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Il Novecento «oltre» il Novecento: Mario Tronti

(Mario Tronti)

 

Damiano Palano (Tysm)

Nel gennaio 2003, assistendo ai funerali di Gianni Agnelli, Marco Revelli si immergeva tra la folla che sfilava dinanzi al feretro dell’«Avvocato» per ricercare le orme di quella che – ancora pochi anni prima – era stata la «capitale del lavoro», e forse anche l’unica vera «città-fabbrica» italiana. In realtà ben poco era rimasto dei miti dell’industrialismo novecentesco. Il Lingotto, in cui era ospitata la camera ardente, non mostrava più nulla della sua vecchia natura di tempio modernista della produzione. Tra i volti disciplinatamente in fila per rendere il proprio omaggio alla salma, gli operai non erano neppure riconoscibili. E anche il rituale funebre finiva col sembrare abissalmente distante dalla geometria dell’ordine della Fabbrica, assumendo piuttosto i contorni di una manifestazione tardo-ottocentesca. «Non è stato un funerale ‘industriale’», scriveva Revelli, ma un rito «d’ancien régime», «che ha scoperto, sotto la patina del secolo industriale, una Torino di longue durée, radicalmente monarchica nel proprio immaginario collettivo, nella gestualità, nei linguaggi simbolici, nella struttura delle fedeltà e dei comportamenti, popolana più che popolare, cortigiana più che disciplinata». Dinanzi al feretro, veniva così a riemergere un immaginario pre-industriale, tutto costruito su una polarità elementare: «il corpo del sovrano e la folla informe dei ‘suoi’ sudditi», «la ‘persona’ nella quale il corpo sociale si rappresenta e riconosce, e la massa informe di chi senza quel simbolo non sarebbe».

Ma dei soggetti politici ed economici che avevano segnato il Novecento non sembrava più neppure vagamente visibile una traccia sbiadita: «Mancava, clamorosamente, fragorosamente, direi, l’Impresa […]. Mancavano le Fabbriche, i loro simboli, le loro insegne, i loro nomi. Mancavano gli Operai, le figure del Lavoro, riconoscibili, visibili fino a pochi anni fa. Mancava […] il Lavoro. Si vedeva solo il Potere – nella sua forma tradizionale di struttura di dipendenza personale, di essenza della ‘sovranità’ -, ma il Lavoro che è la struttura in cui nella modernità il potere s’innerva, si fa pratica e conflitto collettivi, e infine Produzione, quello non si vedeva, come scomposto e dissolto nell’aggregazione casuale della folla, nei volti indistinti della ‘gente’» (M. Revelli, La cerimonia degli addii. Il funerale di Gianni Agnelli e la fine dell’industrialismo, in Id., Controcanto, Chiarelettere, Milano, 2010, pp. 207-208).

Non era la prima volta che Revelli si imbatteva nell’«aggregazione casuale della folla», nei «volti indistinti della ‘gente’», in quel residuo pre-moderno, in cui la vocazione industrialista di Torino sembrava totalmente sommersa dalla sua soggezione sabauda a un potere monarchico. Più di trent’anni prima, seguendo in presa diretta – come ‘intellettuale militante’ – i trentacinque giorni dell’occupazione operaia di Mirafiori, aveva intravisto nella «marcia di quarantamila», nei volti compassati dei quadri di fabbrica che il 14 ottobre 1980 sfilarono per le vie di Torino chiedendo la rimozione dei picchetti, la nitida anticipazione di un mutamento d’epoca. «Venivano giù a branco, uniformi e grigi come il muro dei reparti», aveva scritto in una cronaca per alcuni aspetti persino profetica, «con un rumore sordo di ciotoli che rotolano, di bisbigli trattenuti, di passi strascicati, quel rumore che esce dalle folle occasionali in attesa, o dai funerali… riempivano lentamente il centro della città, senza simboli, colori, bandiere» (M. Revelli, Gli operai di Torino e gli «altri», in «Primo maggio», n. 14, 1980-1981, p. 8).

Ma se quei quadri erano ancora «un pezzo di fabbrica trasferito in città», e dunque «un’espressione soggettiva del lavoro senza soggettività», la schiera di volti anonimi che rendevano il proprio rispettoso omaggio all’«Avvocato» parevano ormai avere smarrito ogni legame con il simbolismo novecentesco, con la religione produttivista della Fabbrica, con i suoi ritmi e con la sua disciplina, oltre che naturalmente con i suoi conflitti.

