‘Il tipo di città in cui vogliamo vivere è legato al tipo di persone che vogliamo essere’
Storicamente, in tutto il mondo si guarda ai ’60 come ad un periodo di crisi urbana. Negli Stati Uniti, per esempio, fu un momento in cui molte importanti città furono incendiate. Ci furono rivolte e quasi rivoluzioni in città come Los Angeles, Detroit e, chiaramente, nel 1968 dopo l’assassinio del dottor Martin Luther King, in circa 120 città statunitensi ci furono agitazioni sociali e azioni ribelli più o meno di massa. Ricordo questo degli Stati Uniti, perché ciò che stava effettivamente accadendo era che la città si stava modernizzando. Si stava modernizzando riguardo all’automobile; si stava modernizzando riguardo alle aree residenziali. La Vecchia Città, o ciò che era stato il centro politico, economico e culturale della città durante i ’40 e i ’50, stava restando alle spalle. Ricorda, queste tendenze stavano avvenendo in tutto il mondo capitalista avanzato. Non avveniva così solo negli Stati Uniti. C’erano seri problemi in Gran Bretagna e Francia, dove un modo di vita più antico stava venendo smantellato –un modo di vita di cui, credo, nessuno dovrebbe essere nostalgico–, ma questo antico modo di vita veniva rimosso e sostituito da un nuovo modo di vita basato sulla commercializzazione, la proprietà, la speculazione sulla proprietà, la costruzione di strade, l’automobile, la suburbanizzazione, e con tutti questi cambiamenti abbiamo visto un aumento della disuguaglianza e della agitazione sociale.
Secondo dove tu fossi in quel momento, queste erano disuguaglianze strettamente di classe o disuguaglianze di classe focalizzate su specifici gruppi minoritari. Per esempio, ovviamente negli Stati Uniti era la comunità afroamericana situata nei centri urbani, che aveva molte poche opportunità di lavoro e risorse. Così, l’epoca dei ’60 fu un periodo che fu descritto come una crisi urbana. Se ti volti indietro e guardi tutte le commissioni che dai ’60 stavano indagando su cosa fare con la crisi urbana, c’erano programmi governativi portati avanti dalla Gran Bretagna alla Francia, e negli Stati Uniti. Ugualmente, tutti stavano cercando di affrontare questa “crisi urbana”. Mi sembrò un tema affascinante da studiare e una esperienza traumatica da vivere. Sai, questi paesi che ogni volta erano più e più opulenti stavano lasciando indietro gente che stava venendo isolata in ghetti urbani e trattata come esseri umani non esistenti. La crisi dei ’60 fu cruciale, e credo che Lefebvre la intese abbastanza bene. Credeva che in queste aree la gente dovesse avere voce per decidere come dovrebbero essere queste aree, e che tipo di processo di urbanizzazione dovrebbe aver luogo. Allo stesso tempo, quelli che resistevano volevano far fare marcia indietro all’ondata di speculazione sulla proprietà che stava cominciando a distruggere le aree urbane lungo i paesi capitalisti industrializzati.
Nel 1° capitolo scrivi: “La questione di che tipo di città vogliamo non può essere separata dalla questione di che tipo di persone vogliamo essere, di che tipo di relazioni sociali cerchiamo, che relazioni manteniamo con la natura, che stile di vita desideriamo o che valori estetici abbiamo”. Nonostante ciò, prima di questa idea, fai esplicitamente riferimento al contesto neoliberista in cui viviamo. Più avanti nel capitolo, menzioni la Comune di Parigi come un evento storico da analizzare e che probabilmente ci aiuta a concettualizzare a cosa possa somigliare il “diritto alla città”. Ci sono altri esempi storici, inclusa la Comune di Parigi, sui quali possiamo riflettere? Puoi parlare delle sfide che affrontiamo, specificatamente dentro il contesto neoliberista?
Credo che la proposta su che tipo di città vogliamo costruire dovrebbe rispecchiare i nostri desideri e le necessità personali, è una proposta molto importante. Sai, il nostro ambiente sociale, culturale, economico, politico e urbano, è molto importante. Come sviluppiamo queste attitudini e tendenze? Questo è importante. Così, vivendo in una città come New York devi viaggiare attraverso la città, spostarti, e trattare con le altre persone in un modo molto determinato. Come tutto il mondo sa, i newyorchesi tendono ad essere freddi e bruschi con gli altri. Questo non significa che non si aiutino tra loro, ma per avere rapporti nel il trambusto quotidiano e la grande quantità di gente nelle strade e nella metro, devi confrontarti con la città in un modo determinato.
