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Il Novecento di Mario Tronti

Questo testo è la trascrizione del dibattito svoltosi presso la Casa della Cultura di Milano il 20 novembre 2014, in occasione della presentazione del libro di Franco Milanesi, Nel Novecento. Storia, teoria, politica nel pensiero di Mario Tronti (Mimesis, Milano 2014).

Damiano Palano: Il testo di Franco Milanesi, al quale è dedicata la nostra discussione, ha il merito di inquadrare fin dal titolo la centralità del Novecento nell’esperienza e nel pensiero di Tronti, un’esperienza e un pensiero strettamente legati al grande laboratorio del XX secolo e le cui radici affondano, in particolare, nel passaggio cruciale degli anni Venti e Trenta. Al dibattito partecipa naturalmente l’autore del volume, Franco Milanesi, che da sempre affianca la passione politica a un lavoro di riflessione teorica e che in particolare, in alcuni suoi lavori, si è rivolto all’«antropologia» della militanza novecentesca. Il secondo protagonista della nostra discussione è Carlo Formenti, uno studioso molto noto per le sue ricerche sulle implicazioni sociali della rivoluzione digitale (e sugli immaginari cresciuti attorno alle nuove tecnologie). Formenti ha alle spalle un percorso ricco di esperienze eterogenee. Arriva dalla militanza sindacale, nei primi anni Ottanta è stato redattore di «Alfabeta» e in seguito ha lavorato per molti anni al «Corriere della Sera». Senza abbandonare l’attività giornalistica, nell’ultimo quindicennio si è dedicato con maggiore intensità alla ricerca e all’insegnamento, all’Università del Salento. All’interno di un itinerario tanto eterogeneo, è comunque possibile ravvisare una forte coerenza, quantomeno nei temi che Formenti ha collocato al centro della sua riflessione. A partire da La crisi del valore d’uso. Riproduzione, informazione, controllo, un testo pubblicato nel 1980 presso l’editore Feltrinelli (negli «Opuscoli marxisti» diretti in quegli anni da Pier Aldo Rovatti), si possono infatti riconoscere tutti i grandi nodi che tornano quasi costantemente nella ricerca di Formenti: l’interesse per il ruolo delle nuove tecnologie e per l’impatto che esse producono sull’organizzazione del lavoro, un dialogo critico con le diverse posizioni del postmodernismo filosofico e la costante domanda sulle nuove forme di azione politica.

Non di meno, fin da queste prime pagine, che segnano in qualche modo l’avvio della riflessione teorica di Formenti, si sviluppa un ininterrotto dialogo critico (spesso anzi polemico) con le tesi e gli esponenti dell’«operaismo» italiano, e in special modo con le posizioni di quello che, negli anni seguenti, diventerà il «post-operaismo». Tanto nei suoi lavori degli anni Ottanta, quanto nei suoi scritti più recenti, Formenti non cessa infatti mai di coltivare questo confronto, un confronto spesso aspro che però non giunge a trasformarsi in una totale liquidazione. Probabilmente perché – almeno a mio avviso – Formenti continua a condividere alcuni dei principi teorici della tradizione operaista. E, d’altronde, è proprio in virtù dell’interesse immutato per il filone operaista che Formenti conserva sempre una grande attenzione anche per la produzione teorica di Mario Tronti.

Venendo all’oggetto principale del nostro dibattito, è innanzitutto opportuno osservare che accostarsi al pensiero di Tronti – come fa Milanesi nel suo libro – è difficile per molti motivi. Innanzitutto, e in questo caso di tratta di un rilievo quasi scontato, sia perché è difficile dare una valutazione complessiva di una personalità politica che svolge ancora un ruolo attivo, sia perché, si potrebbe osservare, non si può ancora avere quella distanza critica dall’oggetto di studio necessaria per fornire una valutazione meditata. In secondo luogo – e in questo caso il rilievo è probabilmente molto più fondato – perché il suo percorso teorico può apparire, in alcuni passaggi, piuttosto criptico, persino ermetico, e soprattutto perché teoria e pratica politica sembrano collocarsi nella sua esperienza spesso su piani differenti, al punto da far apparire il ‘Tronti politico’ in contraddizione con il ‘Tronti teorico’. Tronti ha persino teorizzato la necessità di conservare sempre una relazione problematica fra teoria e pratica, esplicitando in termini quasi programmatici l’esigenza di affiancare l’uno all’altro il «pensare estremo» e l’«agire accorto». E non è difficile ritrovare più di una conferma di questa convinzione nelle scelte compiute da Tronti negli ultimi anni.

