Collassi localizzati, debito ecologico e politiche pubbliche
Le inondazioni nel Rio Grande do Sul, una delle zone più ricche e potenti del Brasile, hanno provocato 163 morti, più di 80 persone disperse e 640.000 persone costrette a lasciare le proprie case. Questa dolorosa tragedia servirà da piattaforma latinoamericana per invocare e rivendicare ora più che mai l’enorme debito climatico che i paesi del Nord del mondo hanno nei confronti di quelli del Sud?
di Maristella Svampa, da ECOR Network
È iniziata l’era dei collassi localizzati, abbiamo già scritto di recente, riguardo a questo tema. Non è una bella notizia, anche se credo sia un punto di partenza imprescindibile per poter riflettere e aprirsi ad altri orizzonti futuri. Ecco perché oggi vorrei tornare sul collasso ecologico e sui suoi aspetti attuali: perché il collasso è tra noi, senza che questo significhi che il pianeta finisca da un giorno all’altro o nel breve periodo, in una sorta di black out energetico generalizzato. Senza dubbio, la crisi energetica colpirà gravemente i nostri paesi e le nostre vite, ma si tratta di una crisi a medio termine, anche se alcuni paesi – Cuba, Ecuador, Venezuela e numerosi stati africani, tra gli altri –, per vari motivi sono già colpiti a causa di blackout generali di energia, con le conseguenze che tutto ciò comporta.
Fatta – nel frattempo – questa prima precisazione, siamo sempre più consapevoli di cosa significhi l’accelerazione della crisi climatica nei territori. Ora, oggi, nel breve periodo, mentre gli esseri umani attraversano questi nuovi tempi del Antropocene/Capitalocene post-pandemico, vediamo con chiarezza che subiremo sempre più gli impatti letali dei collassi localizzati, prodotti da eventi catastrofici estremi (e anche da catene di eventi estremi che si rafforzano a vicenda) come forti piogge, inondazioni, siccità, incendi, tornado, forti venti, ondate di caldo e/o freddo, tra gli altri.
E ciò che sta accadendo sul Rio Grande do Sul è senza dubbio un esempio tremendo e devastante di un collasso localizzato: dovrebbe aiutarci a riflettere e interrogarci consapevolmente su quali potrebbero essere le nostre risposte come società di fronte ai disastri climatici. Su questa linea vorrei illustrare alcune idee che ci aiutino a comprendere la sfida che abbiamo di fronte e ci collochino su un livello non solo locale, ma anche multiscala, perché in fondo la crisi climatica è globale ma ha impatti decisamente locali.
La visualizzazione tragica e letale che il Rio Grande do Sul fornisce dei collassi localizzati ci mostra come essi possano essere amplificati e assumere dimensioni su larga scala. Nel caso del Brasile, non si tratta solo di una grande città crollata (Porto Alegre), ma di circa 497 municipi colpiti. Ad oggi si contano più di 163 morti; più di 80 persone disperse; sono oltre 640.000 le persone che si sono viste costrette a lasciare le proprie case, di cui 65.000 che sono ospitate in scuole e palestre. La distruzione non solo continua – perché è tornata la pioggia – ma è incommensurabile, incontenibile e, per milioni di persone che hanno perso tutto o quasi, nulla sarà più come prima. Sono, d’ora in poi, vite compromesse.
In termini alimentari, le perdite sono enormi e possono pesantemente incidere sulla sovranità alimentare del Brasile. Secondo la banca Bradesco, il Rio Grande do Sul contribuisce per il 12,6% al PIL agricolo nazionale. Secondo un rapporto della società statunitense S&P Global, pubblicato il 13 maggio, quasi il 70% del riso brasiliano e il 13% dei latticini provengono da questo stato”, si legge in un recente articolo di Asociated Press. In termini economici, sono stati colpiti i produttori rurali grandi e piccoli, numerose imprese, dalle aziende automobilistiche – con i loro impianti e macchinari –, all’industria della carne. La ricostruzione sarà lenta e richiederà tutta la collaborazione tra i governi regionali e il governo nazionale, guidato dal presidente Lula da Silva.
