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“Potevamo fare di San Basilio una piccola Derry”: riflessioni a partire da Fabrizio Ceruso

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Riportiamo il contributo di un compagno della tiburtina alla vigilia dell’anniversario della morte di Fabrizio Ceruso e del corteo che domani dalle ore 16 partirà a Via Fiuminata (San Basilio).

L’8 Settembre ricorrerà il 44° anniversario della morte di Fabrizio Ceruso, giovane militante dell’Autonomia Operaia di Tivoli ucciso dalla polizia nel 1974 durante lo sgombero delle case popolari occupate su via Montecarotto, passata alla storia come la Battaglia di San Basilio. Al termine di un imponente ciclo di occupazioni nella Capitale, il governo Rumor, nelle persone di Giulio Andreotti, allora ministro della Difesa, ed Emilio Taviani, ministro dell’Interno, decise di portare un attacco risolutivo al movimento di quegli anni proprio a San Basilio, appoggiato dal Partito Comunista che sosteneva le istanze degli assegnatari delle case occupate. Gli scontri di quelle giornate divennero simbolo di una battaglia decisiva per entrambe le parti, conclusasi con l’assegnazione di alcune case agli occupanti in un quartiere vicino. La prima, vera vittoria dei movimenti di lotta per la casa romani fu pagata a carissimo prezzo, con la morte di Fabrizio.

L’anniversario di Ceruso ha ripreso linfa negli ultimi anni grazie al lavoro di memoria storica del progetto “San Basilio, storie de Roma”, che in questi giorni pubblicherà online il documentario sulla storia del quartiere e la battaglia del 1974, ed alla rinnovata presenza di realtà sociali e occupazioni abitative sulla Tiburtina. Un appuntamento divenuto ormai fondamentale per la città, soprattutto per coloro che ancora oggi, a 44 anni di distanza, lottano per un alloggio degno. Riportare all’attualità gli avvenimenti che costituiscono il patrimonio collettivo, la “pelle” di questa città è uno snodo di fondamentale importanza nell’attuale fase di forte repressione che mira a cancellare del tutto ogni spazio di agibilità politica. La strategia da porre in essere per resistere a questo violento attacco passa anche per la riattualizzazione di episodi come la Battaglia di San Basilio.

Spesso, nel ricordo di eventi simili, si rischia facilmente di scadere nella liturgia. Non è, tuttavia, il caso di Ceruso, la cui memoria è espressione di realtà attive quotidianamente sul territorio romano e costituisce, anzi, un modello riproducibile, sia a livello di mobilitazione che in termini di analisi. Non si tratta di fantasiosi paragoni tra gli anni Settanta e l’attualità, ma di chiavi di lettura dei contesti odierni. Sulla Tiburtina questa metodologia è già stata di prezioso aiuto in tempi non sospetti, ad esempio nel dicembre 2016 quando gli abitanti di San Basilio vennero agli onori delle cronache per aver impedito l’assegnazione di una casa popolare, occupata da un abitante del quartiere, ad una famiglia marocchina. Distaccandosi sia dai razzisti che sostenevano la cacciata della famiglia, sia da coloro che in puro stile “magliette rosse” tacciavano gli abitanti di razzismo puro e semplice, la percezione avuta tra chi attraversa quotidianamente quel territorio è stata quella di un contesto complesso in cui la trappola l’aveva ordita l’amministrazione comunale pentastellata: a fronte di migliaia di case vuote, il Dipartimento per le Politiche Abitative continua a soffiare sul fuoco della guerra tra poveri sgomberando gli occupanti e facendo assegnazioni volutamente provocatorie. Uno scenario molto simile al 1974 a San Basilio, in cui ad essere contrapposti erano occupanti di case ed assegnatari, ma il vero problema era la carenza di alloggi pubblici. Diversi gli interpreti, stesso l’effetto. Come questo, di episodi a Roma e non solo ce ne sono stati e ce ne saranno molti. Non si deve mai giustificare il razzismo, ma parimenti non si deve neanche perdere la lucidità nell’analisi degli scenari. Nè tantomeno perpetrare logiche assistenzialiste o pedagogiche, tanto nei confronti dei migranti quanto dei ceti popolari. La rabbia di quei giorni si trasformò, due settimane dopo, in un picchetto antisfratto in quartiere con duecento persone ed un blocco di ore sulla Tiburtina in solidarietà ad uno sgombero dall’altra parte della città.

In maniera simile si può analizzare l’operato della controparte. Alla fine del 1974 Andreotti e Taviani decisero di schierare l’esercito per fermare l’ondata di occupazioni a Roma, scatenando a San Basilio una vera e propria guerra. Ma a fare sponda agli esecutori materiali c’era il Partito Comunista che, ormai distante da quelle pratiche di lotta e concentrato sull’avversione ai gruppi extraparlamentari protagonisti dei movimenti per la casa, aveva apertamente sostenuto le istanze di sgombero dei legittimi assegnatari. Dunque la ricerca delle responsabilità non poteva essere esclusivamente concentrata sulle forze reazionarie, che come tali hanno agito, bensì anche sulla mancanza di volontà politica del PC nel trovare una soluzione che non passasse dallo scontro frontale. La fornitura di un sicuro retroterra da parte di quella forza politica che doveva costituire l’opposizione diede carta bianca al governo Rumor. Un meccanismo che più volte si verificherà negli anni successivi, con conseguenze anche più pesanti. Ma questa è un’altra storia.

