Alle radici dell’Antropocene
L’Antropocene può essere definito come l’era del pianeta Terra in cui una singola specie (Homo sapiens sapiens) ha preso il sopravvento su tutte le altre e ha tanto rapidamente e radicalmente trasformato l’intera ecosfera da mettere in pericolo la propria stessa esistenza.
di Ernesto Burgio da Antropocene.org
Tra i fattori fondamentali di questa trasformazione vengono in genere indicati: lo sfruttamento sempre più intensivo da parte di Homo sapiens delle risorse energetiche e materiali e delle catene alimentari; la crescita esponenziale della popolazione umana su tutto il pianeta; il conseguente inquinamento e lo stravolgimento dei principali cicli biogeochimici. In questo quadro viene spesso trascurato quello che è l’effetto forse più drammatico: la trasformazione repentina e radicale degli ecosistemi microbici e virali che costituiscono l’essenza della biosfera e che sono i veri motori dell’evoluzione biologica da oltre 4 miliardi di anni.
Una interpretazione difficilmente contestabile è quella secondo cui tutti questi effetti, tra loro interconnessi, sono conseguenza della scelta da parte di Homo sapiens di usare la ragione a fini di dominio e la techné quale strumento fondamentale in tal senso, trascurando o comunque sottovalutando gli effetti che questa scelta avrebbe avuto sull’Altro (sugli altri esseri umani, sugli altri esseri viventi, sul pianeta stesso).
Se riconosciamo in questa scelta l’essenza stessa (anche spirituale, essenzialmente connessa al concetto di Ybris, di superamento dei limiti imposti dalla Natura o dagli dei) dell’Antropocene, possiamo meglio discernere da un lato gli strumenti più potenti introdotti dall’uomo ai fini del dominio, dall’altro gli effetti più negativi e potenzialmente distruttivi del loro utilizzo, che sono sempre più evidenti e potenzialmente irreversibili.
Per quanto concerne le tecnologie che hanno provocato i maggiori danni e che potrebbero provocare (se fuori controllo) effetti catastrofici, è sufficiente citare: l’utilizzo dei combustibili fossili a partire dalla fine del ‘700; l’agricoltura e la zootecnia trasformate in industrie tecnologiche intensive per produrre merci (con tendenza a eliminare i coltivatori); l’utilizzo della chimica in campo agricolo e industriale; la scoperta e l’uso dell’energia nucleare sia in campo industriale che militare; la scoperta e l’utilizzo delle informazioni contenute nel genoma sia umano, sia di altre specie viventi (biotecnologie genetiche); nanotecnologie, informatica, cibernetica, intelligenza artificiale.
Ma quando è cominciato tutto questo e quali sono stati i momenti di massima accelerazione di questa drammatica e rapidissima (su scala evolutiva) trasformazione dell’ecosfera e in particolare della biosfera operata da Homo sapiens ?
Le grandi rivoluzioni ambientali e culturali della storia umana
Alcuni autori hanno indicato come momenti-chiave della rapidissima accelerazione delle strategie di dominio e sfruttamento del pianeta da parte di Homo sapiens due epocali trasformazioni dell’ambiente: la rivoluzione agricola/neolitica di circa 10.000 anni fa e quella industriale e chimica degli ultimi due secoli, che lo hanno progressivamente allontanato dalla Natura, incidendo prepotentemente sugli stessi processi evolutivi e contribuendo alle principali trasformazioni ecologiche ed epidemiologiche della storia. Sarebbe importante studiare a fondo i principali fattori biologici, ecologici, nutrizionali e culturali che possano spiegare in che modo tali drammatiche trasformazioni epocali abbiamo interferito e interferiscano sull’evoluzione di Homo sapiens, il quale sul piano biologico e in particolare genetico rappresenta l’ultimo virgulto di un albero genealogico complesso, quello degli ominidi, appartenente all’ordine dei primati, ma al contempo è diventato qualcosa di radicalmente altro.
Ci limiteremo, in questa sede, a prendere in considerazione le grandi coordinate storiche e concettuali.