Nonostante nel 2006, al momento della conclusione dell’insegnamento universitario, avesse annunciato il proprio ritiro dalla scena pubblica, Tronti non ha affatto ammainato la bandiera dell’impegno intellettuale e politico. Anzi, proprio da quel momento è tornato a partecipare al dibattito pubblico con un’intensità e un’energia che non aveva più mostrato dagli anni Settanta. In particolare, dal suo nuovo ruolo di Presidente del Centro per la Riforma dello Stato, si è impegnato in una battaglia per l’affermazione della centralità del lavoro: una battaglia culturale ma anche politica, nel senso che Tronti ha indicato proprio nel lavoro il riferimento ineludibile per qualsiasi progetto politico di sinistra, e anche per questo ha in più occasioni assunto una posizione critica nei confronti del Partito Democratico (e in special modo nei confronti del Pd che emergeva dalla segreteria di Walter Veltroni). Questo impegno ha alimentato persino l’impressione di un ritorno alle posizioni degli anni Sessanta, o quantomeno l’idea di una proposta per alcuni versi «neo-operaista», sia sotto il profilo teorico (e in questo senso sono significativi alcuni degli ultimi testi: Non si può accettare, Ediesse, Roma, 2009;Dall’estremo possibile, Ediesse, Roma, 2011; Per la critica del presente, Ediesse, Roma, 2013), sia sotto un profilo più strettamente politico, come per esempio con il sostegno alla lotta degli operai della Fiat contro le ristrutturazioni aziendali (l’episodio teorico più rilevante di questa fase è probabilmente il testo Berlinguer a Pomigliano, compreso nel volumeNuova Panda schiavi in mano. La strategia Fiat di distruzione della forza operaia, Derive Approdi, Roma, 2011). Ciò nonostante Tronti, in vista delle elezioni politiche del febbraio 2013, ha accettato la proposta di candidatura al Senato nelle liste del Pd avanzatagli dall’allora segretario Pierluigi Bersani. E se già in quell’occasione la posizione di Tronti appariva quantomeno eterodossa rispetto alla linea del partito, oggi la situazione appare addirittura paradossale, perché Tronti si trova a sedere in Senato tra le fila di un partito molto lontano dalle stesse posizioni bersaniane (e, per molti versi, molto distante anche da qualsiasi residuo riferimento alla sinistra novecentesca).

Ma la tensione fra teoria e pratica non affiora certo solo negli ultimi anni. Tronti è infatti l’iniziatore di una tradizione, l’«operaismo» italiano, da cui si distacca piuttosto presto e con la quale mantiene da allora un rapporto problematico. Se infatti il Tronti di «Classe operaia» può essere considerato come l’ispiratore di buona parte delle sinistra radicale italiana degli anni Settanta, di fatto si tratta di esperienze politiche da cui il teorico romano rimane sempre distante, e nei confronti delle quali non nasconde anzi una certa ostilità, più che una semplice diffidenza. Probabilmente non esiste però una vera e propria contraddizione fra il Tronti ‘radicale’ degli anni Sessanta e il Tronti ‘realista’ degli anni Settanta, fra l’autore di Operai e capitale e il teorico che ritorna nel Pci per orientarne dall’interno le scelte. A ben guardare, già negli scritti di «Classe operaia» c’è infatti una marcata centralità della politica, una centralità che invece è in gran parte estranea all’operaismo successivo. E proprio per ricostruire questa dimensione spesso sottovalutata della riflessione di Tronti il libro di Franco Milanesi è particolarmente utile.

Milanesi ricostruisce infatti l’intero percorso di Tronti, partendo dagli anni Cinquanta e dal confronto con la tradizione gramsciana e giungendo fino ai giorni nostri, senza dunque conferire una piena centralità alla fase operaista. Quella che Milanesi compie in questo modo è senza dubbio una scelta molto originale, che differenzia il suo libro da molti altri lavori di ricostruzione del pensiero trontiano. Proprio la fase ‘giovanile’ della riflessione di Tronti – quella in senso proprio ‘operaista’ – è stata infatti oggetto di molte indagini già a partire dagli anni Settanta, e ancora oggi è al centro di un grande interesse soprattutto all’estero, tanto che, da questo punto di vista, è quantomeno significativo che uno dei migliori lavori dedicati alla storia dell’operaismo italiano sia stato scritto da uno studioso australiano come Steve Wright (L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Edizioni Alegre, Roma, 2008). Mentre Wright si concentra però in modo pressoché esclusivo sulla fase propriamente ‘operaista’ di Tronti, e dunque sulla «rivoluzione copernicana» compiuta nelle pagine di  Operai e capitale, nel testo di Milanesi sembra invece di leggere, almeno fra le righe, una sorta di diffidenza di Tronti verso quella stagione: una diffidenza che nasce dalla convinzione che l’operaismo ‘puro’ degli anni Sessanta, salti il passaggio politico dell’organizzazione, e dunque il problema cruciale dell’autonomia (o delle autonomie) del politico, ossia il grande enigma alla cui soluzione Tronti lavora incessantemente dalla fine degli anni Sessanta.

