Alcune considerazioni dopo le vicende dell’Ikea di Piacenza
L’Emilia Romagna di queste strutture è piena, al punto che stanno prendendo piede in maniera esponenziale in ogni settore lavorativo, anche se trovano nel terziario lo sbocco naturale.
Si assiste ovunque ad una esternalizzazione (outsourcing) degli aspetti più diversi della produzione; in altre parole, vengono appaltati pezzi di azienda a privati o si vincono al ribasso appalti assicurandosi porzioni di lavoro, con la conseguente “intossicazione” del sistema cooperativo in relazione sia con il lavoro pubblico che quello privato.
Nel caso dell’Ikea di Piacenza ci troviamo all’interno del sistema produttivo privato, dove la parte della movimentazione e del facchinaggio viene appaltata a cooperative esterne: grazie a questo sistema si riescono a tenere bassi i prezzi, sottopagando i lavoratori e riuscendo a far avere poche spese al committente. Non si possono però dimenticare le responsabilità politiche in merito alla diffusione crescente delle dinamiche che caratterizzano l’attuale sistema cooperativo; infatti, questo sistema, storicamente affine alla sinistra istituzionale e sindacale, ha sempre comportato una serie di vantaggi, fino a quando il tutto non è sfuggito di mano, dando via libera ad un fenomeno che di cooperativo non ha nulla, ma è diventato solo veicolo di sfruttamento delle persone per la creazione di profitto, pervertendo quanto sancito dalla costituzione italiana con l’articolo 45.
Per capire meglio tutto questo, citiamo un estratto da un sito che tratta il sistema cooperativo all’interno del sistema produttivo della macellazione carni; è una porzione di analisi che si può generalizzare a tutto il mondo del lavoro privato:
“Le cooperative spesso hanno formalmente la loro sede legale presso l’abitazione del presidente, a volte un semplice prestanome extracomunitario, oppure, per dare una parvenza di legalità, presso un polveroso ufficio di pochi metri quadrati che funge da ripostiglio, in cui manca la strumentazione minima per qualsiasi impresa: fax, telefono e computer, oltre che il personale che vi lavori dentro.
Capita anche che la sede legale sia in luoghi remoti dell’Italia meridionale, presso la sede di qualche commercialista e che la posta inviata a quegli indirizzi postali, ritorni indietro per compiuta giacenza.
Gli unici recapiti di queste imprese fantasma, in maggioranza false cooperative, sono anonimi cellulari. Un esercito di false cooperative che gestiscono lavoratori stranieri grazie al prezioso lavoro di consulenti, o commercialisti, delle imprese committenti. Imprese committenti che attraverso pseudo appalti di servizi, ne utilizzano la manodopera.
Cooperative che cambiano nome repentinamente, per sfuggire ai controlli. …”
A fronte di tutto ciò che è stato narrato fino ad ora, diventa importante mettere in evidenza quello che sta succedendo a Piacenza, perché non è facile per un lavoratore di cooperativa mettersi in gioco, visti il suo stato e il suo bassissimo potere contrattuale una volta entrato in quel mondo. Un lavoratore, che è socio-lavoratore ma che non ha nessun diritto di decisione, che viene sottopagato e che, se migrante e sopratutto se extracomunitario, viene posto sotto ricatto attraverso il permesso di soggiorno.
La questione cooperative di extra-sfruttamento non la si può confinare esclusivamente al mondo del lavoro privato, perché come detto nell’introduzione questo sistema trova sfogo maggiore proprio nel mondo del lavoro pubblico e del terziario. Per capire meglio le sue evoluzioni pubblichiamo alcuni estratti da un interessate analisi dal titolo “Cooperative sociali e precarietà: una risposta nel reddito sociale. Miti e degenerazioni del lavoro in cooperativa” di Luigi Marinelli.
“Lo sviluppo delle cooperative sociali e del no-profit in generale è sostenuto da molti come la soluzione per conservare, se non addirittura per migliorare, i livelli di assistenza socio-sanitaria in un contesto caratterizzato da continui e reiterati tagli alla spesa sociale a fronte di un aumento della richiesta di assistenza; addirittura lo sviluppo del settore è promosso come alternativa ad ulteriori processi di smantellamento e di privatizzazione pura e semplice. Siamo di fronte ad una mistificazione della realtà, ad un capovolgimento dei meccanismi e delle scelte che hanno determinato il successo della cooperazione sociale. Considerazioni che non appartengono solo alla dirigenza delle associazioni cooperative (Legacoop, Confcooperative e AGCI) ma che pervadono anche ampi pezzi della sinistra radicale e di movimento …
Non si tratta solo del fenomeno diffuso delle c.d. “finte cooperative” (per definizione nate con l’esclusivo scopo di utilizzare le agevolazioni normative, contrattuali, previdenziali e fiscali); il fenomeno è più profondo e ampio. Le origini delle coop sociali sono legate ad una parte della sinistra fine anni ‘70 che ha trovato nell’impresa sociale una risposta alla crescente disoccupazione intellettuale: medici, assistenti sociali, psicologhe trovarono nella costituzione di cooperative rivolte all’assistenza socio-sanitaria-educativa una prospettiva di lavoro e anche di impegno politico-culturale.