La rivoluzione agricola ebbe inizio circa 10-12 mila anni fa, facendo la sua comparsa, probabilmente in modo autonomo, in varie zone del pianeta: dapprima nel Vicino Oriente, poi in Cina e in Centro e Sud America per infine diffondersi nel resto del mondo. Intorno al 2000 a. C. la quasi totalità della nostra specie viveva ormai di agricoltura: un modus vivendi che si sarebbe conservato fino a pochi decenni fa. Solo alla fine del secolo scorso, del resto, il rapporto tra esseri umani viventi in aree rurali e inurbati (spesso in immense megalopoli) è drammaticamente cambiato in favore di questi ultimi. Un cambiamento epocale che ha avuto come causa fondamentale la rivoluzione industriale, che ebbe inizio in Inghilterra alla fine del 18° secolo e che in circa due secoli ha trasformato il pianeta (o piuttosto la crosta terrestre) a causa dell’uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica e dell’utilizzo di combustibili fossili, ma anche e soprattutto della sintesi e dispersione in tutta l’ecosfera (litosfera, atmosfera, idrosfera, biosfera) e nelle catene alimentari di migliaia di molecole potenzialmente tossiche, in quanto prodotte artificialmente e non derivanti da un processo di co-evoluzione molecolare durato miliardi di anni.
La rivoluzione agricola
Il giudizio storico sulla Rivoluzione neolitica è alquanto vario. Se alcuni studiosi vi hanno riconosciuto il vero inizio della civiltà umana, altri non sembrano aver dubbi sul fatto che l’invenzione dell’agricoltura e della zootecnia siano state, almeno dal punto di vista biologico e, in prospettiva, sanitario, per usare le parole del famoso (e invero piuttosto eccentrico) antropologo Jared Diamond “il peggior errore nella storia della specie umana” [1].
Di fronte a valutazioni così differenti, sarebbe importante affrontare la tematica in modo equilibrato, non ideologico e scientificamente fondato. Cominciamo con il sottolineare che probabilmente non si è trattato di un momento di rapida trasformazione, come suggerirebbe il nome. Lo attestano alcuni esempi di compresenza collaborativa tra gruppi di cacciatori-raccoglitori e insediamenti di coltivatori-allevatori. Uno studio recentemente comparso su Science, condotto all’interno di siti archeologici sull’isola di Wright, ha portato, ad esempio, alla luce resti di grano probabilmente coltivato già 2000 anni prima dell’inizio della supposta Rivoluzione neolitica nel nord d’Europa [2].
L’ipotesi più probabile è che la domesticazione di piante e animali ebbe inizio contemporaneamente in molte aree tropicali e subtropicali grazie ai cambiamenti climatici avvenuti tra Pleistocene e Olocene e fu favorita dal progressivo incremento delle temperature e dell’umiditàe dalla presenza in quelle zone di cereali selvatici dotati di alte potenzialità nutritive [3]. In Mesopotamia si iniziò a coltivare grano ed orzo (Hordeum spontaneum) 10-12.000 anni fa; in Cina settentrionale e in Giappone la soia 7-9000 anni fa. Il mais fu domesticato circa 8700 anni fa in Messico dove iniziò anche la coltivazione della zucca (Cucurbita argyrosperma) [4]. I primi insediamenti di agricoltori cominciarono inoltre a costruire villaggi, a fortificarli e a convivere con altri animali via via domesticati.
È probabile, insomma, che il passaggio dalla “caccia e raccolta” all’agricoltura non sia stato sufficientemente approfondito: vi sono prove consistenti che persino la foresta amazzonica sia stata una foresta coltivata e Gary Nabhan, il massimo studioso dell’agricoltura degli indiani americani, nel suo libro The Desert Smells like Rain, riporta che agli europei occorsero due secoli per accorgersi che il Deserto dell’Arizona era stato coltivato.
È comunque evidente che questi “esperimenti” non ebbero effetti immediati né sui singoli individui, né sulle prime popolazioni stanziali, né sugli ecosistemi. Le conseguenze dei cambiamenti nello stile di vita e in particolare del passaggio da una vita nomade e direttamente correlata alle modifiche stagionali ad una stanziale si sarebbero manifestate nella fisiologia degli umani e negli equilibri complessi degli ecosistemi microbico-virali dopo millenni.
D’altro canto bisogna sottolineare che soltanto da un decennio a questa parte siamo in grado di studiare e comprendere il progressivo impatto che questi cambiamenti avrebbero determinato soprattutto sugli ecosistemi microbico-virali interni agli organismi complessi (microbiota) e, di conseguenza, sul loro metabolismo e più in generale sulla loro complessa fisiologia.
