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Terre Alte in alto mare: la devastazione non conosce altitudini.

Abbiamo partecipato al seminario organizzato dal collettivo Ecologia Politica a Torino e abbiamo preso qualche appunto per conservare i preziosi spunti usciti in quella sede..

Nell’ambito degli eventi di avvicinamento al G7 Ambiente ed Energia organizzati da Ecologia Politica e dai comitati ambientalisti torinesi, questo primo appuntamento vuole accendere un faro sulla situazione di aggressione agli ecosistemi alpini che già da diversi decenni, sull’onda del boom turistico invernale, sta radicalmente trasformando i territori montuosi in “divertimentifici” artificiali, stravolgendo da un lato gli assetti naturali a colpi di invasivi impianti di risalita, opere per la produzione di neve artificiale (sempre più energivori) e cementificazione selvaggia, dall’altro modificando anche gli aspetti socio- culturali nelle valli alpine.

Tutto questo continua ad accadere anche oggi, nonostante gli evidenti limiti che il Global Warming sta imponendo al turismo dello sci, con uno zero termico che inesorabilmente ad ogni inverno veleggia sempre più in alto, rendendo sempre più effimera la permanenza al suolo del manto nevoso naturale sotto i 2000 metri di quota e vanificando spesso anche la produzione di neve “programmata”, rendendo insostenibile questo modello da ogni punto di vista, sia esso economico, ambientale, culturale.

Proprio da qui parte l’intervento di Maurizio Dematteis, che descrive come a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, vada in crisi totale il precedente modello economico di sussistenza montana, con lo spopolamento delle terre alte, corroborata dalla forte tendenza all’inurbamento delle popolazioni alpine, richiamate nelle grandi città padane dallo sviluppo industriale. Si realizzano in questo modo le premesse utili all’insediamento delle prime grandi stazioni sciistiche (viene citato l’esempio di Sestrières e Cervinia) che introducono un nuovo aspetto del turismo di massa, con una pressione antropica sulle valli interessate che nei decenni va oltre il limite, con tutto ciò che ne consegue, anche in termini di impatto ambientale.

Si innesca, per dirla con il sociologo Aldo Bonomi, una forma di “fordismo alpino”; si impone il modello della “città in montagna”.

Se fino a qualche decennio fa la dimensione di questo turismo poteva dirsi “di massa”, più di recente esso ha assunto sempre più un un carattere decisamente elitario. Le stesse ragioni climatiche creano un solco tra stazioni di alta quota attrezzate e con maggior durata della stagione con innevamento, e quelle a quote inferiori e di dimensioni ridotte che tendono a scomparire.

Le grandi stazioni sciistiche superstiti, sempre più infrastrutturate richiamano ora una clientela globale, l’unica che si può permettere i prezzi di un soggiorno in queste località divenute esclusive.

La tendenza al riscaldamento non mette tuttavia al riparo nemmeno queste stazioni di élite e le proiezioni degli scenari climatici mostrano come la pratica dello sci nei prossimi 2 decenni sarà sempre più confinata in comprensori e versanti via via più elevati, rigorosamente esposti a settentrione. Di questo sono consapevoli i gestori delle stazioni sciistiche, i quali tuttavia non rinunciano affatto a sfruttare fino all’ultimo questo modello economico di per sé già condannato, non pensando ad una seria rimodulazione dell’offerta turistica.

In questo contesto si inseriscono, all’opposto, le grandi operazioni di marketing per l’ulteriore promozione internazionale, attraverso i grandi eventi, prime fra tutti le olimpiadi invernali.

Contrapposto a questo paradigma, nascono localmente nelle Alpi (ma anche negli Appennini) realtà che lanciano un messaggio di speranza, per una nuova cultura del turismo a misura d’uomo in montagna, fatto di offerta diversificata, riscoperta delle tradizioni valligiane, recupero degli ambienti naturali, ripopolamento delle borgate.

Di questo argomento parla Emilio Delmastro di Pro Natura Torino, forte anche della sua esperienza pregressa di lotta contro gli insediamenti sciistici che alla metà degli anni ’70 furono ipotizzati nella Val Chisone (TO) presso il comune di Usseaux. In quegli anni di fortissimo boom edilizio ci fu chi, cavalcando l’onda, propose la creazione di un nuovo comprensorio sui pendii di Pian dell’Alpe.

