Appunti sparsi e riflessioni aperte su popolo, populismi e sinistre
. Questi appunti nascono anche prendendo spunto dalla visione di alcuni filmati che provengono dalla Francia, dove durante alcuni scontri a Parigi uno striscione in prima fila contro i gendarmi portava scritto: “Nous sommes le peuple qui manque”. La questione non è evidentemente quella di schierarsi pro o contro a questo ricorso alla semantica del popolo anche all’interno dei movimenti, quanto di capirne le motivazioni, provare a metterne in luce fratture e potenzialità. D’altro canto siamo all’interno di una complessiva trasformazione della concettualità politica, e solo gli imbecilli in questa fase si pongono in posizioni da giudici custodi delle loro tradizioni. Tutta una serie di categorie va ripresa in mano ed eventualmente sperimentata, non con appiccicamenti o fusioni fredde ma laddove si manifestino soggettività sociali in grado di interagire con tali lessici. Una sperimentazione in questo senso in Italia è stata quella autunnale rispetto alla “povertà”, ma tutta una galassia concettuale che appartiene alla storia dei movimenti deve essere oggi novamente soppesata e messa in movimento.
. Il concetto di popolo è intimamente legato all’ormai abusata idea di “populismo”. Per la sinistra socialdemocratica il cosiddetto populismo è uno degli spauracchi attuali. Con questa etichetta generica e polisemica si tende infatti a racchiudere quelle che vengono viste come pulsioni sostanzialmente antidemocratiche, dove per democrazia si intende il sistema politico liberale e rappresentativo uscito vincitore dalla Guerra fredda. Diffusasi rapidamente sull’intero pianeta, la forma-Stato in oggetto ha progressivamente assunto i tratti che paiono ricordare gli Stati liberali della fine dell’Ottocento. Ossia sistemi organizzati attorno alla priorità della sicurezza (interna ed esterna), con scarsa partecipazione politica e poco rilievo del momento elettorale, tendenziale assenza di corpi intermedi, partiti tendenti a meri cartelli elettorali, assenza di welfare in senso lato.
. Il paradosso è questo: un secolo e mezzo fa o poco meno fa si iniziava ad aprire la distinzione tra parti riformiste e parti rivoluzionarie del movimento operaio. Le seconde puntavano all’estinzione dello Stato, le prime lo riabilitavano come strumento neutro di cui appropriarsi per migliorare le condizioni di vita. Oggi, in un momento in cui cresce il controllo delle grandi multinazionali e dei poteri finanziari sull’apparato statuale e in cui si assommano le evidenze empiriche sulla sempre minore potenzialità dello Stato (per vincoli interni ed esterni) ad agire come strumento incisivo nelle dinamiche sociali, pare che solo le sinistre riformiste siano rimaste a presidiare lo spazio vuoto della difesa dell’attuale configurazione statuale, mentre tutto lo scenario politico vira verso altre forme.
. Un altro livello del ragionamento attiene alla composizione sociale. Le sinistre riformiste, a partire dalle rotture culturali, dai mutamenti della composizione sociale, nonché dai conflitti con i movimenti rivoluzionari, dagli anni Settanta hanno progressivamente mutato il proprio soggetto sociale di riferimento. Se tra Ottocento e primo Novecento erano le grandi masse povere proletarie e i nascenti soggetti operai, col secondo Novecento e le fratture che si producono all’interno di questi soggetti si divaricano molte strade. Da un lato si assiste al “divenire classe media” dei settori operai con l’accesso di massa al consumo, mentre coi Settanta una nuova composizione che non si riconosce in quanto classe media o che rifiuta il disciplinamento della fabbrica scompone tale traiettoria sociale. Con l’emergere e l’affermarsi dell’epoca neoliberale, la sconfitta dei movimenti e infine la caduta dell’Unione Sovietica, le sinistre riformiste si inseriscono nelle trasformazioni in atto adeguandosi ai processi e candidandosi a guidarli in maniera vincente nei secondi anni Novanta. Si assiste in qualche misura a un acuirsi di quella frattura apertasi negli anni Sessanta e Settanta. La rappresentanza politica della sinistra si riferisce sempre più alla “classe media”, guardando con crescente diffidenza se non disprezzo ai ceti proletari.
. Da allora ad oggi questa direzione pare immutata. Sempre più i partiti socialisti, socialdemocratici si riferiscono a tali settori, proponendosi oggi come garanti del mantenimento di una posizione sociale “mediana”, per non cadere in basso. Il loro problema è che con la crisi attuale sempre più parti della cosiddetta classe media scivolano inevitabilmente verso il basso, rendendosi dunque più disponibili ai richiami del cosiddetto populismo. Ma questa è evidentemente solo una delle molteplici facce della composizione di classe attuale. Dove si trovano infatti tutti quei soggetti “abbandonati” dalla sinistra negli ultimi decenni? Non v’è qui spazio a sufficienza per addentrarsi nel discorso, e servirebbero approfonditi studi a riguardo, ma è stato da tempo rilevato come molti settori proletari e operai negli ultimi decenni siano progressivamente “usciti” dalla sfera della rappresentanza politica, andando ad ingrossare le file del non voto (e infatti molti think tank della sinistra li danno per “persi”, non più recuperabili alla sfera elettorale). Al contempo gli strati che invece ancora si rivolgono al mercato elettorale hanno teso a schierarsi “a destra”. In Italia lo si è spesso rilevato, nell’adesione massiccia al berlusconismo, nel passaggio di molte aree storicamente a sinistra sotto i vessilli leghisti.