È necessario ricordare, a questo proposito, che con il termine microbiota si deve intendere l’insieme degli ecosistemi microbici endogeni presenti negli organismi superiori (il più importante dei quali è quello intestinale). Con il termine microbioma ci si dovrebbe invece riferire all’enorme genoma associato al microbiota stesso e composto da milioni di geni: migliaia di volte più numerosi dei geni self, specie-specifici, e spesso dotati di potenzialità segnaletiche importanti nel controllo delle principali funzioni e persino dello sviluppo degli organismi complessi e in particolare dell’uomo. Un numero sempre più significativo di studi dimostra infine l’importanza del viroma, cioè dei virus associati al microbiota, che sono in grado di svolgere un ruolo importante nel “trasferimento orizzontale” di informazioni genetiche all’interno della biosfera (HGT/Horizontal Gene Trasfering) non solo tra microrganismi, ma probabilmente anche tra gli organismi superiori che li contengono. È anzi probabile che le malattie infettive siano un epifenomeno, dalle conseguenze a volte drammatiche per l’uomo, di questo meccanismo pro-evolutivo fondamentale [5].
Nell’ultimo decennio, grazie all’enorme progresso degli studi omici, si è compreso che i cambiamenti nella composizione del microbioma si sono andati accumulando man mano che gli ominidi si sono andati diversificando e che negli ultimi millenni, proprio a causa dei rapidi cambiamenti di vita, si è registrata una drammatica perdita della bio-diversità microbica ancestrale [6].
In questo contesto vanno interpretati i numerosi studi che documentano l’esistenza di una serie di taxa batterici fondamentali che compongono il nucleo ancestrale del microbiota/microbioma condiviso da tutti i primati, Homo sapiens compreso [7]; dimostrano come il microbiota delle rare popolazioni dedite ancora oggi alla caccia e raccolta, come gli Hadza della Tanzania, presenti una maggiore biodiversità rispetto a quello tipico delle popolazioni moderne e sia essenzialmente composto da microorganismi che permettono di sfruttare l’energia e i nutrienti contenuti nelle fibre vegetali [8]; attestano come il microbiota/microbioma degli odierni americani mostri un tasso di cambiamento enormemente rapido rispetto a quello calcolato sulla base del tempo evolutivo che separa Homo sapiens dalle scimmie antropomorfe ed è più diverso da quelli di molte popolazioni africane (Malawi) di quanto questi ultimi lo siano rispetto a quello degli scimpanzé (bonobo).
Le conseguenze di questa sempre più rapida riduzione di bio-diversità e modifica nella composizione del microbiota/microbioma umano sono state inizialmente associate a disturbi gastrointestinali, obesità e malattie autoimmuni. Poi però ci si è resi conto del fatto che i microrganismi opportunistici “moderni” emergenti sono in grado di innescare risposte dell’immunità adattativa assai diverse da quelle indotte dal set microbiotico ancestrale: un cambiamento rapidamente progressivo che rende il sistema immunitario umano meno tollerogeno e più reattivo, alimentando le attuali “epidemie” di malattie endocrino-metaboliche e immuno-infiammatorie, di disturbi del neurosviluppo e di cancro [9].
