Big Data, nuova frontiera del profitto e dell’innovazione
Per questo Confindustria parla chiaro rispetto ai Big Data. Attraverso “Il Sole 24 Ore”, a più riprese, ne sottolinea l’enorme potenziale economico e caldeggia l’apertura dei database delle varie agenzie della pubblica amministrazione. Perché tutto questo interesse per i Big Data?
Fino ad ora nei movimenti ne abbiamo parlato in termini di protezione dei dati evidenziando i rischi per la privacy degli utenti, i possibili usi repressivi sugli attivisti oppure per costruire profili degli utenti del web da bombardare con messaggi pubblicitari mirati. Molte altre applicazioni esistono – già operative o ancora potenziali – su di una scala molto maggiore: non quella dei singoli utenti, ma quella di intere popolazioni. L’impiego dei Big Data permette, per esempio, di prevedere la diffusione delle epidemie, di studiare dinamiche sociali complesse, di prevedere l’andamento delle borse, di confezionare mutui e strumenti finanziari con sempre minori rischi – per le banche – o di direzionare gli investimenti e la produzione di grandi aziende. Ovviamente i governi e i loro apparati – su tutti, la CIA e Israele – li utilizzano (ancora con esiti incerti viste le grandi rivolte degli ultimi anni) per sondare il malcontento e neutralizzare ogni possibile sollevazione – in qualche caso cercando di sviluppare veri e propri modelli per “predire il futuro” a partire dall’analisi di queste grandi moli di dati.
Fino ad oggi in questo settore di ricerca applicanda – che non per caso è in forte espansione negli ultimi anni – ci si è mossi in ordine abbastanza sparso e, soprattutto negli istituti pubblici, con un modo quasi artigianale di lavoro (lo stesso ricercatore o gruppo di ricerca si occupa di reperire i dati, sgrezzarli e quindi analizzarli), l’appello che traspare da parte de “Il Sole 24 Ore” è quello di sviluppare standard qualitativi per i dati e procedure per il loro studio in modo da poterne fare un uso estensivo e su scala “industriale”.
Quindi in generale sono diversi gli interessi nell’applicazione delle analisi sui Big Data. La disponibilità di informazioni e modelli permetterà a chi riveste ruoli dirigenziali di operare scelte sempre più efficaci per gli investimenti di capitale, ma anche per tagli e riorganizzazioni nelle filiere produttive o nei servizi. Probabilmente spostando ancora qualche gradino più su nella gerarchia sociale l’asticella dei ruoli che potranno agire – parzialmente – al di sopra di standard e procedure dettate dalla razionalità tecno-scientifica. Ma non è tutto qua.
L’innovazione, che cavalca naturalmente le scoperte scientifiche, va nella direzione di rendere ancora più efficace l’estrazione di valore dall’agire umano, di ridurre gli sprechi (scuola pubblica? Sanità pubblica e gratuita? Tempo libero? Decidete voi…) e di rafforzare sempre di più il dominio della mega-macchina sociale del capitalismo finanziario. Se Taylor agli inizi del secolo scorso ha studiato le azioni degli operai per organizzarle scientificamente e rendere estremamente disciplinato e potente il lavoro di fabbrica – almeno quanto ne ha sviluppato la faccia alienante ed impoverente –, oggi le applicazioni nel campo dei Big Data possono porsi lo stesso obbiettivo (in tendenza) per quanto riguarda la sfera complessiva della vita sulla Terra.
L’innovazione procede ritagliata sui fini di dominio, accumulazione e comando del sistema capitalistico, ma conserva sempre – a volte residuale e ben nascosta – un’ambivalenza da sfruttare contro. Niente, però, nasce spontaneamente e questa ambivalenza si può sfruttare solo laddove ce ne sia consapevolezza socialmente diffusa e l’impegno soggettivo – in particolare da chi è messo a lavoro in quest’ambito! – per il suo potenziamento, per fini antagonisti a quelli capitalistici.
Perciò questo non vuole essere un annuncio catastrofista sulle sorti dell’umanità, ma per quanto possibile in una veloce paginetta, probabilmente non priva di imprecisioni, vogliamo porre un problema (non siamo i primi, né gli ultimi) riguardante la sfera tecno-scientifica che da molto tempo i movimenti hanno piuttosto trascurato come campo di produzione di discorso e di lotta.
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