La scoperta nella camera ardente del Lingotto di una sorprendente folla ottocentesca evidentemente equivaleva per Revelli a una conferma della fine dell’industrialismo. La «folla» anonima, disciplinata, priva di identità, era infatti l’esatto opposto rispetto alla «classe» novecentesca, cresciuta dentro la geometria della fabbrica e dentro la mitologia produttivista del Novecento. E per questo i funerali di Gianni Agnelli suonavano come l’ennesima conferma della necessità di archiviare il «secolo breve», con le sue ideologie, i suoi conflitti, i suoi orrori e naturalmente i sogni prometeici coltivati dal movimento operaio. Con Oltre il Novecento, pubblicato proprio all’inizio del nuovo secolo, Revelli si era infatti già accomiatato – in termini peraltro piuttosto radicali – da quell’immaginario, e in particolare da quella versione che in Italia ne aveva fornito l’«operaismo».

Per Revelli – che aveva adottato per decenni la prospettiva operaista, seppure in una variante specifica – era ormai divenuto indispensabile abbandonare la mitologia dell’industrialismo: una mitologia che aveva condotto il movimento operaio ad adottare la medesima visione produttivista della fabbrica, e che aveva indotto a concepire come una «macchina» efficiente, come uno strumento di lotta politica, quel partito che invece era ben presto diventato fine a se stesso. Non tutti gli epigoni dell’operaismo degli anni Sessanta e Settanta avevano imboccato questa medesima strada. In termini quasi paradigmatici la «moltitudine» sarebbe infatti divenuta per molti una sorta di erede post-moderno della vecchia «classe», un erede dai contorni ancora sfuggenti eppure capace di raccogliere il testimone abbandonato dalle figure conflittuali protagoniste del Novecento. Se in questo senso Empire di Michael Hardt e Antonio Negri costituiva quasi una sorta di antitesi al discorso di Oltre il Novecento, fra gli eredi della riflessione operaista non mancava anche un’altra opzione, che si distingueva quantomeno per un radicale pessimismo. E a indicare una simile prospettiva era proprio Mario Tronti, che a buon diritto – con Operai e capitale – può essere considerato come il fondatore di questo filone di pensiero, l’espressione forse principale di quella che è stata recentemente definita come la Italian Theory.

Prima ancora che il Ventesimo secolo si chiudesse, Tronti aveva infatti già solennemente e malinconicamente riconosciuto che – insieme alla parabola del movimento operaio – si era consumata anche la fine della politica moderna. Proprio nelle pagine introduttive della Politica al tramonto aveva scritto: «A guardarlo dalla fine del novecento, il tempo della politica che hai attraversato ti appare come un fallimento storico. Non erano troppo altre le pretese, erano inadeguati gli strumenti, povere le idee, deboli i soggetti, mediocri i protagonisti. E la storia, a un certo punto, non c’era più: solo cronaca. Niente epoca: giorni, e poi ancora giorni. Il miserabilismo dell’avversario ha chiuso il cerchio. Non c’è grande politica senza la grandezza del tuo avversario» (M. Tronti, La politica al tramonto, Einaudi, Torino, 1998, p. XI). Dopo più di quindici anni – nel corso dei quali, nelle riflessioni di Tronti, sono peraltro affiorati talvolta piccoli segnali di ottimismo – i toni del vecchio maestro tornano oggi a diventare cupi. In una lunga intervista con Antonio Gnoli, definendosi uno «sconfitto» – ma non un «vinto» – Tronti ha rivendicato di appartenere a un’epoca ormai irrimediabilmente conclusa: «Sono un uomo fuori da questo tempo. Ho sempre condiviso la tesi del vecchio Hegel che un uomo somiglia più al proprio tempo che al proprio padre» (A. Gnoli, Mario Tronti: «Sono uno sconfitto, non un vinto. Abbiamo perso la guerra del ‘900», in «la Repubblica», 28 settembre 2014, pp. 52-53).