A sostegno della lettura critica di Diamond possiamo citare alcuni passi tratti da una recente storia dell’alimentazione umana redatta dall’antropologo Tom Standage: “Perché gli umani siano passati dalla raccolta e dalla caccia all’agricoltura è una delle domande più antiche e complesse della storia umana. Si tratta di un vero mistero, perché quel cambiamento – va detto – peggiorò la vita dell’uomo, e non solo da un punto di vista nutrizionale… Gli antropologi moderni che hanno trascorso del tempo in compagnia di gruppi superstiti di cacciatori-raccoglitori riferiscono che, anche nelle zone più marginali, dove oggi sono costretti a vivere, la raccolta del cibo esige solo una minima parte del loro tempo, e comunque molto meno di quanto ne richieda produrre la medesima quantità di cibo con l’agricoltura. Un tempo si pensava che l’avvento dell’agricoltura avesse dato all’uomo più tempo da dedicare alle attività artistiche, allo sviluppo di nuovi mestieri e tecnologie e così via. Secondo questa tesi l’agricoltura affrancò l’uomo da un angosciante esistenza alla giornata, tipica dei cacciatori raccoglitori. In realtà è vero il contrario. L’agricoltura è più produttiva nel senso che produce più cibo per una data superficie di terra… Ma è meno produttiva se la si misura in base alla quantità di cibo prodotto per un’ora di lavoro. In altre parole, è un’impresa molto più faticosa (e) a quanto sembra i cacciatori raccoglitori erano molto più sani dei primi agricoltori… Gli agricoltori seguono una dieta meno varia e meno bilanciata dei cacciatori-raccoglitori… I cereali forniscono sufficienti calorie, ma non contengono l’intero spettro di nutrienti essenziali. Per questo gli agricoltori erano più bassi dei cacciatori-raccoglitori… e, studiando i reperti ossei, si è scoperto che gli agricoltori soffrivano di varie patologie dovute a malnutrizione, che nei cacciatori-raccoglitori erano rare o assenti, come il rachitismo (carenza di vitamina D), lo scorbuto (carenza di vitamina C), l’anemia da carenza di ferro. Inoltre, la loro dipendenza dai cereali aveva altre conseguenze: gli scheletri femminili spesso mostrano artrite alle giunture e deformità delle dita dei piedi, delle ginocchia e della regione lombare, associate all’uso giornaliero della macchina a mano per ridurre la granella in farina. I resti dentali evidenziano che gli agricoltori soffrivano di carie, disturbo ignoto al cacciatori-raccoglitori, poiché i carboidrati delle diete ricche di cereali venivano ridotti in zuccheri dagli enzimi della saliva durante la masticazione. Anche l’aspettativa di vita, determinabile sempre dallo scheletro, precipitò, secondo i reperti rinvenuti. L’aspettativa media di vita passò da 26 anni per i cacciatori-raccoglitori a 19 per gli agricoltori. Man mano che i gruppi diventavano stanziali e si ingrandivano, aumentava l’incidenza di malnutrizione, malattie parassitarie malattie infettive. Considerati gli svantaggi, perché gli esseri umani si diedero all’agricoltura? La risposta, in sintesi, è che non si accorsero di quel che accadeva se non quando fu troppo tardi.” [10]
Infine, Tom Standage dimostra, con grande dovizia di esempi, come praticamente tutti gli alimenti di cui abbiamo fatto uso in questi 10.000 anni abbiano assai poco di veramente “naturale”, essendo il prodotto di una incalzante “selezione artificiale” e di vere e proprie innovazioni “biotecnologiche” che hanno, in genere, puntato a incrementare la produttività e a rendere più facili i raccolti, fatalmente indebolendo piante e animali e impoverendo, sul piano nutrizionale gli alimenti stessi. Inoltre e soprattutto, l’invenzione della zootecnia, dei primi conglomerati abitativi, dei primi sistemi di irrigazione e il passaggio a una vita più sedentaria avrebbero rapidamente favorito il diffondersi nella nostra specie delle malattie infettive e parassitarie, come lebbra, tubercolosi e malaria. Insomma, le trasformazioni alimentari, degli habitat e degli stili di vita che rappresentarono i primi passi di quella che ancora oggi definiamo la grande civiltà umana, determinarono una trasformazione significativa della biocenosi e soprattutto della micro-biocenosi e, di conseguenza, di quella che il grande storico della medicina Mirko Grmek aveva definito patocenosi [11].
Un’analisi del tutto analoga era stata del resto proposta alcuni anni prima dal già citato Jared Diamond, il quale, ricordando come la stragrande maggioranza delle patologie infettive e parassitarie che hanno funestato negli ultimi millenni la vita dei nostri più immediati progenitori (malaria, tubercolosi, influenza, morbillo…) siano delle zoonosi, le aveva definite uno sgradevole “dono del bestiame” [12]. Si potrebbe anche parlare di una sorta di vendetta, perpetrata dal bestiame contro chi lo aveva imprigionato, asservito e costretto a una vita innaturale e malsana, che avrebbe finito con l’incidere altrettanto negativamente sulla sua salute e persino sulle sue potenzialità evolutive, visto che sembra ormai dimostrato che la gran parte degli animali da noi addomesticati e costretti a una vita innaturale abbiano cervelli più piccoli e sensi meno acuti e siano affetti da tutta una serie di problemi patologici, tutto sommato non molto diversi da quelli di cui anche noi siamo affetti (una chiara e fin qui sottovalutata dimostrazione del fatto che ambiente e stili di vita (epigenetica/nurture) hanno sulla nostra evoluzione biologica (almeno nel breve termine) e quindi sulla nostra salute, effetti maggiori della genetica (nature), come, del resto, dimostra il recente dilagare delle patologie croniche, a partire dalla pandemia di obesità e diabete 2, che colpisce gatti e cani in modo simile ai loro padroni, come conseguenza degli stessi corto-circuiti viziosi (microbico-immuno-infiammatori, endocrino-metabolici e psico-neuro-immuno-endocrini).
