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Achtung autonomi

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Dal volume di recente pubblicazione ‘Gli anni del ’68’ (Il Canneto editore) pubblichiamo il seguente capitolo redatto da Carlo Camilloni e Roberto Faure, protagonisti diretti dell’esperienza dei comitati autonomi genovesi.

A Genova eravamo imbevuti dalla tradizione comunista e resistenziale della città. Tutti avevamo visto commossi il film “Achtung banditi” sulla resistenza a Genova, finanziato da una colletta operaia. I morti nelle piazze, i grandi cortei avevano un effetto grande sulle nostre giovani menti.
Eravamo tutti studenti o giovani operai o disoccupati. A scuola veniva prima la politica, poi lo studio, poi le altre faccende della vita.
Eravamo una banda giovanile. Compatta. Solidale. Ci conoscevamo tutti. Nessuna gerarchia, nessun ruolo che non fosse acquisito sul campo. L’unica distinzione ufficializzata era territoriale: comitato autonomo di Sampierdarena, del Carmine, di San Fruttuoso, di Bolzaneto, di Pontedecimo (delegazioni o quartieri di Genova).
La stampa ci cuciva addosso un’immagine, fosca, opaca, ma pubblica. E questo ci dava forza oltre a infastidirci. Eravamo una forza politica: esclusa, criminalizzata, calunniata ma una forza politica; sentivamo di poter cambiare il sistema sociale, e comunque di aver già cambiato del tutto noi stessi e deviato le nostre vite da un destino prestampato che era, allora, ben chiaro e che non ci piaceva.
A Sampierdarena al mattino si vedevano il bus numero 7, il numero 1, cupi di corpi pigiati, facce scure e frettolose, diretti alle fabbriche del ponente, Ansaldo, Italsider, Marconi, Italcantieri etc.
A quelli di noi che, fortunati, andavano a scuola, correva un brivido lungo la schiena, e un pensiero brillava senza parole nella mente: NO.
Gli operai, gli impiegati, i piccoli commercianti che ci avevano cresciuti insegnandoci con parole accorate l’etica del lavoro, della fabbrica, della fatica, ci avevano silenziosamente, con gli occhi, con i segni del corpo, insegnato tutt’altro. Studia, fai qualsiasi cosa, ma fuggi dalla galera della fabbrica.
E noi avevamo capito.
Ma a quel segreto mandato generazionale avevamo aggiunto di nostro qualcosa di più: la speranza e la possibilità di andare al governo – allora si pensava al governo, nell’accezione leninista – di cambiare non solo le nostre singole vite ma quelle di tutti, insieme.
Noi non votavamo. Alcuni gruppi politici – Lotta Comunista, gli anarchici – tradizionalmente facevano campagna per l’astensionismo in occasione delle elezioni. Noi non ci spendevamo molto, anzi quasi niente, sull’argomento. L’idea che qualcuno potesse candidarsi a qualche elezione anche amministrativa e locale, era del tutto alieno. I rapporti con le istituzioni erano essenzialmente di contestazione e contrapposizione, raramente di dialogo.

Polizia – La polizia era onnipresente nelle nostre vite e nei nostri pensieri. Le perquisizioni a casa erano normalità, anche se non frequenti. In occasione di annunciate mobilitazioni, o dopo qualche attentato dei gruppi armati, arrivavano all’alba, rovistavano in casa, a volte facevano qualche scherzo da prete per vedere come reagivamo.
Nei luoghi abituali di ritrovo, al sottopassaggio di Piazza Montano a Sampierdarena, in Piazza De Ferrari la sera, in Piazza Martinez, intorno alle nostre scalcinate sedi, spesso si aggiravano personaggi facilmente identificabili.
Molti di noi, pur conosciuti, sviluppavano la capacità di farsi poco riconoscibili. Niente foto. Vestiti poco appariscenti. Essere fermati dalla polizia o indagati non era divertente. Tuttavia le attività che intraprendevamo erano per lo più alla luce del sole, eravamo un movimento. La pubblicità era la nostra unica forza sostanziale.