Un contributo importante per ricostruire l’itinerario di uno dei più originali intellettuali della storia repubblicana viene ora dal volume di Franco Milanesi, Nel Novecento. Storia, teoria, politica nel pensiero di Mario Tronti (Mimesis, Milano2014). Il lavoro di Milanesi può essere in qualche modo letto come una sorta di ‘biografia politico-filosofica’ dell’autore di Operai e capitale, dal momento che segue le diverse sequenze di sviluppo del pensiero di Tronti in relazione agli snodi politici della sua esperienza. Come avviene ormai per pochi pensatori contemporanei, nella ricerca di Tronti è davvero difficile individuare una riflessione teorica che non sia anche sempre una riflessione ‘politica’, ossia una riflessione che – magari cripticamente – intende il pensiero come strumento di cui valersi dentro un conflitto. E così è anche inevitabile che le grandi scansioni della metà del Novecento trovino ben più di un vago riflesso dentro le stagioni della ricerca trontiana. Nei primi scritti su Gramsci, si può ravvisare infatti l’eco del 1956 e della crisi che l’invasione sovietica dell’Ungheria produce sul Pci, mentre nella stagione operaista – in realtà brevissima per Tronti, dal momento che in fondo si consuma nell’arco dei pochi anni che vanno dal 1961 al 1967 (quando esplode il Sessantotto studentesco Tronti sembra ormai guardare verso altri orizzonti teorici e organizzativi rispetto a quelli delineati in Operai e capitale) – si colgono per intero le ambivalenze del boom e dei primi governi di centro-sinistra. Nelle fasi successive – segnate teoricamente dalla ‘scoperta’ dell’«autonomia del politico» – si riconoscono invece le nuove difficoltà che incontra il Partito comunista dopo l’Autunno caldo e poi durante la fase del «compromesso storico».

Infine, nell’Ottantanove, nella scomparsa del Pci, nella disfatta del movimento operaio, si ritrova la svolta che induce Tronti a prendere atto del tramonto della politica moderna. Ed è forse in corrispondenza di questo passaggio – quando gli scritti di Tronti diventano spesso ermetici, allusivi, talvolta oscuri, anche per palesare anche formalmente l’estraneità alla nuova stagione – che il lavoro di Milanesi diventa più complesso, quantomeno perché deve tentare di ricomporre in un mosaico unitario i frammenti di un discorso interrotto. Un discorso che ama spiazzare il lettore, con provocazioni intellettuali, esplorazioni fra i classici del pensiero conservatore, sperimentazioni con il linguaggio della spiritualità: operazioni di cui spesso al lettore finisce per sfuggire la cifra politica, che invece continua incessantemente a segnare la riflessione trontiana.

Senza dubbio il lavoro di Milanesi rappresenterà da questo momento un punto di riferimento per chiunque voglia accostarsi al pensiero di Tronti, anche perché – a differenza di altri scritti più o meno organici apparsi sinora – si confronta con l’intera riflessione dell’intellettuale romano, e non solo con la sua fase «operaista», peraltro ancora oggi al centro dell’attenzione di molti studiosi neo-marxisti un po’ in tutto il mondo. A contrassegnare e a rendere originale la lettura di Milanesi è infatti, semmai, proprio l’interesse che viene rivolto all’indagine trontiana sull’«autonomia del politico»: un’indagine che si svolge soprattutto a partire dagli anni Settanta, ma che, in qualche misura – e qui Milanesi tocca un punto spesso sottovalutato – percorre l’intera ricerca di Tronti. D’altronde, il nodo dell’organizzazione politica affiora già nel dibattito degli anni Sessanta. In questa discussione – che sancisce peraltro il passaggio dai «Quaderni rossi» a «Classe operaia» – Milanesi osserva infatti che la «sensazione è che manchi sempre un passaggio, manchi in fondo proprio quella politica ‘messa in forma’ di organizzazione» (p. 59). Ma per Tronti, secondo la lettura di Milanesi, già in questa stagione «la politicità della lotta non può che svilupparsi dentro un discorso complessivo sulle forme e le strutture di potenziamento e di indirizzo dell’azione di classe» (p. 61). È d’altronde su queste basi che Tronti chiude l’esperienza di «Classe operaia» e torna nell’alveo del Partito Comunista, dal quale peraltro non è mai veramente uscito, dal momento che probabilmente ha sempre inteso la ‘protesta operaista’ come un’operazione radicale di rinnovamento della cultura e del gruppo dirigente di quel partito. Ma è anche su queste basi che prende a confrontarsi con più intensità con il tema dell’«autonomia del politico», approssimato in realtà per passi successivi. Al centro di molte feroci discussioni, quelle ipotesi sono spesso accolte dai critici vicini alla sinistra extra-parlamentare come una sorta di legittimazione della strategia del «compresso storico», anche se – come nota Milanesi – si tratta piuttosto di un ragionamento che procede in una direzione differente (pp. 182-183). Si tratta, cioè, di «usare il partito per superare la debolezza politica delle masse e attaccare là dove l’avversario mostra “un difetto di razionalizzazione”, cioè sul piano istituzionale, che appare insufficiente sia sul versante del governo sia su quello amministrativo» (p. 139).