Sulla medesima linea, vivere in una urbanizzazione privata nelle aree residenziali porta a determinati modi di pensare su in cosa dovrebbe consistere la vita quotidiana. E queste cose evolvono in differenti attitudini politiche, che spesso implicano il mantenimento di certe urbanizzazioni private ed esclusive a costo di ciò che avviene nella periferia. Queste tendenze sociali e politiche sono create dal tipo di ambiente che creiamo. Per me questa è una idea molto importante: le risposte rivoluzionarie all’ambiente urbano hanno molti precedenti storici. Per esempio, nel 1871 a Parigi c’era una specie di atteggiamento per cui la gente voleva un tipo di urbanizzazione differente; volevano che vivessero lì differenti tipi di persone; era una reazione allo sviluppo speculativo-consumistico della classe alta che aveva luogo in quel momento. Di conseguenza, ci fu una sollevazione per richiedere differenti tipi di relazioni: relazioni sociali, relazioni di genere e relazioni di classe.
In questo senso, se vuoi costruire una città, diciamo, dove le donne stiano comode, per esempio, costruiresti una città molto differente da quelle che conosciamo. Tutte queste questioni sono legate alla questione di in quale tipo di città vogliamo vivere. Non possiamo separarla dal tipo di persone che vogliamo essere; che tipo di relazioni di genere, di classe, ecc. Per me, il progetto di costruire la città in un modo differente, con una filosofia differente, con intenzioni differenti, è un’idea molto importante. Questa idea è stata occasionalmente intrapresa nei movimenti rivoluzionari, come la Comune di Parigi. E ci sono molti altri esempi che potremmo citare, come lo sciopero generale a Seattle intorno al 1919. Il popolo prese il controllo di tutta la città, e cominciarono ad installare strutture comunitarie. Le medesime cose stavano avvenendo a Buenos Aires nel 2001. A El Alto nel 2003 ci fu un altro tipo di eruzione. Durante gli ultimi 20-30 anni, in Francia, abbiamo visto le aree suburbane dissolversi in rivolte e movimenti rivoluzionari. In Gran Bretagna abbiamo visto a volte questo tipo di rivolte e sollevazioni, che sono realmente una protesta contro il modo in cui si vive la vita quotidiana. Ora, i movimenti rivoluzionari nelle aree urbane si sviluppano abbastanza lentamente. Non puoi cambiare tutta la città in una notte. Ciò che vediamo, nonostante ciò, è una trasformazione nello stile di vita dell’urbanizzazione nel periodo neoliberista.
Precedentemente, diciamo alla metà dei ’70, l’urbanizzazione fu caratterizzata da molte di queste proteste; c’era molta segregazione; e la risposta a molte di queste proteste fu effettivamente di ridisegnare la città secondo questi principi neoliberisti di autosufficienza, di assunzione della responsabilità personale, di competizione, la frammentazione della città nelle urbanizzazioni private e negli spazi privilegiati. Cosicché, per me, ridisegnare la città è un progetto a lungo termine. Fortunatamente, la gente è obbligata a pensare riguardo a una qualche forma di trasformazione rivoluzionaria, che avviene durante un punto particolare del tempo, come a Buenos Aires nel 2001, dove ci furono movimenti che guidarono occupazioni di fabbriche e fecero assemblee. Di fatto, furono capaci di suggerire, in molti modi, come si sarebbe organizzata la città e incominciarono a fare domande serie: Chi vogliamo essere? Come dobbiamo relazionarci con la natura? Che tipo di urbanizzazione vogliamo?
Puoi parlare di alcuni di questi termini? Per esempio, puoi esaminare la suburbanizzazione come il risultato di “un modo di assorbire il prodotto eccedente e così risolvere il problema di assorbimento dell’eccedenza di capitale? In altre parole, perché sono state concretamente svuotate le nostre città? Questa domanda è particolarmente profetica per i nostri ascoltatori locali della regione del rust belt [“la cintura dell’ossido”, le antiche regioni di predominio industriale del Medio Occidente e della costa Est degli USA], che è stata completamente devastata durante gli ultimi 30-40 anni. O, per esempio, ora costa circa 60 dollari parcheggiare durante il giorno nel centro di Chicago, mentre le aree residenziali esplodono per l’eroina e i quartieri delle minoranze sono piagati da violenza, impoverimento e oppressione poliziesca. Puoi parlare di questi processi?
Di nuovo, questo è un processo lungo, interminabile. Permettimi di tornare ai ’30 e alla Grande Depressione. Vediamo: Come uscimmo dalla Grande Depressione? E quale era il problema durante la Grande Depressione? Uno dei grandi problemi che tutto il mondo aveva identificato fu che non c’era un mercato forte. La capacità produttiva era lì. Ma non c’era modo di assorbire i flussi dei profitti, per dirla così. Cosicché lì c’era una eccedenza di capitale senza nessun luogo dove andare. Giusto durante i ’30 ci furono frenetici tentativi per trovare un modo di spendere questa eccedenza di capitale. Avevi cose come il “Programma di Opere” di Roosevelt. Sai già, costruire superstrade e cose di questo tipo. Concretamente cercare di assorbire l’eccedenza di capitale e l’eccedenza di manodopera che c’era in quel momento.
