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Dal modello del supermercato al modello della biblioteca pubblica: la necessità di nuove utopie.

Pubblichiamo il contributo del comitato Salviamo gli Alberi di Corso Belgio in vista della mobilitazione contro il G7 Ambiente e Energia. Il testo si propone di tracciare delle linee per una transizione ecologica ed energetica dal basso, proponendo una visione lucida nei confronti della fase che stiamo vivendo.

La transizione ecologica che viene proposta dall’alto è iniqua. Anche perché è iniqua – l’ecologia, per definizione, non lo è – non è una vera transizione ecologica.

La vera transizione ecologica non si limita a sostituire alle energie fossili quelle rinnovabili (e innanzitutto bisogna intendere bene quali sono le fonti rinnovabili: per esempio non è rinnovabile l’energia nucleare e non è rinnovabile il legno, che sta venendo depredato dagli alberi dei viali, dai giardini pubblici, dai boschi e persino dai parchi regionali e nazionali, per essere bruciato nelle centrali a biomasse o come pellet). Sostituire in ragione di uno a uno le automobili a benzina o a diesel con automobili elettriche non è una transizione ecologica, così come non lo sarebbe generare con pannelli fotovoltaici o turbine eoliche la stessa quantità di energia che si produce ora con combustibili fossili. Per essere ecologica, la transizione impone un ripensamento radicale dei consumi energetici e dei loro utilizzi, ossia una revisione di tutte le attività per cui noi utilizziamo energia. Eliminando spietatamente tutte le attività inutili e limitando al necessario quelle utili. Soltanto a valle di questa analisi, determinata quanta energia ci serve realmente e messi in atto accorgimenti per evitarne sprechi, potremo progettare gli impianti a energie rinnovabili che occorrono.

È palese che ripensare le nostre attività comporta uno sconvolgimento epocale dell’economia e della società. È la fine del capitalismo, ma va persino oltre, perché investe la politica e l’organizzazione statale. È possibile? Ci sarà consentito arrivare a tanto? Probabilmente no, ma è indispensabile che la nostra mente sia occupata nell’elaborazione di un nostro progetto, per non essere colonizzata da quello altrui. Se respingiamo il modello sociale ed economico attuale e il suo ulteriore sviluppo, che è quello che si vorrebbe calare dall’alto per esempio attraverso il G7, dobbiamo per forza immaginare e prevedere noi, il più possibile nel dettaglio, non solo la direzione in cui vogliamo andare, ma gli obiettivi che vogliamo raggiungere.

Una vera transizione ecologica significa necessariamente riduzione, limite, rinuncia. Giunti al punto in cui siamo, non possiamo sottrarci al dovere di eliminare il superfluo. Il peso di tutti gli esseri viventi sulla Terra, quando nacque mia nonna, nel 1901, era 100 volte superiore a quello dei manufatti umani. È il 2024, e in meno di 125 anni il rapporto si è più che invertito: se mettiamo su un piatto della bilancia tutta la Vita presente oggi sulla Terra da una parte e il cemento, la plastica, i fabbricati e i prodotti umani dall’altra, ciò che è vivente tutto assieme pesa meno di un centesimo della roba fabbricata dall’uomo. Non solo abbiamo prodotto moltissimi oggetti, ma abbiamo ridotto moltissimo le specie viventi. Questo dato, preso da solo, fa già capire che la situazione è gravissima: e senza menzionare l’inquinamento, il consumo di suolo, il cambiamento climatico e gli altri aspetti della crisi in corso.

Sappiamo che la ricchezza è concentrata nelle mani dell’1% della popolazione mondiale. È sicuramente iniquo che sia questo 1% della popolazione mondiale, attraverso il suo dominio sulla politica, a imporre al 99% le condizioni della transizione ecologica. È iniquo che la definizione stessa di ‘transizione ecologica’ sia stabilita (e pervertita) da questo 1%, ma dobbiamo anche comprendere che noi che siamo il 99% non siamo innocenti rispetto alla devastazione ambientale. Pesiamo anche noi sul pianeta, e se ci chiamiamo fuori dall’egoismo dell’1% della popolazione, abbiamo la responsabilità – parola che significa proprio anche “portare il peso delle cose” – di fare tutto il possibile per evitare la catastrofe, e quindi di decidere noi quali riduzioni, limiti, rinunce dobbiamo fare equamente tutti (anche l’1%, con i suoi aerei privati, le sue piscine e tutto il resto).