Anche per il clima del periodo, Tronti in realtà non esplicita però le proprie riserve sul progetto del compromesso storico nel corso degli anni Settanta, ma solo quando l’esperienza dei governi di solidarietà nazionale si è esaurita, sul finire del decennio. Al tempo stesso, una simile critica non si traduce comunque in un attacco alla linea seguita da Berlinguer. Anzi la figura del segretario tende a diventare negli anni Ottanta per Tronti – specialmente dopo la sua prematura scomparsa – una sorta di simbolo antropologico di una possibile «alternativa»: come scrive in questo senso Milanesi, «la figura di Enrico Berlinguer rappresenta l’ultimo tentativo di elaborazione di un’alternativa al sistema e obbliga ad aprire una riflessione sul significato del rapporto tra il comunismo e l’“essere comunisti”, secondo una curvatura antropologica del pensiero politico che a partire dagli anni Ottanta sempre più frequentemente troviamo svolta nelle pagine di Tronti» (p. 187).

In effetti la dimensione antropologica diventa a partire dagli anni Novanta sempre più importante per Tronti, nel senso che è l’«ultimo uomo», l’uomo medio, l’homo oeconomicus, il protagonista di quella democrazia di massa che segna la fine della politica moderna. «Le masse sono diventate sempre più la massa, cioè un insieme di individui senza classe, incapaci come tale di autorganizzazione politica», diceva Tronti in un’intervista di alcuni anni fa.  E proprio queste masse manipolabili – così simili in fondo a quelle che Revelli riconosceva in fila alla camera ardente del Lingotto – segnano il tramonto della politica.

In realtà, nella lettura di Milanesi la posizione di Tronti fa trapelare comunque una possibilità residua per la politica. «La ‘talpa’ del pensiero trontiano», scrive infatti Milanesi verso le pagine conclusive, «senza lasciare la presa, continua il suo scavo ‘dentro e contro’ e torna a pensare le radici del politico alla ricerca di una sua fondazione» (p. 243).

Il pensatore romano, secondo Milanesi, «si muove lungo una via di fuga dal secolo ventesimo che inverte il senso storico-teorico di posizioni che, molto critiche verso quella storia, finiscono tuttavia per riproporne concettualità e struttura. Insiste invece sulla necessità di accogliere pienamente il senso del Novecento come base per un rilancio di politica che sia, in gran parte, altra rispetto alle espressioni del secolo trascorso. Ciò significa tornare a pensare e fare rigettando tanto la dialettica dell’immediatismo, che ritiene che il capitale nel suo sviluppo produca necessariamente il soggetto destinato a superarlo, quanto le culture dell’esodo o quelle che riducono la lotta al capitalismo al tentativo di controllo democratico del mercato. Modi, in fondo, tipicamente novecenteschi, evidentemente deboli rispetto alla potenza del tecno-capitalismo» (p. 276).

La linea di ricostruzione si muove tanto sul terreno culturale, quanto sul terreno strettamente organizzativo, ed è d’altronde proprio su questi due piani che si muove forse da sempre il lavoro trontiano sul politico, e che rende la sua opera – come scrive Milanesi – un «classico del pensiero politico novecentesco, uno dei suoi punti più alti», anche se «non è mai solo questo». «La forza dei suoi apparati argomentativi, il linguaggio incisivo ed evocativo, l’originalità delle prospettive analitiche vanno intesi come espressioni di un dispositivo politico che rigetta, pur mantenendo una propria cifra di levità formale, l’autonomia del teorico e la tendenza alla teoria generale» (p. 279).

