BENVENUTI NEL PASSATO. AUTONOMIA DELLA NATURA, COMBUSTIBILI FOSSILI E CAPITALOCENE
Riprendiamo da Le parole e le cose questo interessante testo di Davide Gallo Lassere tradotto in italiano. A seguire la sua intervista audio a cura del programma di Radio Blackout “Voci dall’Antropocene”.
[Per la rubrica Ecologie della trasformazione, pubblichiamo la traduzione in italiano (di Andrea Moresco) della riflessione in due parti che Davide Gallo Lassere ha dedicato alle opere di Andreas Malm, tre delle quali recentemente uscite in francese. Apparsa lo scorso novembre sulla rivista “Contretemps”, l’analisi di Gallo Lassere svolge un doppio ruolo. Da un lato, essa introduce con grande chiarezza gli snodi fondamentali del pensiero di Malm, concentrandosi in particolare su due espressioni della crisi ecologica: il cambiamento climatico e la pandemia. Dall’altro, invece, essa interroga criticamente tale pensiero a partire dallo strumentario teorico operaista – il quale risulta radicalmente trasformato da questo ‘incontro’. In attesa che i libri del ricercatore svedese vengano tradotti in italiano, questo doppio saggio interviene in modo originale nel vivace dibattito sull’ecologia politica che ormai da qualche anno si è sviluppato nel nostro paese].
BENVENUTI NEL PASSATO
Autonomia della natura, combustibili fossili e Capitalocene
L’esplosione […] delle emissioni è l’eredità atmosferica della lotta di classe.[1]
L’operaismo ecologico [ecological autonomism] è una teoria della crisi acuta.[2]
This changes everything, ha esclamato Naomi Klein nel suo famoso libro del 2014, con una frase felice. Tout peut changer, ha tradotto più sobriamente il suo editore francese, l’anno successivo. Mentre le versioni tedesca e italiana hanno optato per soluzioni dal retrogusto teologico-politico, da cui emerge chiaramente la richiesta kairotica di trasformare alla radice i nostri stili di vita e i nostri metodi di produzione: Die Entscheidung e Solo una rivoluzione ci salverà. I sottotitoli, invece, nonostante i toni diversi, sottolineano più o meno a testa alta l’irriducibilità tra natura e società: Capitalism VS The Climate, Capitalismus VS Klima, Capitalisme et changement climatique e Perché il capitalismo non è sostenibile.
L’argomentazione di Klein, ben cristallizzata da queste espressioni (soprattutto quelle inglesi, più pungenti), si basa su un assunto che è sia realistico-naturalista – la natura esiste, precede e comprende le formazioni umane – sia storico-materialista – alcuni elementi socio-economici si sono sviluppati nel tempo, incidendo gravemente sugli equilibri ambientali i quali, a loro volta, stanno attualmente reagendo su tutti gli esseri viventi, umani e non, provocando cataclismi di diversa portata a seconda delle contingenze sociali e geografiche. Da qui la necessità di intervenire al più presto sulle cause strutturali delle catastrofi attuali e future che si sono stabilizzate nel passato.
La sfida di questo duplice contributo [pubblicheremo a breve il secondo articolo di Davide Gallo Lassere, NdR] è quella di affrontare alcuni aspetti dell’attuale crisi ecologica basata su due grandi macrofenomeni del nostro tempo, la cui comprensione richiede un approccio ontologico-epistemologico simile a quello di Klein: il riscaldamento globale e la pandemia di Covid-19. Per affrontare tale compito ci affidiamo agli studi dello storico svedese Andreas Malm, confrontandoli però alla grammatica teorico-politica elaborata dagli approcci (neo)operisti – con cui, peraltro, l’autore stesso flirta in alcuni punti delle sue numerose opere.[3]
Questo primo articolo, Benvenuti nel passato. Autonomia della natura, combustibili fossili e Capitalocene, concentrandosi sull’accumulo di emissioni di CO2 nell’atmosfera, assume un’ottica diacronica e si concentra sulla storia a lungo termine del riscaldamento globale. Si tratta di una genealogia politica della transizione permanente verso le fonti di energia fossile co-determinata dall’insubordinazione operaia e anticoloniale.
Il secondo articolo, Ritorno al presente. Spazi globali, natura selvaggia e crisi pandemiche, concentrandosi sui processi di deforestazione, perdita di biodiversità e zoonosi, offre una diagnosi del presente che sonda le molteplici disposizioni dello spazio globale. Si tratta di un ritratto della globalizzazione in termini i) dell’autonomia inalienabile della natura selvaggia rispetto all’accresciuto dominio del capitale e ii) delle tendenze sempre più probabili ai disastri pandemici che l’approfondimento di questo dominio implica. Articolando questi due approcci speriamo di fornire le coordinate spazio-temporali minime per inquadrare la crisi ecologica.
Al di là degli elementi della discussione eco-marxista su cambiamenti climatici e Covid-19, e al di là della restituzione delle tesi approfondite dell’autore svedese che ha appena pubblicato tre libri in francese tra giugno e ottobre 2020, questo doppio contributo persegue un altro obiettivo, ovvero: leggere Malm attraverso l’operismo e leggere l’operismo attraverso Malm. Il primo movimento di pensiero sottolinea la centralità epistemologica e storiografica degli antagonismi nei processi di trasformazione sociale. Il secondo movimento, invece, aspira a fornire indizi per colmare una delle principali lacune dell’operaismo, ovvero la sua scarsa attenzione alle questioni ecologiche.
Il primo punto mira a criticare l’ipotesi politica provocatoria di Malm, quella di un “leninismo ecologico”, sulla base dei presupposti immanenti al suo stesso discorso teorico. Il secondo punto, al contrario, partecipa a un necessario aggiornamento della cassetta degli attrezzi operaista come armamentario concettuale che può rivelarsi utile per rispondere alle sfide del presente. Ciò che emerge da un tale confronto è in effetti una teoria politica delle crisi acute del capitalismo, delle loro violente ripercussioni sull’ambiente sociale e bio-sferico e dell’importanza cruciale che la conflittualità sociale occupa nelle dinamiche storiche.[4]
Contrariamente alle più raffinate elaborazioni teoriche, secondo Andreas Malm, riscaldamento globale e Covid-19 costituiscono due casi paradigmatici di autonomia della natura. Certo, i due fenomeni, i quali manifestano tuttavia forti tratti comuni, sono di ordine diverso, e qualsiasi comparazione frettolosa rischia di apparire fallace – sarebbe, dice Malm, come raffrontare una guerra a un proiettile. Il primo è infatti un processo che affonda le sue radici in un passato lontano, mentre il secondo è un evento con una storia più breve. Il cambiamento climatico produce effetti che si prevede persistano per secoli, mentre la circolazione globale dei (corona)virus e lo scoppio di epidemie o pandemie nei prossimi decenni rimangono imprevedibili.