Le lotte – Nel 1975 in molti quartieri di Genova si aderì alle “lotte contro il carovita”, per la difesa del potere di acquisto dei salari. Ci furono esperienze di mercatini solidali e a prezzi popolari. Questo era anche un modo per entrare in contatto con gli abitanti del quartiere e fare controinformazione.
Notevole successo ebbe l’autoriduzione delle bollette SIP (telefono). In base ad un calcolo fondato su una qualche sentenza, che aveva dichiarato illegittimi certi aumenti, noi calcolavamo “il dovuto” in base alla legge del popolo. A Bolzaneto stavamo su una panchina, in Piazza Rissotto, con qualche scatolone e qualche raccoglitore, al tardo pomeriggio. Venivano grappoli di operai, di massaie, colle bollette. Noi calcolavamo, e loro pagavano quello, cioè meno.
Eravamo delle specie di funzionari, molti non capivano niente delle nostre stereotipate spiegazioni, ma aderivano e pagavano meno. Nel frattempo procedevano delle cause collettive a tutela degli “autoriduttori”.

Un’altra iniziativa furono le lotte contro gli aumenti dell’AMT (trasporti), con volantinaggi sugli autobus e “sabotaggi” delle macchinette erogatrici. Il 19 maggio 1977, si tenne una manifestazione contro questi aumenti e contro l’abolizione di sette festività nazionali che noi chiamammo “le sette festività regalate ai padroni”.
La legge n. 54 del 5 marzo 1977, tolse carattere festivo civile a varie festività religiose: 6 gennaio, 19 marzo, Ascensione (quaranta giorni dopo Pasqua), Corpus Domini (primo giovedì dopo Pentecoste), 29 giugno, 2 giugno, 4 novembre. Otto anni dopo venne ripristinata l’Epifania. Nel 2000 ridivenne festivo il 2 giugno.
Erano 7 giorni di festa che diventavano lavorativi. Noi, contrari al lavoro salariato, non potevamo che scagliarci contro un tale obbrobrio innalzato sull’altare dei “sacrifici” e della “produzione”.
In tutta Italia si organizzo una mobilitazione generale su un argomento così pregnante. Il sindacato non aderì, essendo tale scelta legislativa proprio il frutto di accordi del Governo Andreotti coi sindacati.
A Genova vi fu una manifestazione nel centro cittadino; prima della manifestazione tre studenti furono arrestati con alcune bottiglie molotov, e passarono qualche mese in carcere. Nelle scuole vi fu una raccolta di firme in solidarietà dei giovani arrestati, che vide una grande adesione, in alcune scuole quasi unanime. Fatto stupefacente, firmarono anche alcuni della FGCI che conoscevano personalmente gli arrestati.
Al sottopassaggio di Piazza Montano stazionò un banchetto per raccogliere fondi per le spese legali del processo ai tre arrestati; la risposta del quartiere fu notevole, si raccolsero 3 milioni di lire. Uno degli studenti arrestati era al quinto anno di liceo, e in carcere superò gli esami di maturità, raggiunto lì dalla commissione d’esame della sua scuola.
Ad onor del vero, va detto che a Genova le bottiglie molotov che, secondo i racconti di allora, a volte furono portate nei cortei da alcuni militanti dei “servizi d’ordine”, non furono praticamente mai usate in scontri di piazza. Rimasero al rango di feticci, di simboli. A differenza di quanto accadeva in altre città italiane dove la polizia caricava duramente i cortei e faceva ampio uso di lacrimogeni, a volte di armi da fuoco, ai quali i manifestanti rispondevano.
I morti tra i manifestanti a Milano, Roma, Torino furono numerosi in quegli anni, e negli scontri si faceva discreto uso di questa arma antica e spettacolare.
Ma Genova da questo punto di vista ebbe una storia particolare, anche e soprattutto negli anni ’70.
Genova era la città della rivolta (vittoriosa) contro il Governo Tambroni nel giugno – luglio 1960; la città della forte resistenza partigiana, della resa dell’esercito tedesco nelle mani del CLN e non degli americani.
Una città operaia e ribelle, portuale e quindi economicamente importante. Qui il Governo e quindi la polizia scelsero la prudenza. Le bombe nelle piazze e sui treni scoppiarono un po’ ovunque negli anni 70 e 80, fino alla vicina Savona, ma mai a Genova. Neppure vi furono morti di piazza a Genova in quegli anni. Da qui l’assenza di scontri violenti di piazza in città, per scelta della polizia e tacito assenso del movimento.
Carlo Giuliani è vittima di un’altra storia, del governo globale e del G8, vent’anni dopo.

