A Bologna si riparte da 50.000
Il post di Wu Ming che riportiamo di seguito centra bene alcuni punti cardine della questione. Quali la conferma dell’incapacità del PD prima nel prevenire la promozione della consultazione e del dibattito annesso, che ha raggiunto rilievo nazionale, poi nel mobilitare la propria base sociale nelle direzioni da esso auspicate; dato comunque importante nella roccaforte Bologna, a cui si aggiungono le notizie di veri e propri esodi dalle urne delle amministrative in regione. Un impegno schierato, non astensionista, della giunta Merola dalla parte delle scuole dell’infanzia private bolognesi, quasi completamente nelle mani della chiesa cattolica. E a cui non sono mancati, nel sostegno trasversale del partito unico dell’austerità, prestigiosi padrini quali papa Francesco e la neoministra all’Istruzione Maria Chiara Carrozza in una delle sue prime dichiarazioni ufficiali (da tenere presente per l’autunno, nel caso questo governo ci arrivasse). Ma che già nel corso dei mesi ha aperto importanti strascichi nel PD cittadino (lo stesso Prodi aveva criticato l’operato della giunta), fino al concretizzarsi della disfatta finale.
Tuttavia, al di là del dibattito sui numeri (ozioso e poco produttivo per la specificità della tornata) ci sono da registrare alcuni dati su cui lavorare in futuro: il profondo disinteresse, se non l’ostilità, verso un sistema di gestione pubblico della formazione – che ad altri livelli (università, scuole superiori) ha mostrato tutto il suo clientelismo e collateralismo alle politiche dell’1%. Un’attitudine ben presente soprattutto nelle fasce giovanili, che hanno disertato in massa la consultazione, e confermata dalla bassa attrattività del referendum per fasce sociali esterne alla sfera dei diretti interessati – prevalentemente famiglie e religiosi. Infine, pur in altra stagione e con altre ricadute, la mancata applicazione del risultato dei referendum sui beni comuni del 2011 (anche per i limiti delle forme di organizzazione ed opposizione sociale in grado di farla valere) ha probabilmente disilluso parte dell’elettorato potenzialmente favorevole all’opzione A. Ora come allora, va impressa una curvatura narrativa ben precisa agli esiti della consultazione bolognese – generalizzando il dibattito sull’autogestione delle forme di riproduzione del comune – per evitare che la disillusione si trasformi in apatia ed inazione.
E così l’esercito di Serse è stato battuto. Cinquantamila bolognesi (59%) hanno risposto alla chiamata dei referendari e hanno votato A, contro circa 35.000 che hanno votato B (41%).
In totale poco più del 28% degli elettori. Una percentuale che a botta calda consente ai sostenitori della B, il Partito Democratico in testa a tutti, di provare a sminuire la valenza del voto e di spingersi a dire che “si è trattato di una battaglia ideologica che non interessa la gran parte dei cittadini. I bolognesi hanno capito che la sussidiarietà è la chiave di volta laddove lo Stato non riesce ad arrivare” (E. Patriarca). Come a dire: non è successo niente, tireremo diritto.
Invece qualcosa è successo, per quanto possano fare i finti tonti. Il PD infatti non ha sostenuto la linea dell’astensione, ha fatto l’opposto, ha mosso le corazzate e l’artiglieria pesante per mandare la gente a votare B. Si è speso il Sindaco in prima persona (che ha mandato una lettera a casa dei bolognesi per invitarli a votare B, e ha fatto un tour propagandistico per tutti i quartieri), gli assessori, il partito locale, i parlamentari da Roma… Ai quali si è aggiunta la propaganda nelle parrocchie, quella del PdL, della Lega Nord, di Scelta Civica, della CISL, e gli endorsement di Bagnasco, di Prodi, di Renzi, di due ministri della repubblica, più le dichiarazioni di Ascom, Unindustria e CNA.
Questa santa alleanza contro i perfidi referendari ideologici è riuscita a muovere soltanto 35.000 persone (incluse le suore, le prime a presentarsi ai seggi ieri mattina). Significa che una buona parte dell’elettorato di quei partiti e dei fedeli cattolici ha disobbedito agli ordini di scuderia ed è rimasta a casa oppure ha votato A.
Invece un comitato di trenta volontari, appoggiato solo da un paio di partiti minori e qualche categoria sindacale, che ha raccolto l’appoggio di tutti gli ultimi intellettuali e artisti di sinistra rimasti in Italia, ha portato a votare quindicimila persone in più.
Questo dato politico è il più interessante e pesante.
Da un lato perché significa che il tema della riaffermazione del primato della scuola pubblica rompe gli schieramenti, i vincoli d’obbedienza, le usuratissime cinghie di trasmissione, e allude a una sinistra reale che potrebbe e dovrebbe ricostruirsi a partire da alcuni temi fondativi.
Dall’altro lato perché se con le percentuali si può giocare al ribasso o al rialzo, invece con i numeri assoluti c’è poco da fare, vanno presi come sono. E cinquantamila sono esattamente la metà dei voti che Virginio Merola ha preso nel 2011, quando è stato eletto sindaco. Se questa giunta e questa classe dirigente hanno intenzione di tirare diritto, come traspare dalle prime dichiarazioni, dovranno considerare l’eventualità concreta che la marcia, scandita a ogni passo dall’incertezza e dalla paura, termini con una disfatta. Le notizie che giungono dalla capitale non saranno di conforto per lorsignori: un altro mix micidiale di scarsa affluenza e sconfitta; disgusto per gli schieramenti politici e per qualcuno più che per altri.
La risposta a tutto questo è quella di Bologna: organizzazione dal basso e ingaggio della cittadinanza sui temi importanti, sulle scelte di indirizzo. La dimostrazione che “si può fare”.
Dunque oggi si riparte da qui. Da quota cinquantamila. Avanti.
Tratto da www.wumingfoundation.com
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