Inoltre, mentre la diffusione della SARS-CoV-2 può essere considerata una conseguenza singolare, anche se particolarmente drammatica, del cambiamento climatico in corso, l’impatto della pandemia sulla riduzione delle emissioni di CO2 è stato relativamente ridotto. Ciononostante, per Malm, i due fenomeni portano alla luce un fatto ontologico ineludibile: natura e società non sono mai completamente intrecciate; la presa della seconda sulla prima non è mai total(izzant)e. Non solo si può sempre, analiticamente parlando, fare una distinzione tra le due entità. Ma, da un punto di vista pratico, si deve farlo. Ogni politica ha un’epistemologia; ogni epistemologia è una politica. E quelle di Malm si basano su una critica delle ontologie post-dualiste.
Per contrastare i processi violenti che hanno determinato il riscaldamento globale e che aprono scenari disastrosi, si deve dunque comprendere cosa la società fa (e ha fatto) alla natura, e cosa la natura fa (e ha fatto) alla società. Le società umane in generale e le società capitalistiche in particolare non producono la natura, la perturbano; non la producono, ma la trasmutano, la modellano, la disturbano e la destabilizzano. La costruzione ideologico-culturale della natura non toglie in alcun modo il vincolo immanente alle sue stesse leggi, alla sua auto-nomia appunto: “le società umane hanno trasformato i cicli planetari del carbonio, ma non gli atomi di carbonio” – afferma Malm, citando il suo collega Alf Hornborg. Questo è un fatto, non un’interpretazione – si potrebbe aggiungere. La sociogenesi non è quindi una demiurgia.
È piuttosto “un’unità-di-contrari in movimento, una combinazione dinamica, un processo in cui le componenti sociali e naturali si scontrano tra loro”, al punto che “più la società si immerge nella natura, più la natura invade la società, con il suo esercito spettrale, le cui prime incursioni si fanno già sentire”.[5]
Cosa ancora più trasparente nel 2020 che nel 2017, quando sono state scritte queste righe sul “paradosso della natura storicizzata”.
Al di là di certi stereotipizzazioni delle posizioni costruttiviste, ibridiste e neomaterialiste,[6] ciò che Malm vuole portare mettere in luce non è solo l’anteriorità storica e un’incomprimibile esteriorità della natura rispetto alla società, ma anche il suo primato ontologico. Senza natura, ovviamente, nessuna società. Ma anche, e soprattutto da un punto di vista anticapitalista, la difesa della natura comporta, tra le altre cose, una politica della separazione. Poiché il capitale non può riprodursi senza contare su esternalità negative, si deve in primo luogo dissociare la sua impronta dal substrato materiale su cui pesa – l’emissione massiccia di CO2, dall’atmosfera terrestre, lo scarico di sostanze tossiche, dagli ecosistemi, ecc.
E poi si deve riconoscere il ruolo ineludibile delle esternalità naturali positive – l’appropriazione gratuita o (molto) a basso costo di cibo, energia, minerali e altre risorse. In questo, la storia oscura dello sfruttamento delle risorse naturali procede parallelamente a quella della messa in valore della forza lavoro.[7] L’una e l’altra si co-determinano e in entrambi i casi l’assimilazione nei circuiti capitalistici va a discapito dell’autonomia dei lavoratori e della natura: “il capitale è un comando imposto alla separazione”.[8] Questa osservazione ontologico-politica di Toni Negri, ripresa da Malm, fornisce il filo rosso delle pagine seguenti, dove ricostruiremo le coordinate storico-naturaliste[9] all’interno delle quali si svolge la tragedia disuguale e combinata dei nostri tempi.
Lotta di classe e accumulazione originaria di capitale fossile
Il riscaldamento globale, frutto di antagonismi tra gruppi umani, non fa che aumentare le tensioni sociali, economiche e politiche. Tale è la tesi di base dell’opera storiografica di Malm, della sua diagnosi del presente e delle prospettive di collasso futuro a cui conduce. Il cambiamento della temperatura sulla Terra – determinato in primo luogo dall’uso capitalistico di questo “compendio di relazioni sociali disuguali”[10] che sono i combustibili fossili – è un prodotto impuro dei conflitti sociali passati e presenti. Che si assuma un punto di vista globale o ci si concentri sull’Inghilterra (pre)vittoriana, non importa: la lotta di classe prevale. In tutto il mondo, l’adozione dei combustibili fossili come motore primario dell’accumulazione di capitale è stata imposta con la forza in reazione al rifiuto operaio del lavoro.[11] Se infatti gli esseri umani conoscono da molto tempo le proprietà pirolitiche del carbone, e se lo bruciano per riscaldare le abitazioni fin dalla pre-modernità, è solo a partire dagli anni 1825-30 che la sua produzione e il suo consumo sono andati ben oltre le abitudini precedenti. Ma allora, cosa è successo in quel momento? Perché una mutazione di tale portata è avvenuta in concomitanza con le prime leggi in difesa dei lavoratori? Come è stato possibile che tale cambiamento epocale abbia ecceduto i confini ristretti dell’Inghilterra per raggiungere i quattro angoli del mondo? Ci sembra che il racconto di Malm sull’accumulazione originaria di capitale fossile non solo sia in grado di rendere conto di questo passaggio da una fase storica all’altra, ma anche di produrre degli effetti di soggettivazione simili a quelli delle narrazioni di Marx e del marxismo nero e femminista sull’argomento. E ancora una volta, l’avvicinamento alla lettura operaista della trasformazione sociale ci sembra fruttuoso, poiché l’approccio di Malm riprende implicitamente la classica dialettica operaista di lotte/crisi/sviluppo che fa dell’innovazione tecnologica il perno della risposta capitalistica all’ingovernabilità dei lavoratori.