In sintesi, la Rivoluzione neolitica fu la prima e fondamentale tappa della trasformazione globale dell’ambiente terrestre operata da Homo sapiens. E avrebbe innescato, come detto in tempi brevissimi sul piano bio-evolutivo, uno stravolgimento progressivo e irreversibile di tutti gli equilibri della biosfera e, in particolare, della micro-bio-sfera, che solo di recente siamo in grado di comprendere e di riconoscere come causa principale della transizione epidemiologica in atto consistente nel rapido aumento di tutte le patologie croniche, endocrino-metaboliche, immuno-infiammatorie, del neurosviluppo, neurodegenerative e tumorali [13].
Tra gli studiosi che hanno invece proposto una valutazione essenzialmente positiva della Rivoluzione neolitica possiamo ricordare il famoso agronomo russo, naturalizzato italiano, Giovanni Haussmann che nel libro La Terra e l’uomo asserì che soltanto i popoli che hanno sfruttato la terra in modo dissennato hanno causato la crisi della propria civiltà, mentre quelli che hanno trovato una simbiosi con la natura hanno mantenuto per millenni e migliorato le loro colture e culture e preservato i loro modi di vivere. Una rappresentazione tesa a sottolineare come la Rivoluzione neolitica avesse potenzialità sia positive che negative e come quest’ultime siano state piuttosto la conseguenza dell’Ybris che ha spinto la nostra specie al superamento dei limiti imposti dalla Natura.
Sembra del resto che solo alcuni tipi di organizzazione e sfruttamento agricolo siano stati veramente devastanti, come dimostrato dal famoso libro di Franklin H. King Farmers for Forty Centuries che mostrò come in Cina i contadini abbiano potuto vivere per 4000 anni sugli stessi terreni senza degradarne la fertilità.
Secondo questi ed altri autori, sostenere che il passaggio all’agricoltura rappresenti l’inizio dell’Antropocene equivarrebbe ad abbracciare la filosofia di alcune grandi associazioni ecologiste secondo cui la Natura dovrebbe essere protetta dall’uomo, la cui presenza è essenzialmente distruttiva. Una visione ideologica che diventa grottesca quando spinge a istituire parchi come quello per le tigri del Bengala e a scacciare le popolazioni che per secoli hanno convissuto con le tigri e le hanno di fatto preservate; o come quello per gli uccelli, istituito dallo Stato dell’Arizona, di cui raccontava Gary Nabhan, dal quale furono allontanate le popolazioni indiane che ci vivevano da secoli (dopo 15 anni un ornitologo vi contò molte meno famiglie di uccelli di una riserva indiana, oltre la frontiera col Messico, dove gli autoctoni erano rimasti indisturbati).
Ed è fuor di dubbio che sussistono piccole popolazioni dedite da secoli a forme di agricoltura assai diverse da quella industriale, caratterizzata da monoculture e bio-distruttiva. Come gli Hunza dell’Indu Kush, a lungo considerati il popolo più sano e forte del pianeta, da cui provenivano i “portatori” delle spedizioni sul Karakorum e sull’Himalaya che hanno ispirato molte diete, come la Bircher Benner.
Un’altra “innovazione” collegata alla domesticazione di altri animali ha avuto un impatto rilevante sulla fisiologia di Homo sapiens. I cacciatori raccoglitori hanno vissuto sulla Terra per un tempo assai più lungo dei nostri antenati più recenti e, al pari dei primati precedenti, non utilizzavano il latte di altre specie animali. L’utilizzo di questo da parte degli agricoltori neolitici ha indotto reazioni fisiopatologiche legate all’intolleranza delle proteine esogene e del lattosio, che sussistono tuttora [14]. Inoltre, nel giro di alcuni millenni, si è venuta a creare una maggior tolleranza al nuovo nutriente, diversa da popolazione a popolazione, con ulteriore e rapido cambiamento del microbiota/microbioma. Ed è sempre più evidente che anche il latte animale più “adattato” non può in alcun modo sostituire per il cucciolo di Homo sapiens quello materno, ricco di anticorpi specifici e di preziosissime cellule staminali e che il ritorno all’allattamento materno esclusivo e prolungato sareebbe un obbligo morale, potenzialmente salvifico per la nostra specie.