Ripercorrendo le sequenze dell’itinerario teorico trontiano – dalle prime prove giovanili all’operaismo degli anni Sessanta, dal rientro nel Pci alla riflessione degli anni Settanta, per finire con gli scritti dell’ultimo ventennio – non è certo casuale che Milanesi torni a evidenziare in più occasioni proprio la centralità dell’enigma del politico, quell’enigma a cui lo stesso Tronti non darà mai una definitiva soluzione. Tanto che lo scritto che doveva portare a una sorta di sintesi l’intera riflessione trontiana sul politico – un testo più volte promesso e annunciato, dal titolo evocativo Per la critica della democrazia politica – non ha mai visto la luce. Naturalmente ci sono molte ragioni che spiegano quest’opera mancata, che molti dei più attenti e appassionati estimatori di Tronti hanno atteso inutilmente. Ma Milanesi cerca di trovare nell’opera del teorico romano quelle tracce che possano consentire di ricostruire (o quantomeno di intuire) il mosaico di quell’opera mai scritta, e forse anche le tracce capaci di indirizzare «oltre» la crisi della politica. Certo, in questo caso, il compito di Milanesi non è facile, perché il Tronti degli ultimi anni adotta un linguaggio spesso allusivo, tutt’altro che agevole da decifrare; un linguaggio sbilanciato verso i temi della spiritualità, in cui emerge una marcata volontà di recuperare una dimensione spirituale, ma nelle cui formule non è sempre così facile riconoscere le implicazioni più o meno direttamente politiche. E naturalmente Milanesi non può evitare di indagare altri due grandi motivi che attraversano la riflessione trontiana degli ultimi vent’anni. Innanzitutto la curvatura ‘antropologica’ che senza dubbio imprime alla ricerca di Tronti una direzione molto differente – o almeno apparentemente differente – da quella seguita negli anni Cinquanta e Sessanta. E in secondo luogo, il rapporto costante ma problematico che Tronti intrattiene con il pensiero della differenza sessuale. Un rapporto in cui inizialmente il pensatore romano investe molto, perché sembra ritrovare nel pensiero della differenza una nuova declinazione della parzialità, del punto di vista di parte, su cui poter fondare un rinnovato sguardo critico nei confronti del presente. Ma il credito che in passato Tronti concedeva al pensiero della differenza è stato negli ultimi anni sensibilmente ridimensionato. Su questo punto mi pare infatti sia intervenuta una vera e propria autocritica, dal momento che in più occasioni Tronti ha affermato che il pensiero femminile non è stato in grado di confrontarsi realmente con la politica, ossia – per dirla in termini un po’ brutali – con il problema dei rapporti di potere e con la prospettiva di una loro effettiva modificazione.

Evidentemente i temi che il libro di Franco Milanesi suggerisce sono molti, e difficilmente riusciremo a svilupparli tutti in questo nostro dialogo. Ma vorrei iniziare sollecitando Carlo Formenti su un punto che in qualche modo ha a che vedere con il recupero che ha compiuto negli ultimi suoi lavori. In particolare in Utopie letali ha mosso una nuova critica alla tradizione operaista, una critica che in questo caso rappresenta in parte un’innovazione rispetto al proprio consolidato atteggiamento nei confronti di questo paradigma teorico. In sostanza Formenti rimprovera oggi all’operaismo (e soprattutto al post-operaismo) di avere eluso il problema della politica e dell’organizzazione, salvo poi risolverlo con scorciatoie politiciste. Ed è proprio qui che Formenti torna – anche in modo sorprendente – a rivalutare la riflessione trontiana sull’«autonomia del politico», non tanto per i suoi effettivi risultati, quanto per il tentativo di affrontare le specificità di questo terreno e per articolare una domanda che però rimane ancora oggi senza risposta. Ed è proprio a partire da questo punto che vorrei chiedere a Formenti cosa resta a suo avviso di quella vecchia riflessione intorno all’«autonomia del politico», e quale sia oggi l’autonomia che dobbiamo cercare al livello politico.

Carlo Formenti: La questione è certo difficile. Personalmente spero che Tronti non scriva un’opera unitaria e chiusa sull’autonomia del politico. Oggi potrebbero essere più feconde proprio le sue riflessioni enigmatiche e allusive poiché non si tratta di definire il concetto di autonomia del politico ma di ragionare attorno alle condizioni di esistenza stessa del politico, domanda che lo stesso Tronti, del resto, si pone in questa sua fase “malinconica” e “nostalgica”, tipica del resto di una tradizione precisa del Novecento. Con questo testo di Milanesi è stata colmata una mancanza, perché ripercorrendo l’intera produzione teorica di un autore come Tronti si fa la storia dello scenario di evoluzione della teoria marxista in Italia e della storia del movimento operaio con tutti i suoi difficili passaggi.