Non potendo restituire qui la ricchezza epistemologica, storiografica e politica di questi dibattiti, ci accontenteremo di sottolineare come fin dai primi scritti operaisti, l’uso capitalistico delle macchine è messo sotto i riflettori in quanto cristallizzazione del dispotismo di fabbrica. Seguendo l’insegnamento di Marx, Raniero Panzieri e Romano Alquati criticano la presunta neutralità della scienza e della tecnologia e rivelano così la posta in gioco politica insita nel processo produttivo. Secondo i Quaderni rossi e classe operaia, i processi di ristrutturazione della produzione non incarnano il progresso evolutivo di una razionalità super partes, ma mirano a contrastare il comportamento di resistenza dei lavoratori, a irreggimentare la forza lavoro e a sottometterla alle nuove norme di massimizzazione del profitto. Mario Tronti amplia questo angolo visuale, denunciando la logica ferrea che ha forgiato la riconfigurazione complessiva della fabbrica e della società: sono la razionalizzazione dell’amministrazione pubblica o la riforma dell’istruzione, della sanità, dell’urbanistica, così come la gestione della moneta o la programmazione degli investimenti, a rafforzare il piano del capitale dopo le difficoltà emerse dal 1929 in poi. Il comando capitalista integra così maggiormente la classe operaia nelle maglie del suo potere, ma apre anche le porte a crisi di maggiore portata. Ciò che Negri da un lato e Sergio Bologna dall’altro non smetteranno di sottolineare all’indomani del ’68. Se Keynes rappresenta la risposta borghese a Lenin, la svolta imperiale del neoliberalismo dà sostanza alla reazione capitalistica alle minacce dei lavoratori degli anni Sessanta e Settanta. Allo stesso modo, la precarizzazione dell’occupazione, la finanziarizzazione dell’economia e lo spiegamento della logistica costituiscono la punta di diamante di una controrivoluzione dall’alto di fronte alla destabilizzazione politica causata dai movimenti sociali dell’epoca.
Ora, la “rivoluzione copernicana”, che consiste nel considerare il soggetto delle lotte sociali come prioritario rispetto allo sviluppo oggettivo del capitale, è al centro della transizione originaria al fossile descritta da Malm. Con l’introduzione, però, di un elemento fondamentale per relativizzare il “sociocentrismo operaista”,[12] cioè: la questione energetica. Questo impensato dell’operaismo rappresenta il cuore della storiografia eco-marxista di Malm ed è un complemento necessario a qualsiasi critica anticapitalista. Le sequenze lotta/crisi/sviluppo non si limitano infatti a sconvolgere, secondo l’insegnamento operaista, le relazioni sociali, economiche e politiche di un determinato periodo, ma scuotono anche da cima a fondo gli equilibri ambientali ed ecosistemici, provocando vaste mutazioni ecologiche. Per riassumere al proposta di Malm, potremmo quindi dire che la sostituzione dell’acqua con il carbone come principale fonte di energia nella produzione è fin dall’inizio un progetto di classe, le cui ripercussioni sono – e saranno – sempre più ampie.
Se “il riscaldamento globale è il risultato delle azioni del passato”, cioè se “non siamo mai nel calore del momento, ma solo nel calore del passato attuale”, allora “un’eternità [storica] si sta determinando in questo momento”.[13]
Siamo infatti nel bel mezzo di un periodo di crisi acute, ed è attraverso il prisma di questa ingiunzione temporale che Malm elabora il suo percorso teorico e politico: per le classi inferiori in particolare, e per la salvaguardia di molte specie animali e vegetali, diventa sempre più urgente spegnere il fuoco che brucia il pianeta il più rapidamente possibile. Da qui l’importanza di combattere il capitale fossile come causa principale dei disastri attuali e futuri. Ma cos’è esattamente il capitale fossile? Com’è potuto diventare così nevralgico per l’economia generale delle società capitalistiche? E, più in generale, cosa si intende per economia fossile?
Secondo Malm, l’economia fossile, caratterizzata da un vertiginoso aumento delle emissioni di anidride carbonica, si riferisce ad “un’espansione della scala della produzione materiale ottenuta attraverso l’espansione della combustione di carbone, petrolio e/o gas”.[14] A differenza del paradigma ricardo-maltusiano, tuttavia, non sono le pressioni concorrenziali o demografiche, le restrizioni territoriali o l’esaurimento delle fonti alternative che hanno portato alcuni capitalisti ad avallare questa scelta strategica, ma motivi eminentemente politici. La macchina a vapore ha prevalso sulla ruota idraulica non perché fosse più efficiente e affidabile o perché il carbone fosse più economico e abbondante dell’acqua. Non è una crisi energetica che è all’origine di una transizione così decisiva per il destino del mondo, ma una vera e propria crisi di controllo della forza lavoro. Prima e lungo tutta la transizione, la superiorità tecnologica della macchina e la redditività economica della risorsa hanno piuttosto costituito dei contro-argomenti: le ruote erano più potenti e meno soggette a riparazioni, e l’acqua scorreva liberamente e copiosamente nella campagna inglese.[15] Esse avevano però un difetto importante: la distanza dalle grandi concentrazioni operaie. L’energia idraulica ha infatti conferito una dinamica centrifuga allo sviluppo spaziale della prima rivoluzione industriale, allontanando le fabbriche dai centri urbani. Fenomeno che ha sempre dato luogo a grandi problemi manageriali riguardanti l’offerta e la gestione della mano d’opera, fino a quando il potere crescente della classe operaia non ha promosso il cambiamento.
Fin dall’inizio del secolo, gli organi della stampa specializzata sussurravano alle orecchie dei capitani d’industria i loro validi consigli: il vantaggio del vapore consiste nel poter avvicinarsi alla forza lavoro. Bisognava piazzare le fabbriche al centro di una popolazione educata al sudore della fronte per garantire l’accesso a una forza lavoro che potesse essere sfruttata a piacimento, liberando così “il capitale dalle sue catene spaziali”.[16] Nelle fabbriche-colonia, il manifattore doveva innalzare l’edificio, equipaggiare i macchinari, costruire gli alloggi, garantire un minimo di servizi riproduttivi, insomma: fondare il villaggio ex novo, senza il minimo supporto finanziario e logistico da parte delle autorità pubbliche. Inoltre, il reclutamento della forza lavoro rappresentava una grande sfida:
“L’idea di lavorare sulle macchine per lunghe giornate con orari regolari, accalcati sotto lo stesso tetto e sotto la stretta supervisione di un direttore era ripugnante ai più, soprattutto nelle zone rurali”.