Infine, bisogna sottolineare che le selezioni fatte dopo la scoperta delle leggi di Mendel sono cosa completamente diversa da quelle operate dagli antichi contadini che dipendevano dalle piante per la sopravvivenza, che le osservavano giorno dopo giorno, che le modificavano lavorando esclusivamente sul fenotipo, che si trasmettevano intuizioni ed esperienze per generazioni. Per migliaia di anni, in questo modo, la terra è stata teatro di un’incredibile moltiplicazione di biodiversità alimentare: le coltivazioni avvenivano per popolazioni e non per varietà, e le selezioni si facevano per multitasking e non per un carattere solo (il che comprendeva anche caratteri nutrizionali, di gusto, ecc.). Come mostrano le scoperte di Nikolaj Vavilov che individuò, come culle genetiche originarie delle piante, le regioni caratterizzate da maggior variabilità delle stesse. E ancora oggi, sulle Ande, i contadini tradizionali coltivano su piccoli appezzamenti di terra decine di varietà di patate con una ricchezza nutrizionale incredibile. Dopo la scoperta delle leggi di Mendel si è avuta invece un’erosione genetica, quale mai prima nella storia, finalizzata all’aumento delle produzioni commerciabili.
La conseguenza maggiore della Rivoluzione neolitica è stata certamente il drammatico e progressivo incremento demografico, soprattutto là dove la proprietà privata della terra ha ridotto la responsabilità dei coltivatori nelle scelte colturali e nei rapporti con l’ambiente. Uno studio lo ha dimostrato a partire dall’analisi dei genomi mitocondriali: dopo aver separato i lignaggi associati ai cacciatori-raccoglitori e alle popolazioni agricole si è potuto calcolare un tasso di crescita cinque volte superiore in queste ultime in Europa, Asia sudorientale e Africa subsahariana. Le stime dei tempi di crescita della popolazione basate su dati genetici corrispondono inoltre esattamente alle date delle origini dell’agricoltura, derivate da prove archeologiche [15].
Ma la crescita veramente esponenziale della popolazione umana è stata la conseguenza della seconda e certamente più drammatica crisi epocale dell’ecosfera innescata da Homo sapiens: la Rivoluzione industriale e chimica.
La Rivoluzione industriale
La Rivoluzione industriale è stata, al di là di ogni ragionevole dubbio, la seconda tappa epocale della trasformazione ambientale e di conseguenza epidemiologica, operata da Homo sapiens. In genere si distingue tra prima e seconda rivoluzione industriale. La prima rivoluzione industriale riguardò prevalentemente i settori tessile e metallurgico. Il suo arco cronologico è compreso tra 1760 del 1830 e vide l’introduzione delle prime macchine: la spoletta volante (flying shuttle), inventata nel 1733 in Inghilterra al fine di consentire la tessitura automatica e la macchina a vapore introdotta, nella sua forma definitiva, progettata da James Watt, nel 1765. La seconda rivoluzione industriale viene fatta iniziare intorno al 1870, con l’introduzione dell’elettricità, della chimica moderna e dei combustibili fossili (in particolare del petrolio, visto che l’uso esteso del carbone aveva già caratterizzato la prima rivoluzione industriale) [16].
Sussistono pochi dubbi sul fatto che la rivoluzione industriale abbia comportato una trasformazione profonda tanto del sistema economico e produttivo, sociale e politico globale, quanto dell’ecosfera e, in particolare, dell’atmosfera e della biosfera, con ripercussioni a livello biologico e quindi epidemiologico e sanitario, ancora impossibili da valutare (e che gli effetti più drammatici e pericolosi, potenzialmente irreversibili e fin qui enormemente sottovalutati, concernano essenzialmente questo livello).
