Anonymous associazione a delinquere virtuale? La Cassazione dice di si
Non pochi (tra cui Infoaut 1 – 2) adombrarono dubbi sull’operato degli investigatori e sulle reali finalità che l’operazione TangoDown si proponeva di conseguire. Dubbi che oggi non sembrano venire meno davanti alle prime risultanze emerse dalle carte d’indagine. Secondo le dichiarazioni fatte allora dalla polizia postale agli organi di stampa, gli accusati erano colpevoli di aver utilizzato il logo di Anonymous per attaccare istituzioni ed aziende private con l’intento di offrirsi in un secondo momento alle stesse come consulenti per poterne trarre profitto. Ma nei fascicoli della procura lo scopo di lucro non viene mai menzionato. In secondo luogo, negli atti siglati dal GIP Alessandro Arturi e dal PM Perla Lori non c’è una definizione chiara su quali siano stati gli elementi che hanno permesso agli inquirenti di contestare il vincolo associativo contro Anonymous Italia.
Eppure la magistratura sembra intenzionata a proseguire dritta per la sua strada. È di poche settimane fa infatti una sentenza di giudicato cautelare con cui la corte di Cassazione, negando l’attenuazione delle misure cautelari nei confronti di uno degli indagati, ha confermato la correttezza dell’impianto accusatorio dell’inchiesta Tangodown. L’associazione a delinquere virtuale è stata dunque ritenuta plausibile in virtù della riconosciuta esistenza di una struttura che «si articola attraverso la predisposizione del blog ufficiale dell’organizzazione e del video di propaganda, da diffondere sul blog ufficiale, la predisposizione e gestione dei canali di comunicazione Irc [ndr: un programma di chat] privati».
Un pronunciamento, quello della suprema corte, che pur potendo cambiare in sede definitiva di giudizio, ha messo in allarme diversi giuristi. «Mi pare una sentenza molto preoccupante» ci ha detto l’avvocatessa Marina Prosperi di Bologna, penalista ed esperta in reati associativi «Ci vorranno anni di lavoro per superarla, semmai ci si riuscirà».
Infoaut – Per quale motivo lo ritieni tanto grave?
M.P – Innanzi tutto vorrei precisare il concetto di giudicato cautelare, dato che solo in questo modo possiamo comprendere la pericolosità di questa sentenza. Si tratta di un provvedimento emesso dalla Cassazione in un momento dell’iter penale in cui si affrontano questioni di carattere cautelare: è un giudizio sommario il cui oggetto è l’applicazione di misure reali (i sequestri) o personali (la limitazione della libertà mediante custodia cautelare in carcere, arresti domiciliari od obbligo di firma) nei confronti degli indagati. Questo tipo di giudizio viene emesso quando il procedimento non è ancora definito e le indagini sono ad uno stadio preliminare, come appunto è il caso dell’inchiesta “Tangodown”, non ancora conclusasi: la decisione della corte si basa pertanto su materiale che viene presentato mediante una ricostruzione di parte e che non è stato oggetto di alcun tipo di contraddittorio o attività difensiva come quella che si da nell’ambito dibattimentale.
Unico compito della Cassazione è quindi quello di verificare se gli organi giuridici competenti – prima il GIP e poi, nel caso ci siano state delle impugnazioni, il Tribunale della Libertà – abbiano effettivamente emesso dei provvedimenti conformi alla legge. Ripeto: si tratta di un giudizio sommario, derivante da una ricostruzione parziale in cui la difesa non ha grandi possibilità d’intervento. Questi pronunciamenti della Cassazione però diventano un giudicato: sono cioè sentenze che rimangono in maniera definitiva. Certo, in Italia non vige il principio giuridico vincolante come accade invece nei paesi di common law: tuttavia le sentenze della Cassazione sono importanti perché orientano la giurisprudenza, soprattutto quella di merito, cioè delle corti inferiori.
Ed ecco perché trovo sia molto preoccupante questa sentenza in relazione all’inchiesta “TangoDown”: perché in maniera sommaria si va a formare un giudicato cautelare su una questione fondamentale. Ovvero se sia configurabile un’associazione a delinquere virtuale per soggetti che, al fine di effettuare presunte attività di hacking contro alcuni siti, si mettevano in comunicazione tra di loro usando delle piattaforme internet. Sono questioni tutt’altro che banali o irrilevanti dal punto di vista penale dell’informatica: al contrario stanno progressivamente assumendo un peso sempre maggiore.
Motivo che mi spinge anche ad affermare che sarebbe stato opportuno utilizzare una strategia difensiva più accorta: più che puntare alla formazione di un giudicato cautelare su un argomento così delicato, sarebbe stato importante chiedere la liberazione, passo dopo passo, utilizzando strumenti come la gradazione e l’attenuazione delle misure cautelari. Obbiettivo, tra l’altro, molto più semplice da raggiungere.