Come spesso accade, quindi, è “l’implacabile avversione alla disciplina di fabbrica”[17] a destare la massima preoccupazione, costringendo i capitalisti a lanciare delle campagne pubblicitarie per importare operai/e dalla città. Nonostante la spesa esorbitante in capitale costante, i costi di riproduzione, la carenza di manodopera e la pratica assidua della fuga dal lavoro, tale situazione è risultata sostenibile fino al 1825-30 circa. Tuttavia, quando gli scioperi, i sabotaggi e le rivolte si sono radicalizzati, le fabbriche-colonia si sono dimostrate troppo vulnerabili. Al pinto che, una volta approvata la legge sull’orario di lavoro di 10 ore al giorno, gli attacchi estremamente feroci contro i lavoratori e i sindacati non sono più stati sufficienti a mantenere il tasso di profitto e l’unica scelta possibile è consistita in un vero e proprio rovesciamento della strategia di investimento. I capitalisti legati all’energia idraulica sono stati sempre più costretti a convertirsi al vapore e a cambiare le geografie del capitale, innescando una dinamica centripeta. O, per dirla in un altro modo, “la fondazione della città industriale [è stata] fossile”.[18]
Da una transizione all’altra
Una volta inserito nel circuito di valorizzazione, il carbone ha permesso al capitale di riconquistare l’iniziativa e di sfruttare più facilmente gli eserciti di riserva che si stavano accumulando nelle grandi città inglesi. Una composizione sociale più obbediente e numerosa è stata così resa disponibile dalle caratteristiche intrinseche della risorsa energetica. Strappato dalle viscere della terra, il carbone poteva essere spostato, immagazzinato e consumato dove era più conveniente, cioè dove il ricatto del capitale sul lavoro era più efficace:
“per la prima volta nella storia, il convertitore e la fonte di energia meccanica – la macchina e la miniera – sono stati spazialmente dissociati”.[19]
Ciò ha reso un immenso servizio ai capitalisti del cotone. Senza la base energetica del carbone, infatti, i margini per disporre ad libitum della forza lavoro sarebbero stati più ristretti. Il combustibile fossile ha dunque procurato una condizione materiale decisiva per risolvere le contraddizioni politiche della società capitalista dell’epoca. Prima della transizione energetica, la meccanizzazione e l’automazione della produzione potevano certamente sostituire i lavoratori più recalcitranti, ma continuavano ad essere alimentati da fonti non completamente domabili dal capitale. Il vento, ad esempio, rimane per definizione aleatorio. L’acqua, pur potendo essere arginata e canalizzata, è legata alle fluttuazioni stagionali e a territori non necessariamente congeniali. Al contrario, la corsa al carbone era guidata proprio da quello che Malm chiama “la sua potenza impotente, o il suo potere senza potere“.[20] Completamente controllabile dal suo padrone, ontologicamente soggetto al capitalista, il carbone è una variabile completamente dipendente dalle esigenze dell’accumulazione e incarna così alla perfezione la fantasia di ogni detentore di denaro e di mezzi di produzione: il carbone è
“una forza motrice sulla quale il capitale può esercitare un potere assoluto, offrendo al capitale tutto la potenza di cui ha bisogno”.[21]
Le virtù del carbone, “perfettamente docile, malleabile e flessibile”,[22] rappresentano la negazione per eccellenza delle carenze delle altre forze motrici e dei vizi della forza di lavoro – ciò che gli operisti definivano “rigidità del lavoro”, o il lavoro come “variabile indipendente” del capitale. Così, a partire dal 1830, la macchina a vapore sostituì sempre di più la ruota idraulica e l’estrazione del carbone ha fatto un notevole balzo in avanti. Eterogenesi dei fini, l’autodifesa operaia ha costretto il capitale a mettere in atto questa grande trasformazione energetica, la quale ha esercitato una formidabile influenza sulla produzione di una temporalità e una spazialità propriamente capitaliste. La vittoria nella lotta sulla giornata lavorativa ha finito così per intrattenere il predominio dello spazio-tempo astratto del capitale sullo spazio assoluto e sul tempo concreto tipici delle formazioni sociali pre- o proto-capitaliste.[23] Infatti, a differenza delle energie rinnovabili, i combustibili fossili non dipendono dalle qualità morfologiche di un luogo o dalla casualità delle stagioni. Al contrario, la loro totale maneggevolezza riduce il tempo e lo spazio a dati puramente quantitativi e funzionali. Da questo punto di vista, i combustibili fossili sono per l’energia ciò che il denaro è per lo scambio: essendo disponibili/valevoli in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, entrambi aprono il campo dei possibili capitalisti; entrambi permettono al capitale di ignorare certi limiti legati alle particolari proprietà degli oggetti tra i quali mediano; entrambi accelerano e intensificano i ritmi di produzione. Con il carbone, il capitale si affranca definitivamente da diverse catene naturali e ottiene una maggiore libertà di movimento e una maggiore efficienza di rendimento.
La formula generale del capitale deve dunque essere ritrascritta in termini non solo ecologici, ma anche energetici. Ciò che caratterizza tutte le società capitalistiche è infatti l’imperativo della crescita indefinita. Al di là delle loro singolarità storiche, ogni società capitalista tende costantemente ad andare oltre i propri confini, per allargare all’infinito il circuito di riproduzione delle proprie relazioni sociali. Ciò implica l’espansione perpetua del regno della merce per fare sempre più denaro: D-M-D’, denaro-merce-plusdenaro. Tuttavia, l’accumulazione di capitale attraverso la mercificazione del mondo manifesta diverse dimensioni: l’assoggettamento di masse sempre più consistenti di forza lavoro sotto il comando della moneta, lo sviluppo dei mezzi di produzione, ma anche la sussunzione ininterrotta di nuovi territori sociali e geografici sotto la legge del profitto e il continuo inghiottimento di nuove risorse naturali – energia e cibo in primis – da parte del capitale. Ora, la messa in valore della forza lavoro è l’elemento vitale di questo processo potenzialmente illimitato, privo di significato e di contenuti specifici, mentre la colonizzazione dello spazio sociale e l’annessione imperialista dei continenti costituiscono i suoi bracci armati. All’interno di questo quadro analitico, l’originalità dell’eco-marxismo di Malm consiste nel focalizzarsi sull’assimilazione sempre maggiore di combustibili fossili per sostenere il dispiegamento capitalistico. La M nella formula generale del capitale D-M-D’ emerge dunque dalla triangolazione tra l’accumulazione dei mezzi di produzione, lo sfruttamento del lavoro vivo e l’incorporazione nei rapporti di produzione di pezzi sempre più grandi di natura extraumana, di cui i combustibili fossili catturano l’attenzione dell’autore.