Semplificando al massimo possiamo dire che, in generale, le valutazioni socio-economiche della Rivoluzione industriale, sono positive. Mentre per le valutazioni di ambito ecologico il discorso cambia radicalmente, soprattutto a partire dai dati concernenti gli effetti globali dell’inquinamento chimico. Riprendendo l’icastica espressione di Jared Diamond, potremmo affermare che la Rivoluzione industriale ha rappresentato “il secondo peggior errore nella storia della specie umana”.
Ma forse, in questo caso, sarebbe più utile per una valutazione complessiva, distinguere tra gli effetti a breve termine, che furono in generale positivi e quelli a medio lungo termine (ambientali, climatici, biologici, ecologici e sanitari) che a questo punto, in assenza di risoluzioni internazionali, radicali e di grande portata, rischiano di essere drammaticamente negativi.
Per meglio inquadrare il problema conviene partire, da un brano interessante. Scrive lo storico dell’economia Antonio Escudero “Non è affatto esagerato asserire che la Rivoluzione industriale abbia costituito il cambiamento economico più importante della storia. All’inizio del 18º secolo la Gran Bretagna e la Francia erano paesi scarsamente popolati. La speranza di vita dei loro abitanti non superava i 30 anni. La maggior parte degli Inglesi e dei Francesi erano contadini. Ogni agricoltore produceva soltanto pochi alimenti. I centri urbani erano piccoli e gli artigiani che vi risiedevano realizzavano una limitata quantità di beni. Accrescendo la produttività del lavoro, la rRvoluzione industriale aumentò la produzione e il consumo pro capite. Da allora la ricchezza dei paesi industrializzati è aumentata più della popolazione. Quest’ultimo fenomeno ha indubbiamente rappresentato il cambiamento economico più importante mai verificatosi nel corso della storia.” [17]. E ancora: “Il tratto più caratteristico delle condizioni demografiche anteriori alla Rivoluzione industriale era l’elevatissima mortalità infantile (in media, ogni 1000 bambini 300 o 400 morivano entro il primo anno di età, mentre oggigiorno nei paesi sviluppati tale cifra è ridotta al 10 o 15 per mille). Nelle società pre-industriali la mortalità raggiungeva livelli catastrofici: in certi anni scompariva il 200-300 per mille della popolazione. Queste impennate della mortalità dipendevano da cattivi raccolti o da epidemie. Era sufficiente qualche anno consecutivo di carestia, perché una popolazione denutrita fosse preda di malattie che la decimavano. La scarsa igiene e il sovraffollamento contribuivano a provocare violente epidemie che la medicina dell’epoca non era in grado di curare.” [18]
Si tratta di una valutazione alquanto positiva e non è certamente un caso che l’autore sia un’economista. Ma è innegabile che i dati citati siano veritieri e che la Rivoluzione industriale contribuì, almeno inizialmente, a risolvere in Europa grandi problemi sociali, economici, demografici e alimentari, permettendo un’enorme sviluppo della civiltà umana, anche sul piano culturale e scientifico. Uno sviluppo dovuto però, in gran parte, all’enorme furto e saccheggio delle risorse, iniziato dal 1500 con la colonizzazione delle Americhe, dell’Africa e di buona parte dell’Asia, che permise l’accumulazione necessaria allo sviluppo del capitalismo industriale e dell’usura sistematica contro la natura e gli strati sociali inferiori e che comportò la morte di milioni di esseri umani che avevano vissuto per secoli in equilibrio simbiotico con la natura, senza problemi di sovra-popolazione o di fame. Come mostra il saggio di Marshall Sahlins L’economia nell’età della pietra.
Inoltre, i possibili effetti veramente dannosi sul piano ecologico, biologico e addirittura bio-evolutivo e sanitario, del rapidissimo e sempre più globale sviluppo industriale, sono emersi soltanto nell’ultimo mezzo secolo e persino tra gli scienziati non tutti sono disposti ad ammettere, come suggerito dal chimico olandese (e premio Nobel) Paul Crutzen, che l’uomo moderno si è andato trasformando in una vera e propria forza tellurica distruttiva. I possibili effetti dell’impatto dell’intero sistema produttivo e commerciale costruito dall’uomo sull’ecosfera e sul clima, sono, almeno in potenza, talmente catastrofici da imporre una valutazione critica degli ultimi due secoli di storia e di quello che molti considerano ancora un modello di sviluppo sostanzialmente positivo [19]. Per tutti questi motivi sarebbe anche importante per i medici e in particolare per gli epidemiologi e i tossicologi (abituati a valutare i rischi e gli effetti dannosi di specifiche sostanze tossiche e/o di particolari situazioni di esposizione individuale e collettiva all’inquinamento ambientale), fare riferimento a una tale rappresentazione storico-ecologica di ampio, amplissimo respiro, per non rischiare di sottovalutare i veri pericoli della trasformazione biologica ed eco-sistemica in atto.