Infoaut – Non c’è dubbio sul fatto che siamo di fronte a problematiche sempre più rilevanti. Guardiamo a quanto accaduto in Italia con il #19o: avere un blog, utilizzare un canale YouTube, coordinare una mobilitazione attraverso una chat o scrivere un volantino su un pad elettronico sono tutte pratiche che oggi hanno travalicato il mondo dell’hacktivism in senso stretto. Non riguardano più solo Anonymous ma sono elementi costitutivi delle forme di attivismo politico dentro e fuori la rete.
M.P. – Infatti la scelta della Cassazione di fare propria la ricostruzione effettuata dal CNAIPIC, dalla polizia postale e dagli organi di polizia giudiziaria che hanno realizzato questa parte dell’indagine, evidenzia una leggerezza che è anche sinonimo di una mancanza di preparazione tecnica per riuscire a definire in maniera chiara quella che potrebbe essere una struttura associativa in ambito informatico.
Dico questo perché qui siamo di fronte a dei nodi importanti da sciogliere: o in qualche modo accogliamo la tesi che chiunque, in concorso con altri soggetti utilizzi una rete, una tastiera o un computer allo scopo di realizzare delle attività illecite debba essere considerato un associato, oppure dobbiamo andare a verificare in maniera chiara quando una struttura informatica può essere ritenuta una struttura organizzativa dal punto di vista penale e quali possono essere gli elementi – anche a livello indiziario a questo punto – idonei a fondare questa tesi.
Attenzione, perché qui di fatto la Cassazione esprime un ragionamento abbastanza semplice. Riconosce le capacità informatiche degli indagati e riconosce il fatto che questi fossero dotati di piattaforme comunicative comuni. Poi, sulla base di questi elementi, afferma: «Ok, per me questo basta per riconoscere il contesto associativo». La semplificazione di questo discorso può essere letta in due prospettive differenti: primo, sotto il profilo tecnico appare del tutto priva di riscontro. Secondo, si pone in maniera paradigmatica e non idonea: se già off line non è sempre facile definire quelle che sono le forme di appartenenza politica, figuriamoci quanto possa essere complesso farlo in rete! Anonymous poi, in quanto entità collettiva che prescinde dall’individualità, è ancora più sfuggente. Pensare di riconoscere, come fa invece la Cassazione su basi del tutto arbitrarie, dei vincoli associativi in tali forme di “fusione collettiva” mi pare piuttosto grave.
Non basta, a mio avviso, che alcune persone dotate di skills tecniche si riuniscano virtualmente per mettere in atto una qualche forme di azione politica al fine di contestare l’associazione a delinquere.
Infoaut – Alla luce di quanto detto fino ad ora potresti farci un esempio pratico di quali conseguenze potrebbe avere una sentenza come questa in uno scenario futuro simile?
M.P. – Nell’ambito dei reati informatici non c’è una disciplina specifica. Si utilizzano ancora i vecchi reati del codice Rocco per reprimere una serie di attività. Con quali conseguenze? Diciamo che da un punto di vista penale delle attività di attacco verso determinati obbiettivi sono, né più e né meno, dei danneggiamenti (quando effettivamente viene prodotto un danno). Il danneggiamento di per sé non prevede sanzioni gravi: non si può procedere all’arresto (se non in flagranza di reato) né l’indagine può avvalersi di strumenti come l’intercettazione per far luce sui singoli reati.
Tutto il contrario di quello che accade quando gli inquirenti vanno invece ad ipotizzare un contesto associativo: in quel caso intercettazioni, analisi dei contatti telefonici e sequestri di computer e server sono ammessi. Ma in quale caso siamo effettivamente di fronte ad uno scenario di questo genere? La risposta non è scontata perché allo stato attuale delle cose non c’è ancora una disciplina giuridico-informatica certa. Motivo per cui lo spazio della rete, pur tra mille distinguo, rimane uno spazio ancora molto “libero”.
Infine continua a non essere presente una definizione chiara di quello che è il bene giuridico da tutelare. Un nuovo sistema sanzionatorio di reati deve avere cioè come suo antefatto la definizione della sfera giuridica che gli compete: che cosa è lo spazio informatico? A chi appartiene? Chi è il danneggiato? Quale è il tipo di danneggiamento? Questo tipo di azione mette in pericolo in qualche modo la stabilità democratica e quindi rende possibile la configurazione di un’associazione a delinquere di tipo terroristico? Un attacco DDOS che provoca il blackout di un sito per 15 minuti, quale tipo di danno può provocare effettivamente al portale in questione (sia esso istituzionale o privato) se questo non fornisce neppure particolari servizi agli utenti o magari è una semplice vetrina?
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