Le traiettorie di questa fuoriuscita dal XX secolo rimangono però, per molti versi, come uno sviluppo di ciò che la politica del Novecento aveva offerto, e in particolare di ciò che per Tronti era stata la scoperta della parzialità. «Ci vuole un punto di vista, da cui guardare il mondo, e la vita», «ci vuole una parte di mondo e di vita a cui ascrivere il proprio pensiero», ha scritto nel suo ultimo volume Per la critica del presente (Ediesse, Roma, 2013, p. 15). Ma ha anche ricordato: «Oggi, per la storia che il movimento operaio ci ha lasciato in eredità, la tua parte te la devi andare a cercare con intelligenza, paziente, con passione, pensante, strappandola quasi giorno per giorno alla narrazione che l’ha sepolta, bucando il velo delle idee dominanti che l’hanno data per morta, e poi facendola scorgere da lontano, con la visione, facendola toccare con mano da vicino, con il realismo, sempre consapevole di star e di operare tra le sbarre di una gabbia d’acciaio» (p. 15). Per molti versi proprio la ricerca di un simile punto di vista – che ovviamente non può coincidere né con il punto di vista di un singolo, né con l’evocazione di un interesse «generale» – accompagna l’intero percorso teorico di Tronti fin dai suoi primi passi, scandendone le diverse stagioni. È d’altronde la rivendicazione di quella stessa parzialità che conduce oggi il filosofo a evocare quell’«oltre» che affiora problematicamente dalle pagine più recenti. Ed è forse a partire dalla centralità di quel punto di vista che diventa possibile ricostruire, o quantomeno immaginare, le linee di sviluppo di quell’antico progetto, più volte annunciato e ogni volta accantonato, celato da Tronti sotto il titolo affascinante, oltre che del tutto inattuale, Per la critica della democrazia politica.

Proprio nelle pagine conclusive di Per la critica del presente, in un saggio inedito intitolato evocativamente La sinistra e l’oltre, Tronti ragiona sulle possibilità di attribuire un nuovo significato alla parola «sinistra»: «si può andare oltre la sinistra, senza tornare indietro dalle conquiste con essa ottenute, si può ampliare il suo campo senza perdere il suo senso?» (pp. 117-118). La risposta a quella domanda passa per Tronti innanzitutto dalla rinobilitazione dell’idea stessa della politica come progetto di trasformazione, un’idea che invece gli ultimi trent’anni hanno del tutto demolito.

«L’idea del ‘nuovo che avanza’, fatta propria ed esercitata dalle più tradizionali forze conservatrici dello stato di cose presente», scrive, «è la ‘novità’ vera intervenuta, a breve, storicamente, nel panorama politico contemporaneo» (p. 121). Contro questa operazione di squalificazione della politica, indica dunque come indispensabile il recupero di una visione di lungo periodo: «Va ricostruito un orizzonte, c’è bisogno più che di una narrazione di una visione, l’assunzione di un compito appunto storico. Noi che abbiamo detto di venire da lontano e di volere andare molto lontano, non possiamo offrire a chi vede impegnarsi la sola capacità di misurare meglio di altri la contabilità di piccoli passi quotidiani. Da giovanissimi, di quella che era un’epoca, i nostri padri ci insegnavano a occuparci della fontanella, ma come passo per arrivare a costruire il socialismo. Se non si riannoda il rapporto, il nesso di conseguenze, tra il già stato, il qui e il non ancora, non si uscirà da questo purgatorio, in cui i lavoratori scontano le colpe dei loro padroni e soprattutto di chi non li ha più contrastati» (p. 127). E se l’«oltre» che evoca è ovviamente ancora molto nebuloso, è però chiaro quello che deve essere il punto di partenza, il perno attorno al quale incardinare un progetto politico, oltre che forse un argine contro l’emergenza antropologica. Proprio al termine del saggio infatti scrive: «L’essere umano non può vivere come appendice della merce, come funzione di mercato, come produttore di reddito e consumatore del prodotto che produce. C’è un oltre di sé a cui guardare, che, solo, può permettere il ritorno in te, attraverso la coltivazione, educante, delle qualità generalmente umane. Questione antropologica è lotta contro la disumanizzazione della vita da parte dell’attuale organizzazione del mondo. L’agire politico, trasformativo, non può ora che pensarsi e praticarsi in sintonia, in alleanza, con forme, libere, di sensibilità religiosa. La dimensione laicista, la secolarizzazione dei comportamenti alternativi, è ormai tutta catturata dentro l’orizzonte invalicabile del presente. L’oltre della sinistra è invece l’oltre di questo mondo. Questo linguaggio evocativo va riempito di contenuti, cioè di scelte, decisioni, atteggiamenti, programmi, che parlino dell’esistenza quotidiana delle persone semplici. Semplici è il nome politico, tradizionale, e proprio per questo innovativo, per dire il concetto cristiano degli ultimi. Gli esclusi, che non aspirano ad essere inclusi, piuttosto pretendono di escludere da sé la subalternità, la dipendenza, la stessa acquiescenza, rispetto ai meccanismi di sistema» (pp. 146-147).