Non dovrebbe essere difficile cogliere l’importanza dell’impatto complessivo che la rapidissima trasformazione ambientale e climatica indotta dall’uomo in pochi decenni (è quasi superfluo ripeterlo: un tempo irrisorio in relazione ai processi bio-evolutivi) potrebbe avere su equilibri biologici, delicati e complessi, formatisi in miliardi di anni nell’ambito della cosiddetta Rete della vita/Web of Life (per usare un’espressione famosa coniata da Fritjof Capra) di cui anche l’uomo fa parte e, di conseguenza, sulla salute umana.
Note
[1] Diamond J Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni. Torino, Einaudi, 1998.
[2] Smith, O., Momber, G., Bates, R., Garwood, P., Fitch, S., Pallen, M., Gaffney, V., Allaby, R. G. (2015). Sedimentary DNA from a submerged site reveals wheat in the British Isles 8000 years ago. Science, 347 (6225), 998-1001.
[3] Gupta, A. K. (2004). Origin of agriculture and domestication of plants and animals linked to early Holocene climate amelioration. Current Science, 87 (1), 54-59.
[5] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4962295/
[6] https://www.pnas.org/doi/full/10.1073/pnas.1419136111
[7] Marchesi JR. Prokaryotic and eukaryotic diversity of the human gut. Adv Appl Microbiol (2010) 72:43–62.
[9] Blaser MJ. The theory of disappearing microbiota and the epidemics of chronic diseases. Nat Rev Immunol. 2017 Jul 27;17(8):461-463.
[10] Standage T. An Edible History of Humanity (2009); trad it. Una storia commestibile dell’umanità, Torino, Codice edizioni, 2010.
[11] Il termine è un neologismo che Grmek aveva ricavato dal concetto di biocenosi, proponendo in pratica la tesi secondo cui tra le malattie presenti in un certo periodo e in un certo territorio esista un equilibrio simile a quello che si viene a determinare tra le varie forme di vita che costituiscono i diversi biomi. Può essere interessante ricordare che per il grande storico della medicina anche l’epidemia di AIDS (ancora una zoonosi) sarebbe stata essenzialmente il prodotto di una crisi patocenotica, provocata oltre che da una serie di sconvolgimenti della società africana e globale, dalla scomparsa di quello che per secoli era stato probabilmente il peggior serial killer della storia umana: il virus del vaiolo, eliminato, speriamo per sempre, dalla meglio riuscita, a tuttoggi, campagna vaccinale organizzata dall’OMS.
[12] Diamond J Armi, acciaio e malattie. Op. cit.
[13] Burgio, E. Environment and Fetal Programming: The origins of some current “pandemics”. J. Pediatr. Neonat. Individ. Med. 2015, 4, e040237
[14] https://bmcecolevol.biomedcentral.com/articles/10.1186/1471-2148-10-89
[15] Gignoux CR, Henn BM, Mountain JL. Rapid, global demographic expansions after the origins of agriculture. Proc Natl Acad Sci U S A. 2011 Apr 12; 108(15): 6044-9.
[16] Talvolta ci si riferisce agli effetti dell’introduzione massiccia dell’elettronica e dell’informatica nell’industria come alla Terza Rivoluzione Industriale, che viene fatta partire dal 1970 (Battilossi S. Le rivoluzioni industriali, Roma, Carocci, 2002)
[17] Escudero A. La rivoluzione industriale, Milano, Fenice (1994) pag. 4
[18] Ibid pag. 12
[19] Crutzen coniò il neologismo Antropocene: la prima era geologica nella quale le attività umane sono state in grado di influenzare la composizione dell’atmosfera e di alterare il suo equilibrio.
Ernesto Burgio
Fonte: La nuova agricoltura contadina. L’alba della rinascita per la Terra, di AA. VV., collana Ecologist italiano, Libreria Editrice Fiorentina, 2022. pag. 110-120
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