Ed è qui che risulta opportuno e allo stesso tempo complesso interrogarsi sulle responsabilità politiche e geopolitiche di questo disastro. Primo: in termini geopolitici, non c’è dubbio che quanto accaduto nel Rio Grande do Sul è legato alla crisi climatica, e dovrebbe mettere nell’occhio del ciclone la questione del debito climatico o ecologico, che i paesi del Nord del mondo hanno verso il Sud del mondo. È proprio vero che non solo i Paesi del Nord – Stati Uniti, Europa – e le loro compagnie petrolifere, ma anche le potenze emergenti come la Cina, oggi principale emettitore di Co2 nel mondo, e la Russia, prima potenza esportatrice (mettiamola nella categoria geopolitica più adatta), sono i maggiori inquinatori della nostra atmosfera. Non solo hanno creato le condizioni dell’attuale crisi climatica, come la conosciamo oggi, ma hanno sistematicamente declinato le loro responsabilità a livello internazionale per il debito ecologico che hanno nei confronti dei paesi più poveri e periferici, che oltre a non essere responsabili dell’inquinamento, sono quelli che oggi soffrono maggiormente i molteplici impatti del cambiamento climatico, sotto la forma di eventi estremi. Ad esempio, la regione latinoamericana è responsabile solo dell’8% delle emissioni di CO2 a livello mondiale e l’Africa sfiora appena il 3%.
Per completare i riverberi del modello imperiale sul debito ecologico, risulta che sono proprio i paesi centrali che decidono “prestiti” e “aiuti”, oltre che le modalità di attuazione attraverso gli organismi internazionali, nei confronti dei paesi del sud colpiti da collassi localizzati, per cercare di ricostruire le loro società ed economie – sempre “vulnerabili” – aumentando così l’odioso debito estero. Pertanto, nel pieno della crisi climatica, il circolo perverso tra debito ecologico e debito estero entra in una sorta di riproduzione allargata.
Prima conclusione, quindi: nell’era dei collassi ambientali localizzati, il debito ecologico e il debito estero necessitano urgentemente di essere rivisitati con nuove proposte internazionaliste dal Sud del mondo. Questo nodo gordiano deve essere tagliato prima che sia troppo tardi. Non stiamo neanche parlando di transizione socio-ecologica, ma di adattamento alla crisi climatica. E non vi è alcuna possibilità di pensare a risposte efficaci e su larga scala alla crisi climatica dalla periferia globale, se non inserendo il debito climatico ed estero al centro delle nostre agende pubbliche.
Secondo. Vale la pena chiedersi: i nostri paesi sono completamente innocenti di fronte alla gravità dei collassi localizzati, associati alla disperata crisi climatica? Ci trasciniamo dietro una lunga storia di estrattivismo, prodotto del nostro inserimento nel sistema di divisione internazionale del lavoro. Abbiamo scritto molto su questo. Come sostengono F. Cantamutto e M. Schoor, ciò ha dato origine a un “mandato di esportazione” che costringe le nostre economie a diventare esportatrici di commodities o prodotti primari. Tuttavia, come dicevano negli anni ’70 i teorici della “Teoria della Dipendenza”, la dipendenza ha un “fuori” (il dominio esterno) ma anche un “dentro” (élites complici e un sistema di relazioni di potere politico ed economico).
La deforestazione dell’Amazzonia combinata con il cambiamento climatico globale ha conseguenze assai devastanti. Allo stesso modo, a livello regionale, i cambiamenti dell’uso del territorio e l’espansione della frontiera dell’agrobusiness sono tra le ragioni principali del disastro. Tra il 1985 e il 2022, il Rio Grande do Sul, uno dei centri dell’attività di coltivazione della soia nel paese, ha perso 3,6 milioni di ettari di vegetazione autoctona, ovverosia il 22%, secondo una rete guidata da Eduardo Vélez, MapBiomas, un consorzio climatico di ONG e università brasiliane. Ciò ha avuto la sua punta più alta nel contesto del governo Bolsonaro e nei periodi seguenti. Ad esempio, il Rio Grande do Sul è una regione governata da settori estremisti – non tutti bolsonaristi – che negano il cambiamento climatico. Sappiamo che dal 2019 si è avuto un aggressivo smantellamento delle politiche ambientali da parte del governatore Eduardo Leite, dell’opzione di centro-destra PSDB, per favorire i signori dell’agrobusiness, tra cui grandi imprenditori latifondisti. Sappiamo anche che questo non è stato il primo alluvione, ma il quarto in meno di un anno, dopo quelli di luglio, settembre e novembre 2023, che hanno causato la morte di 75 persone. Alla fine, l’attuale governatore è stato messo in guardia: il deputato locale Adão Pretto Filho, del Partito dei Lavoratori (PT), ha dichiarato che a suo avviso “le gravi inondazioni che hanno colpito il Rio Grande do Sul avrebbero potuto essere evitate o avere avuto un impatto minore se il governo locale non avesse ignorato un rapporto preparato dalla Commissione di Rappresentanza Esterna dell’Assemblea Legislativa del Rio Grande do Sul, completato nell’agosto 2023, documento che presentava diverse proposte per combattere gli effetti del cambiamento climatico in diversi comuni dello stato”.