Le storiche caratteristiche di flessibilità e disponibilità tipiche della formula cooperativistica vennero esaltate tramite l’argomento dell’alta finalità sociale dei servizi gestiti e di una presunta migliore qualità intrinseca rispetto ai servizi gestiti direttamente dall’amministrazione pubblica, per definizione statalista e burocratica. Dal ruolo iniziale, in alcuni casi sperimentale e di nicchia, le cooperative sociali si sono trasformate, senza troppi incidenti o crisi di coscienza, in ottimi strumenti del processo di privatizzazione ed esternalizzazione della sanità e dei servizi sociali pubblici, divenendone anche promotrici attive…
Questi elementi hanno portato alla situazione attuale: sono tante le cooperative sociali che fatturano annualmente decine di milioni di euro, hanno centinaia di soci-lavoratori e operano su tutto il territorio nazionale. Questo non significa che le piccole e medie cooperative rappresentino una alternativa; anche queste ultime sono inserite nello stesso meccanismo: singolarmente o associate in consorzi riproducono le stesse dinamiche aziendali delle più grandi, pena l’esclusione dal mercato degli appalti e la conseguente chiusura. Che non siano le dimensioni a contare lo dimostra ampiamente la realtà delle cooperative sociali di tipo B (ai sensi della L. 381/91), dedicate al reinserimento di persone svantaggiate (dal settore delle dipendenze, al carcerario e alla psichiatria). Nel lavorare nelle cooperative di tipo B, sia come operatore “normale” che come “reinserito”, si arriva a limiti inimmaginabili: orari, salari e norme legalmente, contrattualmente e completamente derogabili. Le coop sociali di tipo B si sono riservate un ruolo importante nella elusione delle assunzioni obbligatorie anche con la gestione di appalti interni alle aziende private.
In questo contesto, il modello democratico della partecipazione cooperativa è da molti anni in crisi: le assemblee dei soci vengono convocate solo per la ratifica delle decisioni prese dai consigli di amministrazione, per le formalità previste dal codice civile e per le approvazioni annuali dei bilanci.
Le assemblee sociali sono esautorate di ogni potere effettivo, la gestione è in mano ad una casta di presidenti “politicamente inseriti” e a tecnici specializzati negli appalti…
La ricattabilità e il ferreo comando sull’organizzazione del lavoro, slegata da ogni reale controllo di qualità (appalti e privatizzazioni sono un contesto di deresponsabilizzazione dell’amministrazione pubblica) accompagneranno l’aumento dei carichi di lavoro e la diminuzione dei livelli di sicurezza, che nei servizi alla persona sono, ovviamente, fattori importantissimi. L’ulteriore peggioramento del rapporto tra tempi di vita e di lavoro (e già oggi rileviamo fluttuazioni di impiego da zero a più di 200 ore mensili), con la riduzione dei salari diretti e indiretti, renderanno il lavoro assistenziale-educativo-riabilitativo ancora più dequalificato e demotivato…
Le cooperative si riducono ad essere strumento di smistamento di incarichi temporanei su commissione di comuni, provincie, aziende USL e ministeri.
…Il lavoro nelle cooperative sociali rappresenta una delle punte più avanzate sia dei processi di precarietà regolata e “concertata” sia di quella irregolare e “sommersa”. Una condizione di precarietà e di ricattabilità che impone al lavoratore una condizione di oppressione e di ordinaria omertà, se non di complicità, di fronte al manifestarsi di casi di malasanità e di abusi nei confronti di utenti e soggetti svantaggiati, prime vittime dei processi di smantellamento dei servizi e dell’aziendalizzazione del socio-sanitario.”
Da notare anche che la sindacalizzazione di queste realtà è spesso impossibile e anche che nelle cooperative più grandi le rappresentanti sindacali sono nominate dall’esterno come RSA dalle cosiddette organizzazioni maggiormente rappresentative: questo produce il fenomeno delle rappresentanze non votate, che si trasformano in strumenti ulteriori di controllo e contenimento del malcontento delle lavoratrici (e dei lavoratori). E’ capitato che Cgil-Cisl e Uil non pubblicizzassero neppure gli scioperi di settore da loro stessi convocati.
Abbiamo parlato al femminile, perché nelle cooperative di tipo B la percentuale di lavoro femminile è enorme, anche se poi i livelli dirigenziali trovano spesso copertura da parte di maschi, talvolta di nomina più o meno direttamente politica.
A nostro parere quello delle cooperative è un mondo da osservare con attenzione. Al di là delle sigle di appartenenza, le lotte che si sviluppano al suo interno sono da analizzare, appoggiare e sostenere.
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