Tornando all’attualità, e sottolineando le dovute proporzioni fra i contesti, il clima estremamente pesante che si respira attualmente nel dibattito pubblico italiano è cosa nota e già ampiamente sviscerata. Non bisogna, tuttavia, cadere nel facile tranello della personificazione dell’attuale scenario solamente nella figura di Matteo Salvini o del movimento pentastellato. Senza dubbio la tendenza al rifiuto degli establishment tradizionali e ad una recrudescenza dei sovranismi in salsa più o meno nazionalista costituisce un forte fattore di destabilizzazione sociale su scala globale, dal Nord America fino all’Europa, e il Bel Paese non ne è immune. Come da più puro processo di materialismo storico, le radici di tale tendenza sono tutte da ricercare nell’operato di quella governance tradizionale che ha privilegiato i grandi capitali finanziari e i profitti ai bisogni delle masse. In accordo con tale prospettiva, l’avvelenamento politico posto in essere dal governo gialloverde non è altro che la naturale conseguenza delle politiche dei partiti tradizionali negli ultimi vent’anni, non ultimo proprio il governo Renzi. Non possiamo scordare lo smantellamento dei diritti sul lavoro con il Jobs Act, non possiamo dimenticare l’aziendalizzazione dell’istruzione e la legalizzazione dello sfruttamento con la Buona Scuola, non possiamo passare in rassegna l’operato di Minniti sui migranti, sulle occupazioni, sugli spazi sociali, sui movimenti a difesa dei territori, sul Daspo urbano e così via. La circolare di Salvini in merito agli sgomberi (che peraltro è solo una circolare, quindi non obbligherebbe nessuno a fare nulla se non ci fosse volontà politica) è solo la punta di un iceberg purtroppo ben più grande in cui la faccia peggiore è il saldo consenso con cui il governo attua le sue politiche, frutto, appunto, di troppi anni di miseria, precarietà, crisi. E’ questo il vero problema, ancor prima del governo in sé e per sé. E lo sdoganamento del migrante come nemico, l’accettazione di certi soggetti all’interno dell’arena politica, il soffio sul fuoco della guerra tra poveri e l’attacco ai diritti sociali non sono certo novità del governo degli ultimi mesi, che semmai ne ha semplicemente esasperato i caratteri. E’ un aspetto da tenere saldo in mente, soprattutto quando coloro che fino a poco tempo fa erano la causa del problema provano a infilarsi, per contingenza, dalla nostra parte della barricata. E’ il caso, ad esempio, del prologo ad un nuovo corso “sinistroide” del PD (o di una formazione da esso derivante) attraverso la corrente progressista in via di sperimentazione nella Regione Lazio con Zingaretti, neo-candidato alla segreteria del Partito Democratico, e a Roma nei Municipio III e VIII. Il lupo può perdere il pelo, ma il non il vizio.

I movimenti sociali hanno sicuramente le loro grosse responsabilità in questo processo, soprattutto nel non aver saputo comprendere, o quantomeno indirizzare, le fratture sociali che si sono create nel corso degli ultimi anni. Solo Lega e Cinque stelle sono riusciti a capitalizzare il vuoto politico successivo al referendum renziano del 4 dicembre, la prima radicalizzando lo scontro con la governance europea e focalizzandolo sulla costruzione del migrante come nemico; i secondi polarizzando l’esigenza di cambiamento ed il malcontento nei confronti dei partiti tradizionali. Si sta rapidamente creando una cultura politica dell’odio, purtroppo non inter-classe ma intra-classe. La sfida del prossimo futuro sarà, parallelamente alla resistenza agli attacchi della controparte, proprio la costruzione di una nuova cultura politica, una ricomposizione di classe che parta dai mutati caratteri della componente subalterna e che ne sappia attraversare con intelligenza le linee di conflitto e le contraddizioni. Senza dimenticare, sia chiaro, di porre nette le distanze con partitini e cartelli elettorali che puntano alla rappresentanza senza i rappresentati o con i soliti relitti della sinistra istituzionale che torneranno, a breve, a bussare alle nostre porte per ricostruirsi una verginità e costringerci a relegare la dialettica politica al solito, inutile spazio di compatibilità.

L’affaire Diciotti, gli sgomberi di Sesto San Giovanni e Tor Cervara segnano il nuovo fischio d’inizio, non il primo, non l’ultimo. Uscire dalla scomoda posizione tra l’incudine e il martello è il primo passo per rialzare la testa. La partita va giocata sul campo e non decisa a tavolino: come finirà non lo sappiamo, ma è l’unica che vale la pena giocare. 
“Potevamo fare di San Basilio una piccola Derry e non l’abbiamo fatta”, ci hanno detto alcuni compagni presenti allora. Non la faremo certo noi, ma possiamo trarre insegnamento dalla Battaglia di San Basilio e Fabrizio Ceruso.

Ora più che mai, nella memoria l’esempio, nella lotta la pratica.

Sabato 8 Settembre, ore 16, Corteo dalla lapide di via Fiuminata (San Basilio)

 

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