Seconda conclusione, quindi: al momento attuale, chi guarda fa finta di niente e crede che la crisi climatica sia dissociata dall’estrattivismo, in particolare dall’espansione della frontiera petrolifera (ora dal fracking), così come dal disboscamento di milioni di ettari di boschi e i cambi d’uso del suolo a favore dell’agrobusiness, non solo agiscono in malafede o sfoggiano un cinismo dalle gambe corte, ma contribuiscono anche a dare impulso all’ecocidio in fieri. Più semplicemente: considerando i danni enormi e a lungo termine causati dai collassi localizzati, l’associazione tra crisi climatica ed estrattivismo assume ormai conseguenze di tipo criminale.
Eppure vediamo che l’estrattivismo sta trovando uno slancio sempre maggiore. In Argentina, se verrà approvato il RIGI (Regime di Incentivazione dei Grandi Investimenti), incluso nella Ley Bases, il pacchetto di riforme che il Senato ha tra le sue mani, si favorirà un estrattivismo intensificato in tutte le sue manifestazioni, attraverso la transnazionalizzazione e la concessione di privilegi all’industria mineraria e alle compagnie petrolifere che, tra le altre cose, avranno più diritti sull’acqua di qualsiasi cittadino comune. Con l’approvazione del RIGI, la nostra domanda non sarà più quali strumenti pubblici abbiamo per affrontare la crisi climatica – perché non ce ne saranno, non saranno disponibili – ma piuttosto quale sarà il prossimo collasso localizzato nel paese della “libertà individuale” e del si salvi chi può.
Una riflessione finale. Tutto indica che i collassi localizzati si moltiplicheranno, colpendo intere città e regioni, proprio come è accaduto e continua ad accadere nel Rio Grande do Sul, una delle zone più ricche e potenti del Brasile. Tuttavia, in tempi di memoria corta, l’oblio inghiotte tutto velocemente. Nel settembre 2023 si è verificato un collasso localizzato in Libia. Le forti piogge della tempesta mediterranea Daniel causarono inondazioni mortali nella parte orientale del paese e due dighe strariparono. Un muro d’acqua alto diversi metri devastò la città costiera di Derna, uccidendo più di 11.000 persone. La costernazione internazionale fu grande. Per giorni e giorni il mare restituì fango e cadaveri. Oggi nessuno ricorda cosa è successo in Libia, non appare più sui siti di news. Ma quando i riflettori si spengono e i media smettono di guardare, nel buio il disastro persiste, amplificato dalla normalizzazione della catastrofe.
Speriamo che quanto accaduto nel Rio Grande do Sul non passi come fosse nulla sotto l’occhio miope della dimenticanza e del tempo accelerato. E che questa dolorosa tragedia sia la piattaforma latinoamericana per invocare e rivendicare ora più che mai l’enorme debito climatico che i paesi del Nord del mondo hanno nei confronti di quelli del Sud, così da mettere in discussione il criminale negazionismo climatico che si diffonde oggi nei nostri paesi, ad opera dei settori di destra e di estrema destra. È urgente prendere coscienza che viviamo in un pianeta danneggiato e che quindi il nostro obiettivo deve essere quello di proteggere da danni maggiori tutto ciò che esiste, con ogni energia individuale e solidarietà collettiva: vite umane e non umane, territori, ecosistemi e beni. Il nostro attuale imperativo è ripensare i modelli di sviluppo e impostare politiche pubbliche con uno Stato presente (uno Stato ecosociale), per rendere quei modelli sostenibili per la vita.
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