In un articolo brillante, Malm declina tale approccio in una prospettiva di lungo termine. Fattore che permette di costruire un ponte verso la situazione contemporanea, in cui la recente esplosione delle emissioni di CO2 a livello globale è da mettere in relazione con la crisi della governance della forza lavoro degli anni Sessanta e Settanta. Attingendo alla lettura di Ernest Mandel degli studi di Nikolaj Kondratiev sui cicli economici, Malm mostra la fondamentale plasticità del capitalismo nel corso degli ultimi secoli. La logica della formula generale del capitale si è effettivamente concretizzata in una molteplicità di formazioni sociali eterogenee, sebbene in ogni fase di transizione abbiamo visto all’opera una medesima tendenza. Come ci insegnano gli operaisti, ogni volta che una crisi strutturale è in pieno svolgimento assistiamo a una rivoluzione tecnologica capace di dissolvere le impasse economiche e politiche che ostacolano la lunga marcia del capitale. E ogni volta, questo sconvolgimento nei rapporti di produzione avviato dall’introduzione di nuove macchine procede in concomitanza non solo di una riorganizzazione del processo di lavoro (necessaria per contrastare l’indisciplina operaia), ma anche di una radicale trasformazione del sistema energetico. È così che l’intera costellazione tecnologica produttrice di energia, i settori trainanti dell’economia e le infrastrutture logistiche sottostanti si trasformano da cima a fondo. Senza entrare nei dettagli, la sequenza di diversi cicli – ciascuno caratterizzato da una fase ascendente e una discendente – ha dato luogo alle seguenti transizioni: una prima ondata dal 1780 al 1848 guidata dalla meccanizzazione idraulica dell’industria del cotone e del ferro; una seconda ondata dal 1848 al 1896 sostenuta dalla meccanizzazione a vapore dell’industria (cotone, ferro, carbone, macchine utensili) e dei trasporti (ferrovie); un terzo ciclo dal 1896 al 1945 determinato dall’elettrificazione dell’industria, dei trasporti e dei nuclei famigliari con al centro le apparecchiature elettriche, l’ingegneria, la chimica e l’acciaio; un quarto ciclo dal 1945 al 1992 promosso dalla motorizzazione dei trasporti (automobili, aerei) e di diversi rami dell’economia (raffineria, petrolchimica, petrolio, gas); e un’ultima ondata dal 1992 ad oggi, spinta dalla digitalizzazione dell’economia e dalla centralità produttiva di computer, software, apparecchiature di telecomunicazione, microprocessori, ecc.[24]
Secondo Mandel, i passaggi di fase sono innescati sia da elementi endogeni al circuito economico sia da fattori esogeni di natura sociale e politica. È la combinazione di questa pluralità di fenomeni immanenti al, e (parzialmente) trascendenti il capitale che dà inizio al cambiamento della congiuntura storica e che stimola l’allargamento ricorsivo della base energetica su cui si basa il sistema. Per quanto riguarda la transizione dal quarto al quinto ciclo – con l’inizio della fase discendente del quarto tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta – la componente soggettiva della lotta di classe ha prevalso sulle contraddizioni oggettive immanenti al capitale (intensificazione della concorrenza, esaurimento dei mercati, ecc.) Al di là delle sfumature nella periodizzazione dell’accumulazione capitalistica, questa osservazione, segno distintivo dell’operaismo, fornisce un indizio per decifrare un’apparente anomalia nel modello di Mandel, assunto da Malm. Certo,
“A differenza dei motori a vapore, dell’elettricità, delle automobili o del petrolio, i computer non sono né dei motori, né dei trasmettitori o delle fonti di energia, eppure l’espansione economica che hanno prodotto ha causato l’esplosione più estrema di CO2 nella storia del capitale industrializzato”.[25]
La tesi di Malm è che le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (NTIC), anche se non immediatamente legate all’estrazione e alla circolazione di combustibili fossili, abbiano svolto un ruolo ineludibile nel combattere/recuperare i movimenti sociali che avevano minato il vecchio regime socio-energetico e che esse esercitino in seno al ciclo attuale una potenza costituente. Ancora una volta, le lotte che hanno portato alla crisi del vecchio regime di accumulazione sono legate da un doppio nodo allo sviluppo del nuovo sistema tecno-energetico. La degenerazione in corso degli equilibri atmosferici è infatti direttamente proporzionale al boom delle delocalizzazioni delle fabbriche occidentali nel Sud-Est asiatico; e questa riconfigurazione delle catene globali delle merci, di cui uno degli obiettivi prioritari è consistito nella dissoluzione delle concentrazioni operaie dell’era keynesiana e fordista, non sarebbe mai stata praticabile senza il lavoro di collegamento e coordinamento reso possibile dalle NTIC.
