Oltre l’anti-proibizionismo. Per una critica dell’industria del divertimento.
Ma questa premessa, utile per inquadrare lo scenario complessivo, non deve impedirci di fare alcune riflessioni attorno alla morte dei due giovani al Cocoricò di Riccione e al Guendalina di Santa Cesarea Terme, per quanto quest’ultimo decesso è riconducibile ad una cardiopatia del giovane, e non al consumo di droga come aveva già pontificato lo sciacallaggio mediatico. Inutile dire che il dibattito è veramente desolante. Riuscire a trovare qualcosa che vada oltre le strumentalizzazioni mediatiche è impresa ardua. Uno dei pochi interventi lucidi viene da Il Foglio. Il realismo reazionario sembra cogliere il punto molto più delle retoriche annaquate di “sinistra”. Oltre a Il Foglio non sono mancate altre prese di parola che si distanziano dal coro che invoca più repressione. Ma anche in questo caso ci sembra si faccia fatica ad andare oltre la scontatezza dell’antiproibizionismo. Che il proibizionismo faccia morti e che ci sia il bisogno di politiche che puntino alla riduzione del danno siamo assolutamente d’accordo. Eppure anche queste, nel quadro attuale, rischiano di essere retoriche vuote. Così come è vuota retorica parlare di consumo consapevole in un contesto in cui il mercato non è regolato certo dalle migliaia di giovani e meno giovani che scelgono di consumare, ma in cui è il mercato stesso che si impone sui consumatori scegliendo quali droghe andranno per la maggiore. E anche questo ci sembra un dato scontato. Allora, probabilmente, si impone una riflessione che provi ad inquadrare lo stato attuale dell’industria del divertimento e i meccanismi con i quali funziona.
Dopo la decisione del questore di Rimini di chiudere per quattro mesi il Cocoricò a seguito della morte di un sedicenne, il dibattito pubblico si è polarizzato tra quanti sono favorevoli alla misura e quanti invece ritengono che questo ennesimo atto repressivo sia assolutamente inutile; tra chi pensa che manchino i controlli e chi ritiene che non si possa controllare tutto e la responsabilità non sia quindi da attribuire ai gestori. Volendo prendere posizione in questa polarizzazione risulta piuttosto scontato schierarsi con i secondi. Eppure, proprio tra questi, tra chi si schiera giustamente contro le politiche repressive, ci sembra mancare una riflessione critica rispetto a come vengono costruiti e gestiti questi luoghi.
Basta farsi un giro sulla pagina facebook del Cocoricò o ascoltare qualche imbarazzante conferenza stampa del suo (ora ex) amministratore delegato, Fabrizio De Meis, per inorridire. Un mix di infamia e opportunismo. Fin dalle prime ore che sono seguite alla morte del giovane si è alimentata la litania sulla repressione e sui controlli che con fermezza il locale porta avanti. Si è andati dagli spot contro la droga con l’iniziativa svolta nella comunità di San Patrignano (come se fosse un luogo da valorizzare) o i mega cartelloni che mettono in guardia dal consumo, ai sistemi di telecamere che controllano tutto il locale, fino alla rivendicazione di modalità di controllo che sconfinano anche i paletti della legalità pur di non fare entrare droga. Queste le modalità con cui il De Meis ha provato a dimostare che il Cocoricò gioca una battaglia a tutto campo contro la droga. Ma non si è fermato qui. Dopo il piagnisteo sulla politica che non combatte con i giusti mezzi al suo fianco, ha deciso anche di avanzare nuove proposte: daspo per gli spacciatori e tampone antidroga all’ingresso. I più maliziosi potrannopensare che l’incentivo è a consumare direttamente dentro per mano di spacciatori immuni al daspo. Perchè qui il punto è semplice e lo toccava il già citato articolo de Il Foglio: il consumo è parte integrante ed ineliminabile di questo mondo . Se al “Cocco” pensano veramente di poter eliminare la droga sono degli stolti ingenui. Ma non pensiamo lo siano, ingenui soprattutto. Ed è così che la realtà e l’auto-rappresentazione mediatica viaggiano su due binari completamente diversi. E tutto questo si gioca sulla pelle di migliaia di persone. Ma poco importa. Quando il profitto è l’unica lente con cui si guarda ai giovani che attraversano questi luoghi le modalità non possono che essere queste.
Del resto basterebbe ricordare l’operazione di sciacallaggio e strumetalizzazione dopo la morte di un giovane durante un rave a Sagrate (Mi) nel 2008 del dj Coccoluto (che al Cocoricò gioca in casa e che in queste settimane è impegnato in prima fila nel richiedere maggiore repressione e controlli). Coccoluto a Repubblica, in questo articolo, dichiarava: “Una serata storta dipende molto da chi organizza, da quali corde decide di andare a toccare. Una morte come questa è l’effetto di un’organizzazione maldestra della serata. […] Nei club organizzati c’è gente professionale che paga le tasse e ha le licenze per organizzare feste come questa, qui invece pesa l’idea dell’approccio anarchico, la caratteristica del rave illegale che nasce contro tutto e tutti, e cresce sull’orgoglio di essere fuori dal sistema”.
Insomma, Coccoluto strumentalizza la morte di un giovane per attaccare un’esperienza, quella dei Rave o Free party (per quanto questa si possa considerare chiusa), nata proprio in contrapposizione alle logiche commerciali di discoteche e locali. Ma, senza voler entrare nel merito di quella esperienza, il punto è anche un altro: se vogliamo seguire il ragionamento perverso di Coccoluto, la morte del giovane al Cocoricò è chiaramente responsabilità degli organizzatori. Non capiamo allora come mai si sbatta così tanto contro la chiusura del locale difendendone la gestione e chiedendo maggiore aiuto alle istituzioni per la repressione.