Io stesso sono un esponente dell’operaismo di seconda generazione e, come Bifo, Marazzi e altri, sono poi andato in una direzione opposta a quella poi presa da Tronti. Nel passaggio tra  la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta non conoscevo l’operaismo, ma ero prossimo ai “filocinesi” e ad altri referenti teorici. Il mio incontro con i “Quaderni rossi” è legato a un episodio particolare, rubai – considerandolo un diritto se non si avevano i soldi – l’intero cofanetto delle ristampa anastatica dei “Quaderni rossi”. La lettura di quella raccolta fu per me folgorante. Da lì arrivai alla lettura diOperai e capitale, alla “rivoluzione copernicana” trontiana che cambiò radicalmente il mio panorama di riferimento. Prima la polemica verso il Pci era caratterizzata in termini ideologici, dunque rozzi, mentre il paradigma operaista, di cui Tronti era espressione fondativa, dava strumenti teorici forti alla critica dell’ortodossia marxista made in Italy, quella incarnata nell’Einaudi, la casa editrice che aveva epurato i passaggi ‘imbarazzanti’ di Minima moralia. Ma al di là di ciò, vi erano tre punti qualificanti del pensiero di Tronti. Innanzitutto la critica radicale dell’interpretazione nazional-popolare del pensiero di Gramsci e dunque del togliattismo che conduceva alla perdita del punto di vista della parzialità operaia, del punto di vista di classe, sacrificato in nome del «bene comune»: Tronti giustamente diceva che questo non era marxismo. In secondo luogo, Tronti offriva una lettura particolare del ruolo dello Stato borghese, poi sviluppato da Magnaghi e altri, che non era più lo Stato del laissez-faire, lo Stato «comitato d’affari della borghesia» che garantiva soltanto le condizioni per l’accumulazione, abbandonandosi poi alla spontaneità del mercato, ma era intervento diretto all’interno della regolazione dell’economia, era costruzione antropologica (Foucault direbbe «biopolitica») delle condizioni di riproduzione della classe operaia come elemento subordinato al capitale. Il terzo elemento – e accusa centrale, soprattutto per me che lavoravo nel sindacato – è poi il rilievo di un’incapacità di riconoscere le modificazioni che erano avvenute nell’organizzazione del lavoro e quindi nella  «composizione di classe», concetto assolutamente centrale e fondativo di tutto l’operaismo (e forse è la sua unica eredità). Composizione di classe: cioè il rapporto tra la trasformazione del lavoro e i livelli di coscienza e di pratiche di lotta, spontanei o soggettivi della classe. Un’implicazione è l’immediata politicità del lavoro vivo. Si dice: è finita la distinzione tra lotta politica ed economica perché l’operaio massa ha comportamenti che sono direttamente politici, per cui l’organizzazione politica è  funzione interna alla soggettività operaia e il suo compito non è più quello leninista di coordinare dall’esterno, come un’avanguardia professionale, la classe operaia, ma di organizzare sul piano tattico le lotte. A coronare tutto questo – assunto che poi Tronti ha in parte autocriticato, anche se in modo non completo a mio parere – stava l’idea secondo cui la classe operaia subordina a sé lo sviluppo del capitale. Sono le lotte operaie che guidano, che ‘prendono a calci nel sedere’ il capitale obbligandolo a fare innovazione tecnologica, a svilupparsi, a organizzarsi. Non ci sarebbe il capitalismo come forza innovativa senza la pressione delle lotte operaie. Questo è un paradigma forte, comune a tutta l’area operaista, comune anche a chi ha poi preso le distanze da Tronti. Questa però è anche, secondo me, è una ‘palla al piede’ per la riflessione critica attuale. Perché quel paradigma era connesso a una contingenza storica: quella specifica composizione di classe, l’operaio massa, non può essere fatto valere come principio generale, del tipo “la classe operaia determina sempre lo sviluppo del capitale”. Questo passaggio è stato superato da Tronti, non certo dall’altra componente operaista, quella di Negri, che continua, con l’idea della moltitudine, a pensare questo tipo di rapporto conflittuale.