Piazza Settembrini. Un gruppetto di giovani sampierdarenesi alla fine del 1976 volle replicare nel loro quartiere operaio un’esperienza che si era moltiplicata in tante città italiane grandi e piccole. Il “comitato autonomo di quartiere”. Una sede aperta tutti i giorni, che desse ospitalità ai numerosi collettivi affini che gravitavano nel territorio circostante. Il gruppo iniziale era composto principalmente da giovani che avevano già preso parte al movimento dei primi anni ’70, quindi già politicizzati, e ragazzi che frequentavano il Don Bosco, un complesso ecclesiastico con chiesa, oratorio, spazi per i bambini e ragazzi del quartiere, frequentato da tutti per i suoi campi di pallone.
Affittarono un locale posto sotto la ferrovia che attraversa Sampierdarena, una specie di corridoio nella struttura costruita decenni prima per i binari del treno. L’umidità perenne era una caratteristica ineliminabile, sull’unica stufa del locale qualche spiritoso aveva scritto “riscaldamento autonomo”.
La porta unico ingresso del locale dava sulla Piazza Settembrini, uno spazio pedonale con una fontana nella cui vasca nuotavano enormi orrendi pesci rossi.
L’affitto era a carico principalmente di chi aveva un reddito, cioè dei giovani operai del comitato. Gli studenti versavano cifre simboliche e sporadiche. Fu reperito, per vie traverse, un ciclostile per la stampa dei numerosi volantini che venivano prodotti in gran copia, tutti a firma del “CAS”, Comitato Autonomo di Sampierdarena.
Il comitato si ingrossò rapidamente.
Uno dei primi atti fu una “assemblea di quartiere”. Adeguatamente pubblicizzata, si tenne nella Piazza Settembrini un sabato pomeriggio. Venne gente perché informata dalla pubblicità fatta con manifesti e volantini, vennero i membri del comitato, si fermò gente che passava per caso.
I temi erano quelli del momento: il carovita, la difesa del salario e della scuola di massa; poi si affrontò con cautela l’argomento PCI, la critica della politica sindacale. La reazione fu di attenzione e interesse, in un quartiere in cui non si muoveva foglia senza che la sezione del PCI non voglia.
Iniziò un rapporto che per noi fu di grandissimo interesse e soddisfazione con ex partigiani, soprattutto donne, che vedevano nel nostro ribellismo giovanile una continuità con il loro dissenso all’interno del PCI, espresso in tante discussioni, tessere strappate e poi rifatte.
Stampavamo opuscoli e giornaletti, scritti ovviamente da noi (lì molti iniziarono le loro esperienze culturali o letterarie), e andavamo a venderli porta a porta come era prassi comune del PCI e di tante altre organizzazioni politiche e religiose dell’epoca.
Spesso ci aprivano volentieri la porta, ci offrivano il caffè o il cicchetto, quasi sempre persone d’età, che erano cresciuti prima nel fascismo e poi nella resistenza. Scoprivamo sogni mancati, progetti politici, notizie occultate sulla città e sul quartiere. Noi la chiamavamo “conoscenza del territorio”.