The Warming Condition: il Capitalocene visto dalla Cina
Per discernere il recente salto qualitativo del riscaldamento globale è imperativo rilevare l’alchimia tra il conflitto dei lavoratori in Occidente negli anni ’60 e ’70, il successivo approfondimento delle tendenze verso la globalizzazione del capitale degli anni ’80 e ’90 e l’ascesa astronomica della Cina all’inizio del secolo: lotte/crisi/sviluppo, con particolare attenzione alla spirale energetica che ne deriva, la crescita in termini assoluti del capitale totale (il cosiddetto PIL mondiale) procedendo di pari passo con l’ampliamento della combustione di carbone, gas e petrolio. Anche se l’analisi di tali dinamiche va ben oltre la portata limitata di questo testo, bisogna tuttavia porsi una domanda: perché la Cina in particolare, e non altri paesi? Quali condizioni ha soddisfatto per attirare così tanti capitali durante il suo boom? Nel momento in cui il peso del lavoro vivo è diventato insopportabile in Occidente, la Cina è apparsa per vari motivi come un luogo idoneo per ricevere formidabili flussi di investimenti diretti esteri. Per dirlo in modo stilizzato, innanzitutto, essa è dotata di una classe operaia colossale, relativamente disciplinata e istruita, la quale subisce la pressione delle masse contadine dell’interno. In secondo luogo, la Cina gode di un sistema politico abbastanza stabile, governato sotto l’egida accentratrice del Partito Comunista. Dopodiché, la Cina ha sviluppato una solida e ramificata rete logistica e metropolitana, la quale si è dimostrata particolarmente adatta alla circolazione delle merci: porti, aeroporti, autostrade, ferrovie, ecc. E poi, il gigante asiatico dispone di giacimenti fossili e di una notevole e avanzata infrastruttura energetica. È così che la Cina è potuta diventare la principale ciminiera della fabbrica globale. I numeri a tal proposito sono sconcertanti. Da un lato, il PIL della Cina è cresciuto più di quaranta volte tra il 1990 e il 2019, facendo di Pechino la seconda economia mondiale dopo Washington, sebbene i suoi tassi di crescita continuino ad essere molto più sostenuti di quelli dei concorrenti occidentali. Dall’altro, il consumo di combustibili fossili (fondamentalmente il carbone) è letteralmente esploso, rendendo la Cina non solo il più grande estrattore di combustibili fossili del mondo, ma anche il più grande emettitore di CO2 in termini assoluti, responsabile di oltre il 50% dei recenti cambiamenti nella composizione dell’aria.[26]
Queste cifre ben note devono però essere esaminate. In modo schematico: siccome la Cina ha polarizzato su di sé i desideri del grande capitale transnazionale, il nazionalismo metodologico non offre una buona lente attraverso la quale esaminare le questioni climatiche. Il sistema-Cina non può essere ritenuto il principale piromane nell’incendio che sta infiammando il pianeta. Al contrario, dietro questi dati bisogna decodificare e criticare il complesso groviglio di relazioni sociali globali. La localizzazione delle emissioni sul territorio di un paese non dice nulla della stretta rete che collega la produzione di un bene o servizio in un angolo del mondo al suo trasporto e consumo in qualsiasi altro luogo. La “colonna di fumo cinese”[27] dipende infatti direttamente dalle sue massicce esportazioni, le quali fino al 2008 erano – e sono ancora oggi, anche se meno intensamente – l’elemento motore della crescita folgorante del Drago orientale. Sono fondamentalmente i comparti produttivi destinati al mercato globale ad aver causato l’aumento delle emissioni di CO2, mentre altre statistiche (cambiamenti demografici, miglioramento del tenore di vita) contano molto meno. Da questo punto di vista, il “fardello ecologico”[28] dei paesi ricchi e lo stile di vita delle loro classi abbienti assumono una portata completamente diversa. In tal senso, il deterioramento dei valori atmosferici prodotti dalle fabbriche situate in Cina è il lato inquinato della medaglia della terziarizzazione dell’economia nel Nord globale. Si trova così confermato, in modo inedito e con proporzioni enormi, il fenomeno che costituisce il filo rosso della storiografia politica di Malm: se il capitale fugge il lavoro caro e il conflitto, “laddove va il capitale, seguono immediatamente le emissioni di gas”, determinando una variazione nella composizione fossile del capitale.[29]
Tale narrazione analitica squalifica inesorabilmente il mito dell’Antropocene.[30] Secondo Malm, le teorie dell’Antropocene accusano infatti l’umanità in quanto tale: l’essere umano, in quanto entità indifferenziata, sarebbe colpevole della disastrosa evoluzione del cambiamento climatico. Si tratta di una narrazione che de-naturalizza per ri-naturalizzare: all’origine del riscaldamento globale non vi sono delle evoluzioni climatiche immanenti alle leggi della natura, ma la natura umana. La scoperta del fuoco, il produttivismo innato o altre qualità a-storiche e universali tali da designare l’essere generico, tuttavia, non vanno bene, in quanto troppo spesso conducono a una visione astratta dell’azione umana responsabile delle degradazioni della natura.
“In realtà, non è stata che una piccola cricca di uomini bianchi britannici a puntare letteralmente il vapore come un’arma – su mare e terra, sulle navi e sulle rotaie – contro la quasi-totalità l’umanità, dal delta del Niger al delta dello Yangtze Jiang, dal Levante all’America Latina. […] I capitalisti di un piccolo pezzo di territorio del mondo occidentale hanno investito in questa tecnologia, ponendo la prima pietra dell’economia fossile: e in nessun momento la specie ha votato per essa, con i piedi o nelle urne, né ha marciato all’unisono, né ha esercitato alcun tipo di autorità comune sul suo destino e su quello del sistema terra.”[31]
Il riscaldamento globale non è il frutto marcio dell’antropos, ma di una specifica formazione sociale. Il business as usual, ossia l’incenerimento crescente di combustibili fossili, può apparire naturale solo ad un occhio ideologizzato. Per contrastare l’atteggiamento di attesa e il disfattismo, dobbiamo dunque immettere la storia nel clima e chiederci quali forze sociali hanno acceso questo fuoco – per nulla inevitabile – e perché l’abbiano fatto. Una storiografia critica deve cioè mostrare la natura contingente di questo processo, le alternative che sono state schiacciate lungo il cammino e soprattutto le responsabilità passate e gli interessi presenti che si oppongono alle possibilità concrete di transizione ecologica.[32] Alcuni dati elementari meritano di essere menzionati per liberarsi dalla narrazione teleologica dell’Antropocene e per mettere in rilievo la violenza storico-politica che acceso il braciere. All’inizio del XXI secolo, i paesi del Nord del mondo contavano meno del 20% della popolazione mondiale, anche se dal 1850 avevano emesso più del 70% di CO2 nell’atmosfera; il 45% dei più poveri dell’umanità rappresentava il 7% delle emissioni, mentre il 7% più ricco oltre il 50%; al di là delle distinzioni di classe all’interno di ogni paese, un americano medio ha un’impronta di carbonio 500 volte superiore a quella di un abitante dell’Africa subsahariana (ed è ben noto che i consumi ostentatori e di lusso sono estremamente inquinanti); il 65% delle emissioni totali accumulate fino ad oggi sono imputabili a 90 multinazionali dell’estrazione di combustibili fossili, ecc. In breve: a seconda del tempo, del luogo e dell’estrazione sociale, l’impronta di carbonio di un esemplare di Homo sapiens sapiens può variare in un rapporto da 1 a molto più di 1000.[33] La razza umana appare quindi come un’astrazione troppo confusa e indeterminata per individuare i veri colpevoli. E questa mistificazione teorica implica ovviamente una paralisi politica. Riprendendo una delle lezioni fondamentali dell’operaismo, direttamente ispirata alla lettura lukácsiana di Lenin, è la parzialità del punto di vista dei soggetti in lotta che ci fornisce la bussola per orientarci nella giungla della storia. Poiché è solo da una prospettiva epistemologica di parte [partielle et partiale] che possiamo accedere alla comprensione delle relazioni sociali capitalistiche e cercare di promuovere la loro radicale trasformazione.