Il gruppo di attivisti ambientali di cui faceva parte Emilio Delmastro, attraverso una campagna di convincimento “porta a porta” con la popolazione residente riuscì a contrastare le lusinghe capitalistiche d’alta quota che facevano leva sulla promessa di sviluppo economico e occupazionale in valle, tanto che alle prime elezioni comunali fu eletto un Sindaco che mise una pietra tombale sul progetto. Oggi Usseaux (con le sue frazioni) è unanimemente riconosciuto come uno dei borghi alpini più belli e più curati d’Italia.

Pian dell’Alpe

Viene poi citato un altro esempio mirabile nelle valli piemontesi, in questo caso di recupero, relativo ad una una borgata destinata al totale spopolamento ed abbandono fino a non moltissimi anni fa: Ostana, in Valle Po, alle pendici del Monviso. Qui il Sindaco Lombardo e successivamente la sua vice, diventata a sua volta Sindaca, riescono a trasformare Ostana in un borgo recuperato dal punto vista edilizio, nuovamente attrattivo anche per i giovani, preservato dal turismo di massa e valorizzato.

Delmastro giunge poi ad anni più recenti, toccando il tema del grande scempio compiuto con le Olimpiadi invernali Torino 2006. Pro Natura concentrò in quel periodo il suo impegno nel cercare di limitare i danni e qualche risultato lo ottenne però maggiormente sull’impiantistica cittadina, evitando la costruzione di un nuovo palazzetto in area Continassa, dirottando sull’utilizzo dell’Oval al Lingotto, per le gare di pattinaggio di velocità (purtroppo, questione del debito torinese a parte, i lasciti peggiori, praticamente irreversibili, sono proprio quelli che plasticamente campeggiano ancora oggi nelle valli, con gli impianti abbandonati di salto a Pragelato e bob a Cesana, ndr).

Delmastro chiude il suo intervento con un appello per la riacquisizione da parte della montagna, della sua vocazione e del valore del territorio.

Nel successivo intervento Luigi Casanova, membro di Mountain Wilderness, ci porta, dal suo osservatorio, ad allargare lo sguardo sulle nostre Alpi orientali.

La recente vicenda dell’assegnazione a Cortina delle Olimpiadi invernali 2026 ha attirato l’attenzione di tutti in particolar modo per la famigerata pista da bob, ma è tutto l’evento olimpico ad avere un impatto davvero profondo sull’ecosistema bellunese per la mole di investimenti infrastrutturali che stanno arrivando sul territorio.

La critica è rivolta a tutti gli attori e decisori: dal CIO (che impone standard di infrastrutture sportive iperdimensionate) alla politica locale così come quella nazionale. Uno dei leitmotiv è la non volontà di utilizzo degli impianti esistenti: così come era successo a Torino 2006 con l’opposizione all’utilizzo degli impianti di salto/bob savoiardi di Albertville/La Plagne, già utilizzati nel 1992, così anche qui il governatore Zaia rifiuta le strutture di Innsbruck, distante da Cortina 95 km.

Le amministrazioni locali appaiono molto “recettive”, rispetto alla pioggia di investimenti che il grande evento comporta in termini di viabilità stradale. Il “modello Ostana” appare non sempre riproducibile visto dall’alto Veneto, sia per la peculiarità del genius loci, sia per la pressione economica che l’evento olimpico rappresenta in questi anni di avvicinamento a Cortina 2026. La quantità di investimenti nel solo Bellunese è ingente: 1,5 miliardi prevalentemente ripartiti tra strade, autostrade e impianti sciistici/sportivi.

Il caso della pista di bob/slittino è emblematico per sperpero di denaro e per il suo impatto ambientale: a fronte di un investimento pari a 128 milioni si disbosca un intero versante costituito da 500 larici secolari, si cancella un’area ricreativa, inclusi 5 campi da tennis preesistenti. La procedura viene attuata attraverso commissariamento, evitando processo decisionale partecipato e anche la VAS (Valutazione Ambientale Strategica).

Larici a Cortina d’Ampezzo

Sugli impianti di collegamento sciistico d’alta quota tra valli adiacenti si innesta invece un meccanismo di partenariato pubblico-privato, in cui lo Stato e Regione mettono una cospicua parte dell’investimento, suddividendo la spesa con il privato (Dolomiti Superski, che grazie al contributo statale amplia ulteriormente il domaineskiable), ma con la successiva manutenzione che rimane a carico dell’ente pubblico.

Anche la Valtellina lombarda viene coinvolta in questa pioggia olimpica di danaro ed è così che anche tra Bormio e Livigno viene realizzato un nuovo invasivo collegamento sciistico d’alta quota, anch’esso con il sistema del partenariato pubblico-privato.