Allora, tra chi sostiene che il “Cocco” sia responsabile della morte del giovane per i mancati controlli e chi chi lo smarca da ogni responsabilità, bisogna trovare il coraggio di dire che “si, sono responsabili”, ma lo sono non per i mancati controlli, non per la poca repressione, bensì lo sono nella misura del loro opportunismo mediatico, della loro visione orientata tutta al profitto, dove chi attraversa quel luogo è carne da spolpare. Una visione per la quale conta l’apparenza di un mega cartellone con scritto “la droga ti uccide” o l’immaggine di buttafuori invasivi da poter regalare ai giornali, piuttosto che il benessere di chi attraversa il locale. Perchè se sai che il consumo è parte ineliminabile di questo mondo, e al di là delle sparate mediatiche De Meis e compagnia lo sanno bene, piuttosto dell’invasività di unbuttafuori, è di un lavoro costante di informazione e monitoraggio che dia possibilità di intervento immediato in caso di malori quello di cui c’è bisogno. E invece ci hanno abituto che se nel locale stai male rischi anche di essere buttato fuori senza complimenti, casomai perché non vogliono problemi dentro il locale!
Non siamo di fronte a scelte dettate soltanto dalle leggi repressive, ma ci sembra piuttosto una precisa visione di quella che è l’industria del divertimento. E’ qui che, pur non volendo entrare nel merito, si impone una riflessione più specifica sullo stato attuale della club culture.
Soltanto qualche mese fa un altro grave episodio di cronaca aveva investito la scena, quando, durante il Monegros Italia svoltosi all’Old River Park nel casertano, un giovane è morto dopo una rissa finita in coltellate. Dopo quella vicenda la scena sembrava volersi interrogare sull’imbruttimento dilagante. L’impotenza e l’inutilità di quel dibattito sembra essere racchiuso in questo articolo del giornalista musicale Damir Ivic. All’indomani dell’episodio, Ivic, poneva la necessità di rimettere la musica al centro. Un articolo che pur nella sua buona volontà non solo non dava risposte, ma non tracciava nemmeno possibili strade da seguire. “Riportiamo al centro la musica” significa tutto e nulla. Riportarla al centro rispetto a cosa?
“Basta con la musica elettronica come playground perfetto per potersi strafare fino a non capire più nulla, fino a non essere più responsabili delle proprie azioni e lucidi su quello che ci succede attorno. Non sono le persone strafatte ad accoltellare – non in questo caso, probabilmente – ma il punto è un altro: il punto è che la musica non è un’esperienza per uscire abbruttiti.” Cominciava così l’articolo. Ancora una volta il problema sembra tutto schiacciato sulla droga. Ma pensiamo veramente che, rispetto ai decenni passati, il consumo sia così fuori controllo? Non ci sembra affatto. C’è piuttosto un uso meno cansapevole. Quello sicuramente. Ma fin quando avremo i Fabrizio De Meis o i Coccoluto che si elevano pubblicamente (e apparentemente) a paldini dell’anti-droga, pur sapendo che senza consumo la Piramide non sta in piedi, non potrà andare diversamente.
Riportare la musica al centro significa farlo contro il profitto. Contro quella logica che vede i giovani che attraversano i locali soltanto come consumatori dai quali tirar fuori tutti i soldi destinati al week-end, spesso risparmiati con non poca fatica. Tutto per un’offerta culturale e musicale non certo di spessore. Tra leggi repressive e mancanza di volontà degli addetti ai lavori, un dato sicuramente da registrare è l’assenza di un’offerta culturale che vada oltre la “serata” concentrata nelle sue poche ore. Nella club culture attuale sembrano latitare tanto i pre-serata, quanto gli after. Il risultato è quello di veder compresso tutto in poche ore, dove anche il consumo diviene qualcosa di più “vorace” per provare a rompere subito il trauma tra la normalità esterna ed l’entrata nel locale e “godersi” così le poche ore a disposizione. E la tendenza sembra approfondirsi proprio in questa direzione. Infatti, proprio in questi giorni, a Firenze, si parla di un accordo tra comune e gestori che vieta l’entrata in discoteca a chi, in base all’alcol test distribuito dagli steward, supera la soglia di 0,5 grammi/litro. Insomma, prima di entrare non puoi bere nemmeno due birre, ma puoi scegliere di “spaccarti” dentro il locale a prezzi mai contenuti e con una qualità dell’alcol quasi sempre bassissima.
Insomma, ben venga la critica del proibizionismo e la necessità di politiche di riduzione del danno, ma dinanzi ad un’industria del divertimento che sembra completamente impermeabile a qualsiasi istanza che non sia quella del profitto per il profitto, questa rischia di essere retorica che cade nel vuoto.
Riprendendo il titolo di questo interessante articolo uscito su Internazionale qualche mese fa, possiamo dire che milioni di persone hanno ancora voglia di ballare. Resta il come e il dove lo faranno. Staremo a vedere se qualcosa di nuovo, dal basso, di rottura, emergerà. Certo, come ci sembra lasci intendere anche la chiusura dell’articolo appena citato, non pensiamo si possa dare nella riproposizione di esperienze passate.
Seguiranno approfondimenti concentrati sui contesti sociali che esprimono il bisogno di accedere al consumo della “merce-divertimento”…
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