Ma negli anni ‘30 non si trovò una soluzione reale fino a quando arrivò la II Guerra Mondiale. Allora, tutta l’eccedenza fu immediatamente assorbita nello sforzo di guerra –produrre munizioni e altro–. Così, la II Guerra Mondiale, a prima vista, dette una soluzione al problema della Grande Depressione. Allora hai la questione dopo il 1945: Che succederebbe quando la guerra finirà? Che succederà con tutto questo capitale extra? Bene, allora hai la suburbanizzazione degli Stati Uniti. In realtà la costruzione delle aree residenziali, e in quel momento era la costruzione di aree residenziali benestanti, si trasformò nel modo con cui veniva assorbito il capitale eccedente. Per prima cosa costruirono il sistema delle superstrade; dopo, tutto il mondo doveva avere un’automobile; dopo, la casa delle aree residenziali si trasformò in una specie di “castello” per la popolazione operaia. Tutto questo ebbe luogo mentre si lasciavano indietro le comunità impoverite dei centri urbani. Questo fu il modello di urbanizzazione che ebbe luogo nei ’50 e ’60. Le eccedenze, che il capitale produce sempre, funzionano in questo modo: all’inizio del giorno i capitalisti incominciano con una certa quantità di denaro, e alla fine del giorno terminano con più denaro. Sorge la domanda: che fanno con il denaro alla fine del giorno? Bene, devono trovare qualche luogo dove investirlo: da lì la crescita.
I capitalisti hanno sempre questo problema: dove sono l’espansione e le opportunità per fare più denaro? Una delle grandi opportunità di espansione dopo la II Guerra Mondiale fu l’urbanizzazione. C’erano altre opportunità, come il complesso militare-industriale, ecc. Ma fu principalmente attraverso la suburbanizzazione che furono assorbite le eccedenze. Questo creò molti problemi, come la crisi urbana della fine dei ’60. Allora hai una situazione in cui il capitale in realtà torna nelle principali città e di conseguenza rioccupa il centro urbano. Si inverte il modello. Così, sempre più si espellono verso le periferie le comunità impoverite mentre le popolazioni benestanti tornano nel centro della città. Per esempio, nel 1970 a New York potevi procurarti uno spazio, giusto nel centro della città, per quasi nulla perché c’era una tremenda eccedenza di proprietà, e nessuno voleva vivere nella città. Ma tutto questo è cambiato: la città si è trasformata nel centro del consumismo e delle finanze. Come ricordavi, costa molto alloggiare la tua macchina come alloggiare una persona. Questa è la trasformazione che è avvenuta. Riassumendo, il processo di urbanizzazione ha luogo lungo i ’40, prolungandosi fino ai ’60.
Allora, nel periodo seguente ai ’70 ha luogo una riurbanizzazione. Dopo i ’70, il centro della città diventa estremamente ricco. Di fatto, Manhattan passò dall’essere un luogo accessibile nei ’70 ad essere, a tutti gli effetti, una estesa urbanizzazione privata per gli estremamente ricchi e potenti. Nel frattempo, le comunità impoverite, abitualmente minoranze, vengono espulse verso la periferia della città. O, nel caso di New York, la gente fuggì in piccole città nel nord dello Stato di New York, o in Pensilvania. Il modello generale di urbanizzazione ha a che vedere con questa questione di dove trovi opportunità redditizie per investire il capitale. Come abbiamo visto, più o meno nei passati 15 anni le opportunità redditizie sono scarseggiate. Durante questo periodo una enorme quantità di denaro è entrata a fiumi nel mercato immobiliare, nella costruzione di abitazioni e in tutto questo. Allora abbiamo visto ciò che accadde nell’autunno del 2008, quando scoppiò la bolla immobiliare. Così, bisogna guardare l’urbanizzazione come un prodotto della ricerca di modi con cui assorbire la produttività e la produzione crescente di una società capitalista molto dinamica che deve crescere ad un tasso del 3% di crescita composta se vuole sopravvivere. Per me questa è la domanda: Nei prossimi anni come assorbiremo questo 3% di crescita composta per evitare i dilemmi di urbanizzazione/suburbanizzazione del passato? È interessante come si potrebbe fare.
David Harvey è professore di Antropologia e Geografia nel Graduate Center della City University of New York (CUNY), direttore del Center for Place, Culture and Politics, e autore di numerosi libri, incluso il suo ultimo “Città ribelli: dal diritto alla città alla rivoluzione urbana”. Ha insegnato per 40 anni Il Capitale di Karl Marx.
Vince Emanuele è il presentatore del programma “Veterans Unplugged Radio”, che viene emesso tutte le domeniche a Michigan City (Indiana). Vince è anche membro della Veterans for Peace (Veterani per la Pace) e fa parte del consiglio dei redattori di Iraq Veterans Against the War (Veterani dell’Iraq contro la Guerra).
traduzione a cura del Comitato Carlos Fonseca
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