Ricordando l’Asinara
Mi chiamo Sebastiano Primo, sono nato a Nuoro il 29 luglio 1964 e con questa breve testimonianza vorrei descrivere, se è possibile farlo con la penna, il periodo di detenzione che ho trascorso nel carcere dell’Asinara dal 3 ottobre 1995, data del mio arresto, al mese di luglio del 1997, cioè fino alla chiusura di quel piccolo lager che, in termini di sospensione dei diritti umani, ha poco da invidiare ai più famigerati penitenziari di Abu Grahib in Iraq o all’ancor più noto carcere di Guantanamo, messo anch’esso in piedi dal governo americano per rinchiudervi i “nemici combattenti” catturati in Afghanistan.
Dunque, all’alba del 3 ottobre del 95, mentre mi trovavo a governare il mio gregge che in quel periodo come al solito aveva cominciato a figliare, sono stato arrestato con l’accusa di avere partecipato ad un tentativo di rapina avvenuto circa un mese prima ai danni di un furgone portavalori e che si era concluso con la morte di quattro uomini, due militari e due ragazzi che avevano preso parte all’assalto. Nel pomeriggio di quello stesso giorno, dopo un passaggio alla questura di Nuoro, mi ritrovai nell’isola dell’Asinara, rinchiuso in una cella delle struttura adibita al 41 bis. Ricordo perfettamente che in quel giorno indossavo un paio di pantaloni neri in velluto liscio, scarponi di pelle dello stesso colore a cui subito furono tolti i lacci, una maglietta intima e, sopra di essa, un maglioncino verde che dava un tocco di colore al resto degli indumenti e, soprattutto, al mio volto terreo che in quel momento rifletteva il turbine di sentimenti che attraversava il mio animo.
Il lucido ricordo che ho dei capi di abbigliamento che indossavo quel giorno deriva dal fatto che essi sono stati gli unici indumenti che ho indossato giorno e notte per i seguenti otto mesi, cioè fino alla primavere del 96, quando è stato concesso ai miei familiari di farmi un pacco postale, contenente, oltre ad un paio di tute, un accappatoio, un asciugamano e mutande e calze che da tempo non usavo più, essendomisi putrefatte addosso. Quei primi otto mesi di galera nel carcere dell’Asinara non sono stati duri solo per averli trascorsi n condizioni di totale abbrutimento dal punto di vista igienico, ma anche per il fatto che in quel periodo sono stato colto da un fortissimo mal di denti “curato” con la somministrazione di un’aspirina al giorno e che, dopo una decina di giorni, mi ha spinto a tentare il suicidio, non riuscito solo per il fatto che le calze usate come cappio, logore dall’uso, non hanno retto il mio peso. Inoltre, a queste prevaricazioni, va aggiunto il non secondario fatto che, ogni qualvolta riuscivo ad addormentarmi, venivo svegliato dallo scuotere dello spioncino metallico o dalla battitura su esso delle enormi chiavi delle porte blindate. Questo accanimento su di me derivava dal fatto che durante gli interrogatori a cui venivo sottoposto e nonostante le profferte di benefici, denaro e libertà, in cambio della collaborazione con gli inquirenti, mi avvalevo della facoltà di non rispondere, un mio diritto sancito dal codice di procedura penale, e il mio mutismo li faceva imbestialire.
Credo di essere riuscito a sopravvivere a quelle torture fisiche (poiché non mi sono state risparmiate neanche quelle) e psicologiche solo grazie al fatto di essere cresciuto in un ovile barba ricino e le regole che vigono in quell’angolo di mondo mi hanno temprato alla lotta e a soffrire in silenzio. Oggi, dopo 17 anni dal giorno dell’arresto, sono ancora dentro un carcere da dove inutilmente, notte dopo notte, tento di disfarmi di ricordi che l’inconscio si ostina a riportare a galla.
Per quel che può valere faccio presente che, al momento dell’arresto, ero incensurato e che il reato di cui ero accusato non prevede ora, né tantomeno lo prevedeva allora, la detenzione nel braccio del 41 bis dove sono stato illegalmente detenuto per circa due anni.
Termino questo breve scritto augurandomi che questa testimonianza, insieme ad altre più corpose, più interessanti e dettagliate di questa e che mi auguro andranno a formare un libro, venga letta e diffusa tra i lettori di ogni angolo di questo Paese per fare conoscere, e di conseguenza evitare per il futuro, le torture subite da me e da un altro centinaio di persone relegate nelle isole dell’Asinara e di Pianosa dal 1992 al 1997, cioè in un periodo dove di fatto ad un pugno di uomini è stato sospeso ogni diritto costituzionale, non abbia più a ripetersi.
Padova, settembre 2012
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