La polizia ci fece subito comprendere che non gradiva la nostra presenza.
Il sottopassaggio di Piazza Montano, dove stazionava perennemente la meglio e peggio gioventù del quartiere in notevole copia, veniva spesso presidiato dalle volanti che chiedevano i documenti a tutti; la polemica coi poliziotti era d’obbligo. Un giovane agente meridionale con gli occhi a mezz’asta una volta ci spiegò che “adesso voi siete sotto di noi e quindi dovete aspettare che controlliamo i documenti”, operazione che veniva fatta durare mediamente un’ora.
In Piazza Montano stazionavano numerosi tossicomani, che noi consideravamo amichevolmente anche perché erano gente come noi, solo più sfortunati, e mediamente meno istruiti. Spesso si scherzava facendo il verso ai tossici, che tutti sapevano imitare alla perfezione facendo uno sguardo spento e la voce roca con il linguaggio stereotipato della sottocultura dei tossicodipendenti. Loro cercavano di conquistare la nostra simpatia con racconti mirabolanti di furti, fughe, droghe dagli effetti inimmaginabili. La superficialità di allora fu pagata a caro prezzo. Innanzitutto non ci siamo resi conto all’epoca della funzione distruttiva che l’immissione sul mercato di droga pesante a basso costo aveva, e avrebbe avuto, nello spezzare la coesione sociale e l’interesse per le vicende del sociale, nel distruggere, alla lunga, legami personali e familiari. Ancor più tragicamente non abbiamo realizzato come l’eroina avrebbe attratto invece schiere molto più ampie di ragazzi e ragazze.
E quanti dei nostri compagni, generalmente i più giovani, ma non solo, ci sarebbero “cascati”, attratti dalla sperimentazione, dalla voglia di fuga, da un sentimento di opposizione estrema ma anche di esclusione da un’idea di futuro collettivo. Una strage. Numeri altissimi di amici morti di overdose o di AIDS. Sì, un prezzo molto caro.