Quindi, se per esempio certamente non è né davvero ecologico né equo che si imponga a tutti di dotarsi di un’auto elettrica, la cui produzione impatta sull’ambiente e che non è alla portata di tutte le tasche, è però indubbio che la mobilità privata (del 100% degli esseri umani) debba subire delle limitazioni. Che siano elettrici o con un motore a scoppio, un miliardo e mezzo di veicoli (dato stimato da una società di ricerca) è un numero evidentemente non sostenibile. Così come non lo è il dato di oltre 100.000 viaggi aerei al giorno. Via mare, ogni anno si spediscono 250 milioni di container in circa 200.000 viaggi (e in media 1.500 cassoni metallici finiscono sott’acqua), oltre agli altri trasporti marittimi non quantificati.

Quindi dobbiamo ridurre i nostri spostamenti di persone e cose a quelli indispensabili, usando le gambe e la bicicletta per quelli brevi e i mezzi pubblici per quelli a lungo raggio. Le città a 15 minuti, in cui ciascuno avesse a portata di gamba o di biciclo tutti i servizi, sarebbero un’ottima cosa, ma sono invece lontanissime dall’essere reali: perciò smettiamo di temere di venire chiusi in recinti, quando la realtà è che se abbiamo bisogno di fare una visita specialistica e non possiamo permetterci di andare da un medico privato, ci viene dato un appuntamento in un’altra città sei mesi dopo. Perché è questo che accade, in questa Regione e in questo Paese. Si diffonde la paura di essere costretti a vivere nel nostro quartiere, quando lo smart working è stato quasi del tutto smantellato anche per il settore pubblico e ci sono 33 milioni di pendolari. Al sistema attuale, che vuole continuare a esistere e a crescere, interessa che noi ci spostiamo, perché spostamento significa consumo. Per esempio la foodification di Torino, la trasformazione di un quartiere dopo l’altro in un campionario di ristoranti pizzerie trattorie enoteche piadinerie pub birrerie kebabbari ecc. implica che veniamo indotti a uscire, a portare a spasso lo stomaco, a sperimentare il poke la pinsa il sushi. Prima di entrare in modalità “terrore”, ragioniamo sulla realtà delle cose, per esempio sul fatto che ci sono impiegati amministrativi di Santhià che lavorano a Santena e viceversa. Il sistema attuale non è razionale, e sarebbe necessario razionalizzarlo, ma non aspettiamoci (e tanto meno temiamo) che a farlo sia il sistema stesso.

La produzione di beni è stata in gran parte delocalizzata e questo comporta più trasporti di merci con il relativo inquinamento e le relative emissioni. Ma gran parte di ciò che si produce è inutile. Ogni anno restano invenduti 60 miliardi di capi di abbigliamento. L’economia circolare è un miraggio lontano: la maggior parte degli oggetti che compriamo, dopo essere stati utilizzati per un certo periodo diventano rifiuti. Quasi sempre acquistiamo dei rifiuti (l’imballaggio e lo scontrino) insieme all’oggetto che ci interessa. Ci sono articoli monouso, oppure usa e getta, che diventano rifiuti pochi minuti dopo l’acquisto, e questo è scandaloso. Ma ci sono addirittura oggetti, come i 60 miliardi di capi di abbigliamento di cui sopra, che passano dalla fabbrica alla discarica o all’incenerimento. Come si può definire questo, se non follia?

E poi ci sono le guerre, a confermare la totale insania di Homo Sapiens. L’economia della guerra consiste nella produzione, nel commercio, nel trasporto e nell’utilizzo di mezzi (e persone) per la distruzione di esseri umani e non umani nonché di manufatti. Non si può essere ambientalisti ed ecologisti e approvare la guerra: qualsiasi guerra. A prescindere dalle ragioni di una parte o dell’altra, considerato che anche nella situazione più evidentemente sbilanciata a favore di una fazione ci sarà sempre anche qualche piccola ragione dall’altra, nel 2024 dopo Cristo la guerra deve essere confinata a una memoria storica! Nessuna guerra è mai stata dichiarata democraticamente da un popolo. Nessun popolo ha mai votato: facciamo la guerra, sì o no. Le guerre vengono seminate dall’alto, da sempre più in alto e da sempre più lontano nel tempo e nello spazio, e alacremente coltivate. Finché la decisione di dichiarare guerra o di partecipare a una guerra non è nelle mani del popolo, la vera democrazia non esiste. Che nella Costituzione italiana si affidi la deliberazione di guerra alle Camere e la dichiarazione al Presidente della Repubblica, è un grave errore. I padri costituenti pensarono che l’art. 11, uno dei principi fondamentali della Carta, contenente il ripudio della guerra, sarebbe stato un baluardo sufficientemente robusto contro il coinvolgimento dell’Italia a nuovi conflitti. Ripudiando la guerra anche come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, l’art. 11 indirizza lo Stato italiano a entrare nei conflitti altrui soltanto con la diplomazia, per ristabilire la pace. Ma quel principio fondante è stato calpestato più volte (nel 1999 quando sotto il governo D’Alema ci unimmo al bombardamento di Belgrado, nel 2022 quando Draghi stabilì di inviare armi all’Ucraina, posizione ribadita dal governo attuale, che fino a febbraio non si è adoperato neanche per il cessate il fuoco in Palestina).

