio-economiche ha fatto da miccia. All’inizio in piazza sono scesi insegnanti e dipendenti pubblici, che chiedevano i salari, bloccati da 3 mesi. Poi si sono uniti giovani e cittadini, furiosi con Barzani, ancora sulla poltrona nonostante il mandato sia scaduto».

Una scintilla e la protesta è esplosa: all’inizio di ottobre alcuni insegnanti hanno organizzato un sit-in di fronte all’hotel, a Sulaimaniya, dove si trovavano rappresentanti del governo. La polizia ha impedito loro di entrare nell’albergo. Poche ore dopo, a Erbil, i dipendenti della sanità sono entrati in sciopero. In pochi giorni l’intero Kurdistan ha aderito: migliaia di persone sono scese in strada a Kaladize, Kelar, Pencewin, Halepce. Nel mirino sono finiti i simboli del potere tentacolare di Barzani, gli uffici dell’Kdp: manifestanti hanno dato fuoco alle sue sedi, altri a quelle dei partiti islamisti Komal e Yekgirtu.

La polizia non ha tardato a soffocare le proteste. Al suo fianco uomini armati, miliziani del Kdp, che attaccavano i manifestanti a bordo di pick-up. Cinque morti e 200 feriti il bilancio finale, prima che la rabbia popolare fosse repressa nel sangue e il governo lanciasse la sua personale rappresaglia. I ministri del partito Gorran (“Cambiamento”) sono stati cacciati, al presidente del parlamento è stato impedito di raggiungere i suoi uffici, divieto che vige tuttora. Raid anche contro la stampa: le reti tv Nrt e Knn, vicine alle opposizioni, sono state chiuse e ora trasmetteno da Sulaimaniya, dove il Kdp non esercita il potere di cui gode a Erbil.

«I disordini scoppieranno di nuovo – aggiunge Kamal – Le riforme per redistribuzione della ricchezza e maggiore trasparenza nel budget pubblico non sono in agenda, la disoccupazione giovanile sfiora il 50%. Migliaia di laureati non trovano lavoro se non tramite il capillare sistema clientelare di Kdp e Puk. Barzani controlla tutto: peshmerga, polizia, affari esteri, petrolio».

La tensione è palpabile, sono in tanti ad additare le strette relazioni tra potere economico e politico: tra le altre, la famiglia Barzani possiede direttamente o controlla in modo occulto Korek Telecom, la principale compagnia di telecomunicazioni; la compagnia aerea Zagros Jet; Rudaw, società commerciale che possiede emittenti tv e giornali.

I tentacoli del sistema risucchiano quasi ogni aspetto della vita politica ed economica del Kurdistan, fiaccando la popolazione, già sotto pressione per l’avanzata di Daesh. Entriamo nella sede di Sulaimaniya della tv Knn, vicina al partito Gorran. Yassin Omar, analista, ci accoglie nel suo ufficio: «Diversi fattori hanno condotto alle proteste – spiega al manifesto – La recessione economica, la pressione psicologica dovuta all’Isis, l’autoritarismo del governo. Il Kurdistan è sull’orlo di un grave scontro interno tra fazioni politiche».

«Il Kdp usa a proprio favore tale caos. La crisi economica è prefabbricata perché le risorse economiche non mancano: il greggio, che ora vendiamo senza passare per Baghdad; l’ingente flusso di esportazioni e importazioni; il contributo degli sfollati, nuovi consumatori che spendono nel nostro mercato. Nessuno conosce le reali entrate derivanti dalla vendita di greggio, ma parliamo di almeno 750mila barili al giorno. È vero che il prezzo è sceso, ma una simile quantità basta a coprire le spese interne».

Resta, alla porta, la minaccia del “califfato”, anche questa – dice Omar – abilmente sfruttata: «Se non ci fosse Daesh, le proteste sarebbero proseguite. Kdp e Puk non avrebbero potuto nascondere sotto la sabbia l’ingiustizia sociale che regna in Kurdistan. Vivono nel lusso, quando la gente non arriva alla fine del mese. Costringono la società in un sistema tribale e clientelare che impedisce uno sviluppo democratico».

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