Le manifestazioni di quartiere non ci erano concesse. Seguimmo allora un metodo praticato in quel periodo nella Spagna franchista e in altre città italiane dai collettivi autonomi, le “manifest-agitazioni”. Si convocava una manifestazione di quartiere a Sampierdarena pubblicizzandone i temi e gli obiettivi, ma senza dare un luogo di convocazione, che era “segreto”. I manifestanti partivano da luoghi diversi, separatamente o a piccoli gruppi; si concentravano rapidamente nel luogo convenuto ed iniziavano a gridare slogan e distribuire volantini, spiegando ai passanti le ragioni della protesta; nella strada si faceva un piccolo corteo, di qualche centinaio di persone, che bloccava il traffico delle automobili. L’effetto era straordinario, la gente era di solito divertita e stupita, chiedeva e si interessava.
Ovviamente la polizia si precipitava sul posto, ma per tempo il corteo era già svanito, i volantini ed i megafoni occultati, e gli stessi manifestanti si allontanavano alla spicciolata per ritrovarsi al successivo appuntamento nel quartiere e ricominciare il gioco.
Vi furono tre manifest-agitazioni nel 1977 a Sampierdarena, due contro le agenzie di lavoro interinale che allora facevano capolino sul mercato (e che poi si diffusero ovunque, previste dalla legge); il CAS le bollava come “agenzie del lavoro nero”, nell’ambito della campagna nazionale del movimento sull’argomento.
Il notevole numero di affiliati al CAS giunti in breve tempo aveva una ragione e una storia.
A Sampierdarena, nei primi anni settanta, erano state aperte numerose sedi di gruppi politici extraparlamentari: Potere operaio (PO), Lotta Continua (LC), L’Organizzazione dei Comunisti Libertari (OCL), Lotta Comunista, il Gruppo Bolscevico Leninista (GBL).
Alcuni di questi gruppi nel 1973-1974 -1975 si erano sciolti o avevano subito crisi parziali tra i loro militanti. Molti militanti di questi gruppi, una volta fuoriusciti decidevano di aderire o solo abboccarsi al nascente movimento della c.d. Autonomia Operaia.
Fu un connubio tra navigati militanti e giovani adolescenti che incontravano per la prima volta la politica. Il gruppo più numeroso che transitò nell’Autonomia era del disciolto Potere Operaio.
I gruppi della sinistra extraparlamentare erano strutturati come partiti, con dirigenti, militanti, espulsioni, riunioni obbligatorie, disciplina, propaganda strutturata.
I giovani del post fordismo, che inizia con la crisi economica degli anni ’70, non erano cresciuti né si riconoscevano in simili strutture. L’autonomia operaia, checché ne dicano le inchieste giudiziarie, non aveva nulla del partito. Il carisma si conquistava sul campo, nelle assemblee pubbliche davanti a tutti, nella militanza quotidiana. Nessuno avrebbe accettato un capo o sottocapo per decisione di un comitato centrale, ciò era inimmaginabile. Parole come segretario, dirigente, segretario di sezione, federale, non avevano cittadinanza. L’unico termine usato era “militante” o “compagno”.
Questi giovani nati nel quartiere, o nei dintorni di esso, vivevano realtà che iniziavano a sgretolarsi: progressivo smantellamento della fabbrica, fine del suo mito, dissoluzione dell’idea di lavoro fisso salariato, precarizzazione delle esperienze lavorative, mancanza di un futuro-tradizionale (il “No future for me” dei Sex Pistols).
Costoro prima di essere antagonisti si sentivano tali. E’ l’inizio del cosiddetto operaio sociale, della fabbrica diffusa, delle sfruttamento sottile dell’esperienza vita, che andrà a declinarsi sempre più come puro consumo. I ragazzi e le ragazze di Sampierdarena e della Val Polcevera, si contaminavano a scuola e nelle piazze di quartiere, si conoscevano nelle sedi di collettivi e nei momenti di aperta contestazione.
Il 18 Ottobre 1977 morirono nel carcere tedesco di Stammheim Andreas Baader, Jan Karl Raspe e Gudrun Ensslin, detenuti del gruppo armato Rote Armee Fraktion. Per il movimento era una strage di stato in carcere, con certezza di impunità. La notizia destò forte emozione a Genova. Il giorno seguente a Genova vi fu un numeroso corteo notturno, assolutamente spontaneo e non preparato, il che dava il segno della capacità di mobilitazione di quel settore sociale; molte centinaia di giovani genovesi in quegli anni si sentivano in mobilitazione continua; rispondevano così a fatti avvenuti lontano ma che erano sentiti come una minaccia di morte per ciascuno di noi se passati sotto silenzio.
L’occupazione di via delle Tofane. Nell’autunno del 1977 qualcuno del CAS venne contattato du alcune famiglie di sottoproletari del napoletano che a Genova volevano occupare le case dello IACP di Via delle Tofane. Le case erano vuote da anni, per la solita politica dell’ente pubblico. Si partì di sera tardi con una carovana di auto; qualcunò buttò giu le porte a calci, si portarono i materassi. Arrivò la polizia, venne redatta qualche denuncia agli autonomi presenti. L’indomani un fiume impressionante di gente e automobili saliva la ripida salita di Via delle Tofane, e in poche ore le numerose abitazioni del termitaio di cemento erano piene. Noi ci ritirammo, lasciando in gran parte agli occupanti la difficile gestione dell’occupazione.
Eravamo infastiditi dall’assenza a genova di lotte operaie come quelle di Torino e Milano; in realtà le catene di montaggio e la fabbrica – carcere tipo FIAT non esisteva a Genova; l’operaio genovese era abbastanza di mestiere, specializzato. Ma la volntà tentò quello che la ragione sconsigliava.
Organizzammo un piano di volantinaggi nelle grandi fabbriche genovesi per rivendicare salario, meno lavoro, etc.
Vi furono numerosi ed antelucani volantinaggi alle maggiori fabbriche genovesi del ponente: CMI, Ansaldo, Italsider, arc. Incontrammo la violenta reazione del sindacato, che schierava i suoi militanti per evitare ogni contatto verbale o di vicinanza tra noi ed i poveri operai che entravano in quei postacci. Di conserva la polizia inoltrò denunce per istigazione a delinquere poiché nei volantini si invitava a fare dei blocchi stradali, a quei tempi pratica comune anche del sindacato.