Luigi Casanova enfatizza come Cortina 2026 rappresenti una sintesi del peggio di un evento olimpico invernale: la politica che ragiona con logiche del passato, per nulla condizionata dal Riscaldamento Globale in atto. Anche in montagna non si vuole modificare il modello economico. A fronte di tutto ciò purtroppo la mobilitazione popolare che si oppone è marginale: le manifestazioni indette dal comitato contro la pista da bob vedono spesso la presenza di non più di 20-30 persone…

Casanova conclude tuttavia con qualche nota più ottimistica: una nuova visione della montagna alpina si sta coagulando intorno al CIPRA (Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi) che terrà prossimamente la sua assemblea a Nova Gorica (SLO). Inoltre anche nelle Alpi orientali vi sono esempi di mobilitazione contro opere ad elevato impatto ambientale che portano a successi insperati: è il caso della Valle del fiume Vanoi, in Trentino, dove i consorzi agrari locali han tentato di promuovere la creazione di un grande invaso con sbarramento per l’approvvigionamento idrico delle aree di alta pianura. L’opposizione dei comitati locali è riuscita a far desistere dal progetto, sebbene vi siano ciclicamente nuove riproposte di attuazione della grande opera. Lo sfruttamento della montagna a vantaggio della pianura è uno dei temi che creano forti cesure tra montagna e pianura/città.

Si ritorna sulle Alpi occidentali (questa volta sul versante savoiardo) con l’ultimo intervento di Monique, attivista del Collettivo “La Cluzad”.

Foto da Reporterre.net “Un soulagement: la zad de la Clusaz fait suspendre les travaux”

Il nome deriva dal luogo (La Clusaz, Haute-Savoie, FR) ove, sotto la spinta dell’industria sciistica si era proposta la realizzazione di un grande bacino artificiale d’alta quota (8 ettari) immerso in un bosco di conifere, alimentato da un energivoro sistema di pompaggio dalle sorgenti nella parte bassa della valle, destinato alla produzione di neve artificiale per i vicini versanti del comprensorio. Il Collettivo si attiva con la messa in atto di una coraggiosa occupazione h24 del bosco (la cosiddetta Zone à défendre, ZAD), nonostante le difficoltà imposte dall’ambiente invernale in altitudine. Prima un’occupazione di 15 giorni, il parallelo avvio del ricorso in sede giudiziaria, poi un’ulteriore occupazione di addirittura un mese, mentre non mancano le minacce da parte di personaggi vicini agli interessi dell’industria turistica. Alla fine, sotto la spinta della protesta, arriva la definitiva moratoria al progetto da parte dello stesso Sindaco di La Clusaz, con la vittoria del Collettivo.

Foto da Reporterre.net “Un soulagement: la zad de la Clusaz fait suspendre les travaux”

Il caso di La Clusaz non è isolato, ma rappresenta una pratica diffusa oltralpe, sia per la produzione di neve artificiale che per scopi irrigui sugli alti pascoli: è il modello delle Retenuescollinaires, del tutto insostenibili dal punto di vista idrologico, in quanto si tratta di bacini artificiali totalmente disconnnessi dalla rete idrografica, ma alimentati da sistemi di pompaggio dai fiumi del fondovalle, che spesso sottraggono l’acqua per uso umano alle comunità, sempre più insidiate da situazioni di siccità, a causa del cambiamento climatico.

La compagna di La Cluzad delinea poi un quadro generale avvilente al riguardo dello sfruttamento turistico nella regione alpina: anche qui si può parlare di processo di gentrificazione, con le località montane trasformate in Disneyland d’alta quota per turisti, dove si giunge persino a produrre neve artificiale per rendere l’atmosfera natalizia in centro villaggio, visto che le festività di fine anno trascorrono sempre più spesso sotto un sole primaverile. Il tutto mentre i prezzi di acquisto e locazione abitativa schizzano in alto, allontanando la popolazione stanziale delle valli. E se gli aspetti economici ed ambientali rappresentano una distorsione evidente del processo in atto, vale la pena sottolineare anche il risvolto distopico-umanitario che si può osservare ad esempio a Montgenèvre (stazione dirimpettaia di Sestrières e Sauze d’Oulx nel comprensorio della Via Lattea) dove a pochi metri convivono i flussi di migranti disperati che cercano di varcare il confine e i turisti che prendono il sole sui campi di sci.

Si chiude l’intervento con un invito al fare rete tra collettivi/comitati nell’intera regione alpina transfrontaliera perché, come ricorda la compagna, “i capitalisti non conoscono frontiere!”.

Renato Murcia (“Wetter”) per Confluenza

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