L’altro passaggio decisivo – ben descritto da Milanesi – è la rottura di «Classe operaia». Forse sarei stato con Panzieri e l’altro discorso  dell’operaismo, più legato all’analisi empirica della realtà della composizione  di classe, dell’organizzazione di fabbrica, delle condizioni di lavoro e dell’esperienza operaia. Panzieri, in un momento identificato come primo grande riflusso, dice che si deve puntare allo studio e preparare le energie per un rilancio. Al contrario, Tronti e Negri puntano al rafforzamento e radicamento nelle fabbriche per l’organizzazione politica. Dunque la frattura Tronti e Negri si è consumata in modo lento, non è legata al fatto che Tronti entra nel Pci. La cosa fondamentale è la tattica politica. Se si leggono le 33 lezioni su Lenin c’è una concezione del pensiero leninista come tattica. Anche Tronti la pensa così, ma va più a fondo ed è qui che comincia la sua riflessione sull’autonomia del politico. Tronti comincia e ragionare su Machiavelli, Hobbes, Lenin come altra faccia della medaglia di Schmitt, il quale cita Lenin come fondatore della riflessione sulla concezione della politica come amico/nemico, idea che accompagna il pensiero di Tronti da lì in avanti. Qui io ritrovo l’ultimo Tronti (e ci siamo recentemente ritrovati anche sul piano personale, come dimostra la sua recensione di Utopie letali). Vede ciò che Negri non aveva visto: un limite della teoria marxista in quanto tale. Cioè che stando fino in fondo nel paradigma del Capitale (ma anche dei Grundrisse, checché ne dica Negri) la classe operaia resta necessariamente forza lavoro, cioè funzione subordinata del capitale. Finelli lo dice bene in un libro recente, l’ultimo Marx si sgancia da Hegel definitivamente, non c’è più il rovesciamento dialettico. Perché, fino a che c’è ‘internità’, allora c’è subordinazione della classe operaia al capitale, c’è una consustanzialità antropologica al capitale. Qui Tronti va contro il limite della sua teoria: non è vero che è la classe operaia a determinare lo sviluppo capitalistico e lo dimostrano trent’anni di controffensiva travolgente dopo il trentennio glorioso in cui il capitale fa la guerra di classe e la vince facendo a pezzi la soggettività operaia. Dunque l’autonomia del politico si pone in modo completamente nuovo rispetto alla tradizione operaista. Trovo in Tronti, a questo punto, elementi del pensiero apocalittico di Benjamin, di Bloch, la politica come irruzione della trascendenza, la politica che crea rottura e discontinuità assoluta. È la politica che crea possibilità di rovesciamento della subordinazione. Ma c’è anche una contraddizione, che è comune anche a Negri, poiché le coppie dentro/controdentro/fuori mantengono un approccio immanente: classe operaia e capitale sono «uno». Allora non c’è possibilità di uscita dal capitale. In realtà il fuori è politico, anche se non viene mai tematizzato fino in fondo da Tronti, in lui come in Negri fedele alla coppia dentro/fuori.

Trovo geniale l’ultimo Tronti critico dei movimenti. Sul ’68 coglie punti veri, dalle pulsioni libertarie alla liberazione degli spiriti animali del neocapitalismo, anche se penso che non vada sottovalutato l’elemento strutturale della costruzione di una forza lavoro tecnico-impiegatizia all’interno delle università, un dato che noi avevamo valorizzato. Sono d’accordo invece con la critica dell’operaio sociale, con la critica della moltitudine. Espressione della dispersione sociale e non della soggettivazione, permeabile alle narrazioni del nemico di classe. Così come è importante la sua critica alla svolta linguistica, ermeneutica, che perde di vista  la divisione in classe che è invece una realtà ontologica di questo modo di produzione. Nella sua produzione finale la fine del Novecento è vista come fine del politico, come suo tramonto. Come fine dell’unico fuori che in qualche modo potrebbe dare alternativa. Scrive Milanesi: «Nel momento in cui il movimento operaio, sconfitto dall’avversario sul campo, interiorizzasse la democrazia borghese come valore, cioè ne dichiarasse la necessità, si consumerebbe definitivamente ogni possibilità di alternativa […] la classe che si era emancipata dal popolo, torna a essere parte di una massa uni-formata nell’orizzonte chiuso del totalitarismo postnovecentesco». Non lo so se Milanesi, ma anche Palano recensendolo, crede che vi siano timidi tentativi di reinventare la possibilità della politica. Ma se ciò accade, resta dentro la seduzione teologica.

Segnala dunque in tre aspetti l’eredità più feconda di Tronti: un pensiero parziale, un pensiero che non produce pensiero ma azione, infine l’antiriformismo. Certo questo appare inevitabilmente in contraddizione con le scelte politiche di Tronti di stare nel Pd. Perché, allora, questa difficoltà a pensare il politico oltre il politico (per usare una formula un po’ stucchevole)? Ci sono due critiche che vengono fatte a Tronti e a Negri (a mio parere, ribadisco, due facce della stessa medaglia). Una critica è quella mossa da Panzieri, che rimproverava a entrambi, al momento della rottura di «Classe operaia», una tensione verso la filosofia delle storia che li portava a sopravvalutare il grado di politicizzazione della classe operaia, enfatizzando il grado di autonomia e autorganizzazione, riducendo il capitalismo a una specie di superfetazione ideologica che vive solo per autosuggestione. In Negri poi questo è diventato quasi una barzelletta. Il capitale, nella trilogia Impero, Moltitudine, Comune, è un fantasma che aleggia sopra le moltitudini, che nel momento in cui si organizzeranno e si sveglieranno faranno sparire il capitale.