Considerazioni finali
Ovunque si siano impiantato, il tallone di ferro del capitale fossile ha versato lacrime e sangue. Ma ovunque è andato, ha incontrato una forte resistenza. Dall’Alaska al Borneo, passando per l’Ecuador, la Nigeria, il Medio Oriente o l’India, non v’è luogo sul pianeta dove il rifiuto degli sfruttati della Terra di sottomettersi ai suoi dettami non si sia manifestato in modo chiaro e netto. L’antagonismo dei lavoratori e dei coolies nelle miniere o i conflitti dei popoli indigeni e colonizzati nei loro territori costituiscono dei monumenti imperituri in memoria delle lotte. Da adesso in avanti, però, la nemesi del capitale fossile non sarà perpetrata semplicemente dall’autonomia di lavoratori/trici e colonizzati/e, ma anche da quella della natura. Sulla temporalità ciclica delle crisi capitalistiche classiche, si innesta sempre più la temporalità cumulativa del riscaldamento globale. O, per dirla in un altro modo, sulla tendenza processuale della lotta di classe, si innesca la tendenza esponenziale delle catastrofi ecologiche. E se fino ad oggi il riformismo del capitale ha sempre saputo disattivare le lotte e le crisi rinnovando costantemente la grammatica dello sviluppo, per sperare di contenere/contrastare non solo l’autonomia dei dominati ma anche quella senza intenzioni della natura, dovrà mostrare una reattività e un’inventiva ancora maggiori. Solo che, dopo dodici anni di crisi sistemica e senza via d’uscita all’orizzonte, questi due atout sembrano pericolosamente carenti. Non solo: la pandemia globale di Covid-19, la depressione economica che sta provocando e la crisi della governance in atto oggi non faranno che peggiorare la situazione. Dall’altro lato della barricata, invece, i movimenti per la giustizia climatica e le rivolte popolari hanno conosciuto una stagione decisamente frizzante nel 2019, sebbene non siano ancora all’altezza dell’urgenza del momento. Potremmo quindi concludere questo primo testo citando il John Maynard Keynes di A Tract on Monetary Reform, il quale, poco dopo la firma del Trattato di Versailles, criticava gli economisti che si rifiutavano di intervenire nella situazione economica.
“Nel lungo termine lunga”, scriveva, “saremo tutti morti. Gli economisti si pongono un compito troppo facile e inutile se ci dicono, nel bel mezzo dei tumulti, che quando la tempesta sarà un lontano ricordo, l’oceano ritornerà di nuovo piatto”.
Coloro che sopportano tutto il peso delle conseguenze del Capitalocene sanno infatti fin troppo bene che non sarà fermata dai loro corpi, la tempesta in corso non smetterà di avanzare.
SU ALCUNE PROPOSTE DI ANDREAS MALM – VOCI DALL’ANTROPOCENE – (ANNO II #6) – 14/12/20
Capitale Fossile, Autonomia della Natura, Leninismo Ecologico… sono solo alcuni dei concetti fabbricati da quel prolifico autore che risponde al nome di Andreas Malm; svedese, militante ambientalista, antimperialista e antifascista prima ancora che professore di Human Ecology all’università di Lund, Malm ha portato un contributo importante all’armamentario teorico dell’Ecologia Politica contemporanea.
Fin dai primi studi sulla transizione dall’energia idraulica a quella a vapore, individuata come effettivo punto di salto nel diffondersi canceroso del modello capitalista ai quattro angoli del globo, ha posto l’accento sul carattere non naturale e non neutrale di questo passaggio. Più di recente, con “How to blow-up a Pipeline?” e “Corona, Climate, Chronic Emergency: War Communism in the Twenty-First Century” ha concentrato la sua attenzione sull’urgenza di una risposta politica “bolscevica” all’altezza dell’epidemia di Covid-19.
In due contributi sulla rivista di critica comunista Contretemps – Bienvenue dans le passé. Autonomie de la nature, combustibles fossiles et Capitalocène e Retour sur le présent. Espaces globaux, nature sauvage et crises pandémiques (di prossima traduzione) – Davide Gallo Lassere, ricercatore e attivista, interviene criticamente su alcuni punti dirimenti delle proposte dell’autore di “Fossil Capital“. Spunti utili per un dibattito all’altezza delle sfide imposte dal tempo che viene.
(In apertura di trasmissione, una diretta dai Mulini della Clarea, presidio resistente e avamposto contro il mostro-cantiere Tav, dopo il recente allargamento).
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Note
[1] A. Malm, http://revueperiode.net/le-mythe-de-lanthropocene/.
[2] A. Malm, The Progresso of this Storm, Verso, 2018, p. 207.
[3] Per un’introduzione all’operaismo, cf. S. Wright, Assalto al cielo, Alegre, 2008 o, in francese, la guida di lettura scritta assieme a J. Allavena, http://revueperiode.net/guide-de-lecture-operaismes/.
[4] Questi due testi fanno parte di una serie sulla “crisi” a cui sto lavorando; sono preceduti da Sur la méthode opéraïste, scitto con J. Allavena et M. Polleri (https://acta.zone/s-bologna-et-g-daghini-mai-68-en-france-bonnes-feuilles/); La montée des autoritarismes (https://www.contretemps.eu/montee-autoritarismes-chamayou/); Dans la boite noire des années 10 : crise, néo-fascisme et mouvements sociaux (https://vacarme.org/article3256.html); Penser le capitalisme global : multiplication du travail, opérations du capital et contre-pouvoirs, à paraître dans Actuel Marx ; La crise des Gilets Jaunes et l’horizon des possibles. De chacun selon ses privilèges à chacun selon ses besoins (https://revue-k.univ-lille.fr/cahier-special-2020.html) e da Micrologies policières et crise de régime (https://www.contretemps.eu/violences-policieres-crise-regime/).