Il bar Nairobi. La militanza di quegli anni era molto diversa da quella che oggi è “normale”; era vita continuativamente comunitaria. Il concetto di tempo libero non era noto, il tempo della politica era tempo liberato. Nelle sedi umidicce si passava molto tempo, ma in quell’epoca la socialità si sviluppava in grande parte presso i bar e nelle piazze.
Non poteva mancare il nostro bar. Il bar Nairobi. Il nome del bar deriva solo da un’insegna standardizzata esposta fuori che pubblicizzava il caffè marca “Nairobi” (che non esiste più). In Via Rota a Sampierdarena due anziane signore perennemente in cappa azzurra, col naso rosso, gestivano un disadorno bar con gli strumenti dell’epoca: flipper, ping pong, tavolini di ferro e compensato. Non avevano coca cola e whisky. La bevanda della casa era bianco amaro o spuma. I prezzi si contavano con monete di alluminio.
Quando nel 1977 tre militanti del CAS furono ospitati in carcere, gli amici si offrirono di saldare il conto dei detenuti per le consumazioni rimaste inevase al bar: le signore (anzi, signorine precisavano) rifiutarono e dissero: pagheranno quando usciranno.
Nel bar Nairobi venne fondata da noi autonomi una polisportiva, che ovviamente fu chiamata “Polisportiva Nairobi”. In breve gli iscritti erano centinaia, per numerose discipline sportive, con prezzi ultra popolari. La polisportiva sopravvisse all’esperienza politica dei fondatori, i militanti del CAS, fino al 1985, con numerosissime iniziative.
Il CAF, Collettivo autonomo femminista. La già lunga esperienza del movimento femminista in Italia e a Genova, aveva visto molte giovani donne del movimento prendere coscienza di quella che era la contraddizione di genere, e prendere parte, più o meno timidamente, alle lotte che in quegli anni avevano aggregato le donne sui temi dell’autodeterminazione e della battaglia per l’aborto. Molte compagne allora si chiesero come la discriminazione delle donne nei diritti individuali (quali il ruolo della donna nella famiglia e nei rapporti interpersonali) e nei diritti sociali (maternità, lavoro) si inserisse nella più ampia contraddizione di classe.
E’ su questi temi che molte ragazze e giovani donne del CAS e di Lotta Continua, studentesse delle scuole di Sampierdarena, cominciarono a riunirsi nella sede di Piazza Settembrini e a discutere.
L’attività che decisero di svolgere fu di controinformazione sulla percezione tradizionale della figura femminile, attraverso volantini, manifesti e brevi comizi nel quartiere.
Un bell’intervento fu svolto sullo sfruttamento del corpo della donna nel mondo della pubblicità, che aveva cominciato a diventare pervasivo. Un altro tema era la discriminazione sul lavoro, con interventi sul lavoro nero in piccole aziende nascoste del territorio.
Naturalmente il gruppo prese parte a tutte le iniziative cittadine e nazionali di quegli anni. Si intersecava con i gruppi del centro genovese, ad esempio colle iniziative della Casa delle donne di Vico san Marcellino. Un’esperienza formativa, antagonista, bellissima.
Poi venne la repressione massiva. Dopo l’omicidio di Guido Rossa (gennaio 1979) era a noi tutti chiaro che sarebbe cambiato molto. E così fu. La scelta del PCI di schierarsi attivamente con lo Stato ebbe forte effetto. Alcuni magistrati, in testa Calogero col suo famoso teorema, inaugurarono arresti di massa. Le manifestazioni di piazza, in cui il movimento esprimeva tutta la sua potenza, vennero vietate.
Per il PCI la calunniosa (e oggi accertatamente falsa) tesi era: BR e movimento sono un tutt’uno, con una direzione congiunta che fa capo a Toni Negri, che dell’Autonomia era allora un importante esponente. Il PCI mentiva sapendo di mentire, con una ritardataria predisposizione staliniana.