L’altra critica, la più precisa, è quella di Esposito. Il conflitto tra operai e capitale è quello tra due unità di uno stesso intero, creando così una cattiva infinità che sposta incessantemente in avanti la soluzione del conflitto. Se non si torna a pensare il fuori, ma solo la lotta di classe in termini di immanenza (come del resto la pensa Marx) non si esce dal capitale. Del resto va ribadito che Marx descrive il capitale come nessun altro sa fare e più di qualsiasi economista ci fa oggi capire la crisi. Ma il Marx rivoluzionario non c’è, ci sono analisi sul 18 brumaio, sulla Comune, ma sono analisi storiche, descrittive. Manca una visione del superamento del capitalismo perché manca anche in Marx l’autonomia del politico. In tutta la storia del movimento operaio manca. E dove non manca è diventata di destra, come si è visto nelNew Labour. Le socialdemocrazie, vedi Renzi, sono forze politiche antioperaie, di destra, forze che agiscono contro gli interessi delle classi subordinate. Allora si deve ripartire sciogliendo questo nodo della pura immanenza. È un nodo metafisico che blocca la possibilità di un salto. Non a caso la trascendenza la si ritrova nel religioso e non nel politico, nel fuori.

Franco Milanesi: Io vorrei porre innanzitutto la questione della continuità nel pensiero di Tronti, perché attorno a questo nodo si gioca gran parte della funzione della teoria trontiana nel suo complesso. Il tema dell’autonomia del politico è a mio parere il tratto fondamentale del suo pensiero ed è presente fin dagli scritti dei “Quaderni rossi”, dunque nella fase strettamente operaista. Pensare che l’agire di classe sia già di per sé politicità, come si afferma in Operai e capitale, significa osservare il conflitto operaio nella sua politicità. Tronti si rende conto, già a metà degli anni Sessanta, che questo passaggio non è necessariamente dato. Che cioè, se è vero che la «rivoluzione copernicana» ha avuto una funzione mobilitante, questa spinta si è esaurita e l’azione sociale non si è risolta in politica. Da questo punto in avanti, l’autonomia del politico è interpretata in senso leninista: è il partito che porta coscienza alla classe, il conflitto deve sostanziarsi in organizzazione e solo il partito può dare consapevolezza di progetto e non solo di condizione. Il partito, da cui Tronti non si stacca mai, è davvero un «moderno principe», è la politica per eccellenza che si intreccia quindi con la questione dello Stato. La politica borghese, dice Tronti, nasce prima del capitalismo che si sviluppa grazie all’azione politica borghese che dai dazi, agli eserciti, alla polizia, alla cultura di massa fa penetrare il controllo e l’immaginario borghese dentro il corpo sociale. La società civile così, come dice Hegel, è bürgerliche Gesellschaft, società borghese. La critica di Esposito, pertanto, è certo centrata, ma io credo che il piano immanente del capitale sia da Tronti messo continuamente in discussione lungo ipotesi di fuoriuscita e di trascendenza. Senza illusioni, come quelle di Negri, il quale descrive efficacemente la composizione tecnica sviluppata dal tecnocapitalismo, ma sbaglia le previsioni inscritte in una presunta composizione politica antagonista. Allora, in Tronti, ci sono tentativi, frammenti, di fuoriuscita, anche ribadendo la funzione del partito. È finito il partito di classe: dirigenti, politici professionisti, popolo, strategia. È finito, ma resta un’eredità. Così il religioso, così l’idea della trascendenza. Come dire: anche lì c’è uno scarto, l’homo religiosus è altro da quello economico e dell’individualismo proprietario. Tutto ciò è percorso da un marcato senso del tragico (Tronti è prossimo al pensiero di Sergio Quinzio). Sono avvicinamenti, tentativi e forse da questo deriva la vena malinconica evidenziata nell’intervista a Gnoli pubblicata da «la Repubblica» in cui Tronti dice di non invidiare i giovani che non hanno vissuto il Novecento. Resta il fatto che un uomo di ottantatré anni ‘prova’ ancora, e io credo che nel Pd bersaniano egli abbia visto ancora un’eredità della forma partito non personalizzata, una possibilità di dare organizzazione al conflitto. Certo ci sono aspetti di scissione tra un pensiero che continua a macinare idee e l’agire politico in un partito come il Pd. C’è forse un tratto esistenziale, l’incapacità di ‘stare fuori’ dalla politica, soprattutto se è vero che il pensiero politico è, come dice, un pensare per l’agire.