[5] A. Malm, Nature et société : un ancien dualisme pour une situation nouvelle, in P. Guillibert, S. Haber (a cura di) Actuel Marx, n° 61/2017, pp. 54 e 58. Sul « paradosso di una natura storicizzata», ivi pp. 54-59.
[6] Per un intervento eminentemente politico, e ispirato dall’urgenza climatica, su questi dibattiti onto-epistemologici, cf. A. Malm, The progress of this Storm, op. cit., in particolare pp. 21-118. La proposta di Malm, il quale in questo testo non sempre rende giustizia agli autori e alle teorie che discute, si sviluppa sotto il segno della seguente citazione: «Meno Latour, più Lenin: è questo ciò che richiede la warming condition», p. 118.
[7] Cf. R. Patel, J. W. Moore, Una storia del mondo a buon mercato, Feltrinelli, 2018.
[8] Negri citato da A. Malm, The progress of this Storm, op. cit., p. 200. Sulla dialettica della separazione, cf. A. Negri, Il dominio e il sabotaggio, Feltrinelli, 1978. Con l’espressione dialettica della separazione Negri intende non solo l’autonomia del lavoro rispetto allo sviluppo capitalistico, e dunque la necessità per quest’ultimo di appoggiarvisi, ma anche l’opera di rottura e secessione del primo rispetto al secondo.
L’autonomia della natura rispetto al capitale è tuttavia assai differente da quella del lavoro, e i suoi effetti possono rivelarsi catastrofici anziché emancipatori. Assumere politicamente la possibilità della catastrofe implica dunque di tenere nella più alta considerazione questa separazione originaria tra natura e capitale e operare per mettere in campo dei rapporti ecologicamente sostenibili.
[9] Sul concetto di naturalismo storico, cf. due opere in corso di pubblicazione, P. Guillibert, Terre et capital, Amsterdam 2021 e F. Monferrand, Le jeune Marx et le capitalisme, Amsterdam, 2021. Si vedano inoltre i lemmi Nature e Naturalisme, di J. Farjat, F. Monferrand, Dictionnaire Marx, Ellipse, 2020, pp. 157-62.
[10] Cf. A. Malm, L’anthropocène contre l’histoire, La fabrique, 2017, p. 45.
[11] Il primato della lotta di classe nella dinamica della trasformazione sociale e la centralità della pratica del rifiuto del lavoro costituiscono il DNA dell’operaismo. Ci pare che questo approccio costituisca il filo rosso della storiografia di Malm, e che esso sia stato inoltre efficacemente illustrato da Thimothy Mitchell, il quale ha mostrato come la transizione al petrolio sia stata intrapresa da Churchill per contrastare il potere dei minatori di carbone. Cf. il suo Carbon Democracy, La découverte, 2013.
[12] Cf. a questo proposito E. Leonardi, Italian Theory e World Ecology, in Sociologia urbana e rurale, n°120/2019, pp. 93-108 e Bringing Class Analysis Back In, in Ecological Economics, n° 156/2019, pp. 83-90.
[13] A. Malm, The progress of this storm, op. cit., pp. 5 et 7.
[14] A. Malm, L’anthropocène contre l’histoire, op. cit. p. 67.
[15] Cf. il paragrafo L’énigme de la supérieurité de l’eau, ibid., pp. 81-91.
[16] Ibid., p. 94.
[17] Ibid. p. 97.
[18] Ibid. p. 104.
[19] Idem.
[20] Ibid. p. 112
[21] Ibid. p. 114
[22] Ibid. p. 113
[23] Qui avviene, in termini marxiani, il passaggio dall’estrazione di plusvalore assoluto all’estrazione di plusvalore relativo. Una volta limitata la durata della giornata lavorativa, i mulini non sono più stati in grado di reggere la concorrenza delle macchine a vapore, le quali potevano essere accelerate a piacimento – intensificando così i ritmi di lavoro. Sulla creazione di una spazio-temporalità propriamente capitalista, cf. ibid. pp. 131-34. Sull’astrazione della natura nella transizione dal feudalesimo al capitalismo, cf. anche J. W. Moore, Le capitalisme dans la toile de la vie, Asymétrie, 2020 oppure, in rete http://revueperiode.net/au-dela-de-lecosocialisme-une-theorie-des-crises-dans-lecologie-monde-capitaliste/ così come i suoi tre studi sul Capitalocene, liberamente accessibili sul suo sito https://jasonwmoore.com/.
[24] Cf. A. Malm, https://www.mediationsjournal.org/articles/long-waves.
[25] Ibid.
[26] A. Malm, http://revueperiode.net/capital-fossile-vers-une-autre-histoire-du-changement-climatique/.
[27] Ibid.
[28] Ibid.
[29] Ibid.
[30] Cf. A. Malm, http://revueperiode.net/le-mythe-de-lanthropocene/.
[31] A. Malm, L’anthropocène contre l’histoire, op. cit., p. 10. Per una teorizzazione del capitalocene, cf. J. W. Moore, Antropocene o Capitalocene?, Ombre Corte, 2017, oppure gli articoli disponibili su https://jasonwmoore.wordpress.com/. Per una difesa del concetto di Antropocene, cf. tra gli altri D. Chakrabarty, https://pcc.hypotheses.org/files/2012/03/Chakrabarty_2009.pdf. Dello stesso autore, Réécrire l’histoire depuis l’Anthropocène, in P. Guillibert, S. Haber (sous la direction de), Actuel Marx n° 61/2017, op. cit., pp. 95-105.
[32] Ibid. pp. 20-27.
[33] Per questi dati, cf. ibid. p. 11-13 e cf. A. Malm, http://revueperiode.net/capital-fossile-vers-une-autre-histoire-du-changement-climatique/.
[34] Si tratta evidentemente di un approccio epistemologico e politico che necessiterebbe di una discussione approfondita, i cui passaggi fondamentali sono stati sviluppati nelle opere classiche di G. Lukacs, Storia e coscienza di classe, SugarCo, 1997, e di M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, 1966.
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