Ridefinire la democrazia e la partecipazione è dunque indispensabile alla possibilità di attuare una vera transizione ecologica.

Per quanto riguarda il cibo, delegarne totalmente la produzione porta alle aberrazioni che conosciamo: la monocultura, gli allevamenti intensivi, la grande distribuzione organizzata e le sue storture. Porta anche alla produzione di imballaggi che diventa filiera e preme per il riciclo anziché per la riduzione o l’eliminazione. Ma il riciclo di milioni di imballaggi significa un enorme consumo di energia. Quindi almeno una parte del cibo dovrebbe essere autoprodotto dalle/presso le singole comunità, in orti diffusi, collettivi, comuni, il più possibile di prossimità (quasi a metri 0).

Quanto al resto dei prodotti, la loro distribuzione non dovrebbe avvenire per compravendita in un supermercato, ma in centri con funzionamento simile alle biblioteche pubbliche. Magazzini dove prendere gli oggetti per il periodo in cui ci sono utili e restituirli quando non servono più. Se il magazzino pubblico non ha una lavatrice disponibile da darmi quando mi serve, la chiede agli altri magazzini. La produzione di nuovi articoli dovrebbe avvenire secondo necessità.

Il sistema oggi globalizzato invece ci permette di acquistare indispensabili decorazioni a forma di farfalla per unghie finte, prodotte nella Repubblica Popolare Cinese da qualche operaio schiavizzato, e di farle viaggiare fino a casa nostra, al modico prezzo di tre euro e dell’estinzione definitiva delle farfalle monarca e di altre specie meno glamour.

Dalla limitazione della produzione conseguirebbe la riduzione del lavoro: e così sia. Meglio eliminare il lavoro collegato ai processi che consumano inutilmente risorse e inquinano, che conservarlo e assegnarlo alle macchine. Le nuove macchine che sostituiscono i lavoratori umani non ricevono stipendio e non vanno in ferie: mangiano però moltissima energia e non pagano le tasse e i contributi, indebolendo il welfare. Così il sistema attuale resta in piedi e diventa ancora più iniquo. Noi non abbiamo bisogno di nuove macchine che progettino e producano altre macchine e oggetti: abbiamo bisogno di meno macchine e di meno oggetti. Il sistema delle cosoteche pubbliche, chiamiamole così, sostituisce i cassieri con magazzinieri umani e abolisce in toto i supermercati. Comporta la riduzione del lavoro superfluo, legato alla produzione di manufatti in eccedenza al fabbisogno e alla produzione dei relativi imballaggi. Ogni persona sarà chiamata invece a svolgere servizi di cura e di manutenzione di persone, animali, piante, luoghi, oggetti, informazioni, relazioni, nonché per le produzioni residue. A fronte di tali servizi potrà ricevere un reddito commisurato alle sue necessità, entro un tetto minimo e massimo, a meno che non si voglia difendere un sistema dove in cima alla piramide si guadagna 750 volte più che alla sua base. Inoltre si potrà usufruire dei beni distribuiti dalle cosoteche. Punto di arrivo potrebbe anche essere l’abolizione di tale reddito, e lo scambio di servizi in cambio di altri servizi, organizzato dalle comunità.

Comunità che vanno pure ripensate, armonizzando i livelli amministrativi, dal locale all’internazionale, in modo che se per esempio al piano più alto si definiscono limiti stringenti per le emissioni di un inquinante, la norma sia davvero rispettata fino al livello comunale. Indispensabili a tutti i livelli le assemblee dei cittadini, da affiancare se non sostituire agli organi elettivi, e le cui decisioni siano vincolanti. Indispensabile, in sostanza, ripensare e riempire di contenuto la parola ‘democrazia’ che oggi è demowashing.

Nel corso dei secoli sono state scritte utopie e distopie, ma in tempi recenti le seconde hanno superato in numero e pregnanza le prime. È importante, a questo punto, rovesciare anche questo bilancio. Abbiamo bisogno di raffigurarci come e dove potrebbero andare le cose, diversamente da come e dove stanno andando adesso: rapidamente e irrazionalmente verso il baratro.

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