. All’interno dell’etichetta populista si annidano sfaccettate significazioni del soggetto che costituisce l’etichetta: il popolo. Per alcuni il popolo è la plebs, un aggregato indistinto e omogeneo detentore della verità e della giustizia e che può essere rappresentato dalla volontà di un capo. E’ la sfumatura storicamente data dalle destre a tale concetto. Per altri il popolo è il populus, inteso come parte cosciente e attiva della popolazione che si mette in gioco nella sfera pubblica ed è in grado di elaborare una volontà generale a partire dalla partecipazione civile. Per altri ancora il popolo sostanzialmente è il panem et circenses, un soggetto da governare nella sfera mediale e del consumo.
. Ciò che tendenzialmente la sinistra critica a questi soggetti è, in fondo, l’assenza di cultura. E’ questo il discrimine di fondo. Il “popolo” è visto come mancante degli strumenti culturali per poter decidere (in fondo per poter governare o governarsi), e dunque si additano i populismi di “ingannare” questi settori di popolazione, di fomentarne paure e rancori sordi con ricette semplicistiche. Il tutto agevolato da un assetto del potere mediale che favorisce la costruzione del capo/leader. E’ in fondo un discorso antico, ma questo non toglie che queste riflessioni pongano delle domande per “noi” (tralasciando qui l’elemento delle migrazioni, sempre più spartiacque dei campi politici).
. Non è infatti un caso che per alcuni tratti anche i movimenti abbiano seguito in parte la traiettoria della sinistra istituzionale. Ossia ci sia progressivamente sempre più riferiti a una composizione sociale di “classe media” e acculturata, perdendo progressivamente contatto con altri settori sociali. Nonché ogni ipotesi di “emancipazione”. Si prenda ad esempio la Francia (o anche il fenomeno-Trump): l’abbandono della banlieue porta al fatto che i settori operai oggi votino in massa Le Pen. Ma non solo: la maggioranza dei giovani è orientata in quel senso, e sono le grandi masse che non accedono all’università e transitano nella disoccupazione permanente. Ancora una volta un discrimine culturale/formativo: mentre le parti di giovani più istruiti tende a schierarsi ancora con sfere istituzionali dai discorsi riformisti (destra o sinistra che sia), le parti più povere vanno immancabilmente verso destra (una destra nuova e moderna, per quanto estremista) o il non voto. In questo senso il paradigma del cognitariato ha fatto probabilmente grossi danni alla capacità di lettura ma soprattutto di intervento politico all’interno dei movimenti.
. Queste riflessioni conducono alla necessità di elaborare ipotesi strategiche di intervento se ci si pone con sincerità la domanda sulla possibilità di ricostruire le basi per un movimento antagonista che non si dica tale solo a partire dalla pur necessaria espressione immediata. In questo senso va capito che tipo di ipotesi e di percorso si intende sviluppare coi settori sociali che paiono essere più “attratti” dalle logiche populiste. Ossia quei settori che paiono stufi o fuori dalle dinamiche delle attuali democrazie liberali ormai difese solo dalle sinistre. In questa ottica è bene mettere per davvero in discussione l’apparato concettuale degli ultimi decenni. Tradurre per tradire sì, ma anche sperimentare, innovare, rischiare. Ce ne si fa davvero poco della ripetizione di ricette metodologiche preconfezionate sempre uguali a loro stesse.
. Si pone in altre parole il nodo sulla possibile relazione tra populismo e antagonismo, prendendo il primo termine in maniera semplicistica come capacità comunicativa e come riferimento a settori di popolazione sempre più lontani dagli schemi della politica democratica tradizionale. Molti indicatori indicano infatti nella crescente polarizzazione sociale la cifra specifica del periodo che stiamo attraversando. In questo contesto, si passi la semplificazione, è avvenuto un passaggio grosso: la fine del ceto medio. Lo rilevano allarmanti i centri di ricerca (http://www.repubblica.it/economia/2016/05/30/news/classi_sociali-140893218/), sospirando di sollievo e con un po’ di stupore per il fatto che ciò non si sia tradotto in ribellione. All’interno di questa caduta della percezione delle aspettative sociali rientrano quelle fasce di popolazione (si pensi ai 2,3 milioni di giovani che non lavorano e non studiano, alle ampie fasce dei non garantiti, alle ingenti quote di lavoro che negli ultimi anni hanno visto congelati i salari, aumentati i ritmi e l’insicurezza) con le quali per molti versi la sinistra ma anche i movimenti negli ultimi decenni non hanno avuto, per incapacità o mancanza di volontà, nessun contatto. Per andare “oltre la sinistra” la direzione che si prenderà su questi temi è dirimente.
. Di fronte a questi passaggi uno dei temi in ballo è “verso dove” questi settori guarderanno per modificare la propria condizione: verso l’alto o verso il basso? Per tentare di dare direzione a queste potenzialità non servono certo gli stanchi stilisti della militanza con annesse black box delle tendenze detenute dal loro intuito mistico e relativi continui abbagli. Si tratta piuttosto di riorientare a attrezzare nuovi esperimenti collettivi di azione e comunicazione politica, individuare luoghi e tempi per non limitarsi alla speranza di eventualmente organizzare qualcosa che già si muove, ma anche per creare le possibilità organizzative e di conoscenza tra settori sociali in grado di strutturare delle basi soggettive per consentire futuri salti.
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