Gli anni ’80 iniziarono con un disastro umano nelle nostre fila: l’eroina. Un numero considerevole di giovani di quella generazione ribelle si diedero a questa spaventosa droga, e molti erano delle nostre fila, anche se la maggior parte si mantenne del tutto estranea allo scempio di se stessi che è la droga pesante.
Le interpretazioni del fenomeno possono essere molte. Da un lato è il fenomeno della distruzione del progetto di vita, il “no future” dei punk, che porta alla volontà di estraniarsi, di semi-suicidarsi di una collettività. Abbiamo osservato un fenomeno analogo con la repressione delle “primavere arabe” di recente. D’altro lato c’è la strategia di sottrazione ad un sistema che pretende lavoratori subordinati ed efficienti, mentre il drogato è inefficiente.
Inoltre pare accertata una strategia statale e poliziesca nel favorire se non creare la diffusione di massa delle droghe pesanti per indebolire il ribellismo giovanile. E’ un metodo storicamente utilizzato dal potere, sperimentato efficacemente negli USA contro il movimento dei Black Panther; un bel documentario della RAI lo ha ricostruito: “operazione blue moon – eroina di stato”, visibile su youtube (https://www.youtube.com/watch?v=kywmDZVjTnw).

Dopo.
Il movimento e gli autonomi non finirono con la grande repressione della fine anni 70-anni 80, neppure a Genova.
Il movimento antinucleare mantenne la sua virulenza, coi blocchi e picchettaggi degli autonomi alle centrali in costruzione e un’ampia propaganda. Anzi di fatto in Italia vinse, col referendum che impedì per legge la costruzione di centrali in Italia. Ancora oggi l’Italia è un’anomalia in un mondo pieno di centrali nucleari.
Nel periodo più cupo degli anni ’80, mentre il craxismo si comprava molte delle nostre menti migliori con bigliettoni di banca stampati dal nulla e coll’esplosione del debito pubblico, continuavano manifestazioni pericolosissime (per i manifestanti) contro le carceri speciali.
Le botte, gli arresti erano la norma. Ma proprio in questo periodo una nuova generazione ribelle conobbe le pratiche e le possibilità del movimento. Nelle università nacque il movimento della “pantera”.
Un gruppo di giovani che si identificavano con gli autonomi, unitisi al movimento nei cupi anni ’80, affittò una ex officina di un fabbro nel muraglione che è il lato monte di Via Santa Croce, nel centro storico di Genova e iniziò lì la sua attività.
A Genova, nel febbraio 1988 venne occupata da un variegato gruppone di giovani (di cui molti autonomi della sede di Via Santa Croce) una chiesa sconsacrata ed abbandonata in quella che fu Via Madre di Dio, di fianco agli orrendi svincoli stradali che portano da Piazza Dante a Corso Aurelio Saffi.
Questo spazio liberato, chiamato “L’Officina”, divenne rapidamente sede di feste e riunioni sulla politica genovese e non. L’occupazione durò un paio di anni, ma rivitalizzò il movimento genovese, prima sfiancato dalla repressione, dalla droga e dalle polemiche sui tradimenti politici.
Nel 1993, in reazione ai pogrom fascistoidi contro i neri in centro storico, nacque una associazione che mischiava noi (molti ex autonomi e altri del movimento, reduci dallesperienza dell’”Officina”) a numerosi marocchini e senegalesi preoccupati dalla situazione che si era creata nel centro storico di Genova, fatta di violenze e ronde anti-negro e di sfratti affiancati dalla polizia in forze.
Fu la straordinaria, gigantesca Associazione Città Aperta. In breve i cortei dell’associazione portavano in piazza migliaia di persone; i “comitati di quartiere” razzisti e infiltrati di fascisti genovesi di vecchia data cessarono la loro tumultuosa crescita, anzi subirono bastoste (anche fisiche) repentine ed inaspettate, scomparirono come neve al sole.
Qualcuno dovrà raccontare la straordinaria esperienza di Città Aperta, di cui tuttora continua lo spirito l’Associazione Ambulatorio Città Aperta; questa è una associazione di medici e volontari operante dal 1994 in Vico del Duca, davanti a Palazzo Tursi dove ha sede il Comune di Genova, che cura ed ha curato decine di migliaia di “non cittadini” di cui non si occupa il Servizio sanitario Nazionale. Da rammentare tra i tanti militanti di Città Aperta è lo straordinario Serign Sylla, leader della comunità senegalese, mancato nel febbraio 2005, che di Città Aperta fu l’anima e il sorriso.
Siamo partiti da Sampierdarena e molto è stato omesso. Ma proprio a Sampierdarena continua, con gli ex giovani del CAS di allora e con altri, un movimento di quartiere.
Perdura la consolidata esperienza del centro sociale occupato “Zapata”, che organizza dibattiti, concerti, inizative politiche, feste ed un partecipato torneo di calcio antirazzista.
Nell’ex “Palazzo della Fortezza” di via Daste, inutilizzato e vuoto da sempre, da qualche anno si tengono iniziative e d’estate un cinema all’aperto che ha iniziato a rivitalizzare il quartiere. I sampierdarenesi, sfiancati dalla perduta identità operaia, dal calo demografico e dall’invecchiamento della popolazione, hanno reagito al nuovo costituito dalla numerosa immigrazione sudamericana con la depressione.
Il lugubre ritornello del “degrado”, cioè della presenza di recenti immigrati, è stato così a lungo ripetuto che da fantasia distopica è diventato realtà. Basti osservare che oggi le case di Sampierdarena si vendono per un boccon di pane.
In questa realtà è cresciuto il nuovo comitato “casa di quartiere”, che vuole utilizzare l’inutile “Palazzo della Fortezza” di Sampierdarena.
Qualcosa è stato omesso. Era cronaca, forse ora è storia.