Più che dal disinteresse, l’invocazione di Tronti è stata accolta da una sostanzialità sordità, e forse anche questo testimonia come l’«oltre» che affiorava da quelle righe sia ancora ben lontano dal mostrare un profilo persino molto sfumato, e come le ultime posizioni del filosofo romano si pongano trasversalmente rispetto alle direttrici del progressismo novecentesco. Ma se la materializzazione di un orizzonte «oltre» la sinistra novecentesca rimane per ora solo un auspicio, la realtà sembra proporre uno scenario ben diverso. Ed è da questo punto di vista scontato che molti abbiano visto nella linea seguita da Tronti negli ultimi due anni una sorta di replica dell’atteggiamento più volte tenuto da Pietro Ingrao nel corso della sua militanza all’interno del Pci. Impegnatosi con vigore come presidente del Centro per la Riforma dello Stato in una battaglia politica di difesa del «Lavoro» e della sua dignità politica, Tronti ha intravisto forse nel Pd guidato da Pierluigi Bersani uno strumento per iniziare a dare consistenza al progetto di una sinistra capace di andare «oltre» i suoi significati novecenteschi. Ma, al di là di ogni valutazione sulla correttezza di quella lettura, la storia è andata, come sappiamo, in un’altra direzione. E così Tronti – nel suo nuovo ruolo di Senatore della Repubblica – ha spesso dovuto anteporre la ‘novecentesca’ disciplina di partito alle proprie convinzioni, piegandosi così alla forza del «nuovo che avanza». È per questo inevitabile che più di qualcuno abbia individuato in questo atteggiamento ambivalente l’ennesimo segno di quella sconfitta – politica e culturale – che Tronti d’altronde inalbera orgogliosamente. Sebbene ogni valutazione politica possa forse apparire oggi prematura, è però forse possibile leggere in una simile sconfitta il segno del definitivo, irreversibile esaurimento storico di quella sinistra italiana cui Tronti ha legato la propria vita, e non solo dal punto di vista intellettuale.

In uno dei rari passaggi autobiografici che si possono rinvenire nei suoi scritti, Tronti ha evocato un episodio risalente a più di vent’anni fa, quando per la prima volta – fra il 1992 e il 1994 – aveva occupato i banchi di Palazzo Madama. «Ero in Senato quando c’erano, per mia fortuna insieme, Miglio e Bobbio. Sedevamo in disparte, a conversare, e Miglio dice: sapete qual è una categoria fondamentale della politica? La vendetta. Bobbio disse subito apertamente di no, io, in cuor mio, mi dissi, ma forse sì» (ibi, p. 68). La questione dibattuta allora dai tre intellettuali – che in qualche modo, rappresentavano tre differenti declinazioni della tradizione del realismo politico italiano – meriterebbe probabilmente un approfondimento, quantomeno per il posto che la logica della vendetta ha sempre occupato nella storia nazionale. Ma non c’è dubbio che Tronti sia tornato spesso col ricordo a quel dialogo, e alla provocazione di Miglio. Gli eventi che abbiamo vissuto – e stiamo ancora oggi vivendo – forniscono infatti ben più di qualche conferma all’idea secondo cui la vendetta è davvero una delle categorie fondamentali della politica. Ma confermano soprattutto che il nostro tempo non cessa ancora oggi di essere permeato da un irrefrenabile spirito di vendetta. E che, anche per questo, rimane ancora molto difficile, forse impossibile, intravedere cosa si nasconda «oltre» la sinistra e «oltre» il Novecento. O persino capire se, dietro la lunghissima coda del XX secolo, esista davvero un «oltre».

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