Infine vorrei rilevare l’efficacia di alcune sue espressioni: il punto di vista parziale sul tutto, la rivoluzione copernicana, il grande e piccolo Novecento, la democrazia borghese che sconfigge la classe operaia, l’Urss come realtà fattuale del potere operaio, una realtà poi liquidata dal senso comune borghese come “stalinismo”, la critica ai movimenti. È un pensiero che ti obbliga a ricollocarti e affrontare criticamente le questioni che pone. Certo, del ’68 dà un’immagine parziale, poiché è servito come movimento di ricambio del potere ma non è stato solo questo. Oppure, per citare eventi recenti, va capito perché il grande capitale ha vinto negli Usa appoggiando Obama, dandogli milioni di dollari per la campagna elettorale. Questo è vero, ma va anche detto che tralascia la dimensione simbolica di questa elezione e della stessa sfera della politica. Le sue non sono mai ‘provocazioni’, ma dislocazioni del pensiero, come l’idea che sia la democrazia e non l’autoritarismo a sconfiggere la classe operaia; o che l’enfasi sullo stalinismo abbia cancellato il fatto che il popolo in quella fase si è fatto potere, si è fatto Stato. Voglio insomma sottolineare la vitalità del suo pensiero, anche se resta irrisolta la questione dell’immanenza/trascendenza. Infine, sulla questione del religioso. A mio parere Tronti è molto attento al conflitto ma anche all’ordine, machiavellicamente. Conflitto ma non meno Stato, masse ma anche partito, antropologia cristiana ma anche Chiesa, ossia l’organizzazione della Chiesa come capacità di tenere assieme strategia, popolo, ceto dirigente. Cosa portare dietro del bagaglio trontiano? In questa transizione il suo pensiero, anche nelle recenti forme frammentate, è certo utile per pensare le possibilità del politico.

Palano: A questo punto vorrei tornare su alcuni dei nodi che segnalavo all’inizio, se non altro per chiarire che non intendo contrapporre l’uno all’altro il Tronti politico e il Tronti teorico. Quando si fa politica si compiono inevitabilmente degli errori. Certo, da uomo del Novecento Tronti vede il partito come vera forma dell’organizzazione politica, e ciò comporta anche l’accettazione della disciplina di partito. Ma non è questo l’aspetto che mi preme sottolineare. È stato detto – e Milanesi lo mette bene in evidenza nel libro – che negli ultimi anni emerge nella riflessione di Tronti una dimensione antropologica prima assente. A mio parere questa preoccupazione è già presente nei primi scritti, perché mi sembra davvero di poter riconoscere anche nei lavori giovanili l’incubo che la società dei consumi, dominata dall’uomo massa, elimini qualsiasi conflittualità, e anche quella operaia. A questa sorta di incubo ricorrente, che attraversa l’intera opera di Tronti, egli dà risposte diverse. Negli anni Sessanta, nel pieno della stagione operaista, vede nella fabbrica e nella cooperazione produttiva una risposta, un antidoto formidabile alla ‘massificazione’. Poi però riconosce l’insufficienza di questo livello conflittuale e segnala allora la necessità di un passaggio politico, proprio nel momento in cui si avvia la riflessione sull’autonomia del politico. Poi negli anni Novanta emerge la problematica della trascendenza, dunque del teologico-politico e della sfera della spiritualità. La trascendenza, il teologico-politico, la spiritualità vanno pensate nella prospettiva della produzione di un’identità trascendente, ossia di qualcosa capace di tenere assieme gli individui al di là della relazione materiale ed economica. In queste tre fasi nelle riflessioni di Tronti c’è sempre il partito, ma si tratta evidentemente di un partito che, ogni volta, si presenta con un volto ben differente: negli anni Sessanta è un ‘partito tattica’, poi negli anni Settanta diventa un partito ‘gestore’ della trasformazione sociale, e infine assume i contorni di un partito che dovrebbe ricostruire un’identità e una cultura. Quest’ultima è a mio avviso una visione gramsciana più che operaista, e credo in effetti che la riflessione condotta da Tronti negli ultimi anni abbia molto in comune con il Gramsci dei Quaderni. La critica ai movimenti e al ’68 è d’altronde quella di avere recepito l’individualismo della società consumista, che fa sì che nei movimenti si proiettino richieste di tipo individuale. Il problema che suggerisce la riflessione di Tronti è dunque per molti versi questa: oggi che funzione può avere il partito, anche al di fuori di quello che è stato nel Novecento? Può essere ancora un intellettuale collettivo? E questa è, evidentemente, una domanda molto ambiziosa, ma che riguarda tutti noi.