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Formazione

Genova: protestano studenti e studentesse dell’istituto Pertini-Diaz: “Non vogliamo poliziotti a far lezione qui” 

“Fuori la polizia dalla Diaz”, questo lo striscione comparso martedì mattina, e subito rimosso, sui cancelli dell’istituto Pertini – Diaz a Genova, la scuola dove nel 2001 avvennero i pestaggi polizieschi contro i manifestanti del G8.

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Divise & Potere

Genova: la Regione annuncia lo sgombero del Laboratorio Buridda

Sarà aggiudicato entro ottobre 2024 l’appalto integrato per la progettazione esecutiva e la realizzazione di una residenza universitaria nell’ex Magistero di corso Monte Grappa, oggi occupato dal centro sociale Buridda.

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Bisogni

Roma: morta a 75 anni Barbara Balzerani

In carcere e poi fuori la Balzerani ha riletto a lungo la storia – personale e collettiva – degli anni ’70 e ’80, attraverso molti incontri pubblici, prese di posizione e soprattutto con numerosi libri.

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Sfruttamento

Genova: corteo con i lavoratori Ansaldo che rischiano 7 anni di carcere per blocco stradale

Un grande striscione con scritto “siamo tutti Ansaldo” apre il corteo di oltre mille persone in solidarietà dei 16 lavoratori denunciati durante lo sciopero del 13 ottobre 2022 a difesa dello storico stabilimento genovese, culminato con l’occupazione dell’aeroporto e scontri con le forze dell’ordine.

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Culture

Le contraddizioni e le moderne intuizioni di un editore militante

Molto si è scritto, detto e discusso a proposito della lotta armata in Italia, attraverso saggi, articoli, dibattiti e testimonianze di vario indirizzo, calibro e dalle finalità non sempre limpide.

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Sfruttamento

Genova: 16 lavoratori rinviati a giudizio per aver protestato per il posto di lavoro

14 operai di Ansaldo Energia e i 2 lavoratori del Porto di Genova a processo per le mobilitazione dell’ottobre 2022 contro la possibile chiusura della fabbrica

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Divise & Potere

Depistaggi e depistatori, Sigfrido Ranucci ha chiesto l’aiuto di Francesco Pazienza per realizzare la puntata di Report sul sequestro Moro

Per denunciare un depistaggio è opportuno rivolgersi a un depistatore di professione, condannato per questo dalla giustizia? 


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Approfondimenti

Lo sciopero politico contro la logistica di guerra

Assembliamo due interessanti interviste uscite su Connessioni Precarie rispetto alle mobilitazioni dei lavoratori portuali in risposta all’appello da parte dei sindacati palestinesi. Buona lettura!