Formenti: tutto quello che avete detto tu e Franco e mi sembra che ruoti attorno alla questione dello Stato. Sto rileggendo un classico di E.P. Thompson The Making of the English Working Class. Dire che oggi la situazione delle classi lavoratrici è neo-ottocentesca non è una metafora. Certo, le condizioni delle classi subordinate non sono le stesse in termini di miseria o eccesso di lavoro (ma in Cina, per esempio per chi lavora alla Foxconn, è molto simile, come lo è il ruolo dello Stato che guida direttamente il mercato, facendo finta di levare solo «lacci e lacciuoli»). Ma, rispetto alle analisi di Marx ed Engels (a parte la quantità superiore di materiale a cui può attingere), Thompson punta sul limite della costruzione immanentista dell’identità di classe. Per esempio Thompson fa vedere come abbiano svolto un ruolo determinante nella formazione dei primi movimenti di classe, della coscienza di classe, la tradizione del giacobinismo inglese, come in realtà l’Inghilterra sia stata molto vicina a un doppione della Rivoluzione francese, soffocata ferocemente, anche grazie alle guerre napoleoniche, perché la guerra patriottica ha fatto passare (come nella prima guerra mondiale) leggi durissime contro le posizioni giacobine sostenute da una sorta di quarto stato, un proletariato di tipo più artigianale che operaio. Ma questa tradizione anche dopo la repressione resta, con artigiani che leggevano Tom Paine o gli utopisti e che trasmettono questa tradizione. C’è poi stato un ruolo importante delle sette ereticali metodista e anabattista con visioni apocalittiche che ritroviamo in Blake. È una costruzione ideologica non soltanto delle condizioni materiali su cui si sarebbe costruito il progetto politico. Ciò ci fa capire che la politica proletaria nasce prima del partito, così come quella borghese nasce prima del capitale, come tu Franco hai sottolineato. Ora, cosa vuol dire fine del Novecento? Che è fallito il partito bolscevico ma anche la lunga marcia dentro le istituzioni, perché viviamo in un mondo postdemocratico, come dicono anche i socialdemocratici come Rosanvallon, Crouch o Piketty, viviamo in regimi oligarchici.

C’è un’alternativa a tutto ciò? Io ho qualche barlume di speranza grazie alle mie frequentazioni in America Latina. Qui stanno succedendo cose interessanti. Non tanto i regimi populisti che frenano la lotta di classe. Invece c’è da ragionare in termini di composizione tecnica e composizione politica che può essere molto lontana dall’idea tradizionale di classe operaia. Io per esempio, come dico nel mio lavoro Magia bianca, magia nera, la vedo nei movimenti degli indigeni in Equador. Sono indios campesinos che non hanno niente a che fare con la classe operaia, ma sono antropologicamente portatori di una forma di religiosità molto diversa dalla nostra, che esprime un’idea di comunità, di rapporto con la natura e l’ambiente che ha avuto un’influenza politica molto forte sui movimenti sudamericani, in Venezuela o Equador. L’esperienza più interessante è la Bolivia di Evo Morales. Infatti Morales ha messo in piedi un movimento  che sembra quasi un’incarnazione del discorso gramsciano delle classi subordinate che si fanno a un tempo partito e Stato. Il partito è diverso dalla nostra tradizione occidentale e ottocentesca, è una federazione di soggetti e movimenti, sindacati indigeni movimenti urbani e contadini, una pluralità di soggetti che sta occupando e plasmando dall’interno le istituzioni. Da destra e da sinistra lo criticano per una visione corporativa delle istituzioni. Ma è proprio questo, la politica come mediazione tra interessi delle classi subordinate e in rapporto di inimicizia con le élites scalzate dalla rivoluzione bolivariana. Non è un modello, d’accordo, va visto nella sua contingenza, ma può essere inteso come un allargamento della prospettiva in cui possiamo pensare a un altro futuro. Dunque, io sono più ottimista se osservo i paesi in via di sviluppo che si chiamavano paesi del Terzo mondo. Rappresentano oggi il 70% della popolazione mondiale, con una classe operaia di due miliardi di persone, se mettiamo insieme Cina, India e paesi ex socialisti dove si manifestano conflitti di classe molto forti. Ferruccio Gambino, sociologo del lavoro operaista e mio mentore, che ha curato il libro di una sociologa che si chiama Pung Ngai, autrice di un libro sulla formazione della nuova classe operai cinese, è andato a Shenzhen, il cuore della zona speciale in Cina. Racconta di aver fatto riunioni clandestine con i quadri sindacali e che queste riunioni gli ricordavano quelle dei Quaderni rossi a Torino. Insomma, le cose non ritornano linearmente, ma a spirale, si ripropongono costellazioni di significato e di rapporti di forza inattesi. Se non c’è più speranza per l’Europa dove si è consumata la fine del politico – forse l’America è più interessante se si osservano le forme del nuovo antagonismo – bisogna guardare con interesse al resto del mondo, che può riproporre elementi del tutto inattesi.

In conclusione, la teoria operaista era uno strumento di lotta: per questo rimane importante, non per la sua funzione di verità. Poi non ce l’abbiamo fatta e si doveva riconoscere che il movimento era stato sconfitto a partire dai contratti del ‘73. La classe operaia italiana aveva chiuso il suo ciclo di lotte. L’idea dell’operaio sociale come soggetto insurrezionale, e su ciò litigai con Negri, sosteneva un’operazione politica folle. Se cambia la contingenza si deve cambiare paradigma. Su questo Lenin era geniale. La teoria politica non è una scienza esatta, non offre modelli transtorici, ma ha senso finché produce lotta, coscienza, progettualità politica. Poi bisogna costruire altro.

Qui la recensione del libro di Franco Milanesi

da Sinistra in Rete

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