Campi mediali, le linee di frattura e lo scontro possibile
In primo luogo siamo ancora all’interno di un momento di generale riflusso (con alcune spinte in controtendenza che arrivano dalla Francia e dalla continuità dell’esperienza del Rojava) dopo la potente ondata sovversiva apertasi tra il 2010 e il 2011, prima risposta di parte al nuovo governo globale del capitalismo/crisi. Un secondo fattore di contestualizzazione nazionale è quello della lunga transizione verso la Terza Repubblica: dopo il ventennio berlusconiano e la forzatura per la sua chiusura praticata col governo Monti, il sistema-Renzi ha finora funzionato come tappo alla conflittualità e come catalizzatore di un nuovo immaginario sociale, per quanto oggi si possano intravedere le prime crepe di quell’opzione derivanti dalla strutturalità della crisi. La terza variabile è legata alle soggettività politiche.
Alla fine della sinistra istituzionale e alla transizione alla Terza Repubblica in qualche misura corrisponde anche l’incapacità ad oggi di ri-baricentrare le forme di aggregazione sociale e politica nei contesti “di movimento” su terreni di lotta e sviluppando discorsi, progetti e pratiche all’altezza del contesto.
Il tutto all’interno di numerose correnti tensionali che stanno rapidamente modificando le forme antropologiche e relazionali, sociali e politiche, laddove la crescente connessione diviene paradigma di governo. Mutano le geografie politiche e le forme della messa a valore, si scompongono equilibri e assetti che apparivano consolidati, emergenze ed eccezioni si definiscono come costanti.
Sommariamente tratteggiato, all’interno di questo scenario si pone una serie di domande: come accumulare forza, radicamento, autorevolezza sociale, capacità di scontro, coinvolgimento una soggettività antagonista? Dove e come si possono produrre accelerazioni, rotture, salti? Come divenire forza politica e sociale non evocata ma reale? Ci lasciamo alle spalle uno degli autunni e inverni più glaciali di sempre dal punto di vista delle lotte e del conflitto. Questo conduce, all’interno dei ceti politici, talvolta a smarrimento, all’opportunistico ingresso nelle sfere istituzionali, o alla ricerca di improbabili scorciatoie solipsistiche.
Eppure un punto di vista rivoluzionario non può che affrontare momenti duri come quello attuale con ancora più lucidità e determinazione delle fasi di alta. La tessitura paziente di pratiche organizzative negli ambiti sociali con potenziali di mobilitazione, l’ascolto delle vibrazioni di rabbia nei quartieri, fiutare le potenzialità di torsione di pulsioni diffuse, attivare nel segno dello scontro e dell’incompatibilità la piazza quando possibile, sviluppare presenza e punti di riferimento negli ambienti metropolitani… Tutte attitudini di una linea di condotta militante autonoma che si deve porre almeno sul terreno minimo di scalfire i livelli di potere alla proprio portata.
Degli innumerevoli fili discorsivi che si possono estrapolare da questo tessuto di considerazioni interessa qui portarne in luce in particolare uno, quello legato al riverbero che la dimensione mediale produce su questa serie di problemi e possibilità. Il rapporto tra pratica politica autonoma e potere mediale è infatti una delle costanti che una riflessione politica all’altezza del presente deve porsi nonché una delle cartine di tornasole di potenzialità e limiti di un agire soggettivo.
Il nodo cruciale per considerare questi temi ruota attorno a quale domanda e ricerca di fondo si pongono i soggetti nell’impostare il proprio agire comunicativo. L’irruzione nel campo mediale può determinarsi in molteplici modalità e direzioni, che per semplificare è possibile ricondurre da un lato a una contesa sulla produzione di significato dell’iniziativa politica e dell’altro nell’assumere implicitamente l’impossibilità della contesa, delegando dunque la produzione di significato. Nel primo caso si articolano dunque strategie che pongono al centro soggettività sociali, lotte e conflitti, con l’ottica di contro-utilizzo del campo nemico comunicativo per produrre allargamento dell’istanza di lotta, aggregazione e provocazione antagonista all’iniziativa. Nel secondo caso si assiste a gestualità spettacolarizzanti che a un’ipotesi di autonomia sostituiscono l’adorazione alla riproduzione tecnica più o meno virale della propria immagine riflessa.
L’azione esplicita sul mediale, presupponendo come suo fine la diffusione di un messaggio, di una parola d’ordine, di una prospettiva politica deve allora essere considerata – rispetto all’approccio da avere verso di essa – alla stregua di come chi si batte quotidianamente, con difficoltà, nei territori considera ogni sua pratica politica: orientata al terreno della riproduzione di pratiche di conflitto da parte di parti più ampie, o di intensità politica maggiore della composizione sociale.
Per fare questo, l’azione mediale va sempre pensata all’interno della contingenza materiale dei rapporti di forza tra le varie soggettività in campo: in poche parole essere consapevoli dei livelli di realtà esistenti, evitando di scambiare quelli che ci piacerebbe esistessero e quelli che esistono realmente. Fare inchiesta significa anche stare dentro questi rapporti, comprendendo quale passaggio può realmente modificare la situazione e quale invece purtroppo, passate due orette di dibattito su Facebook, lascia sul terreno un avanzamento nullo dal punto dello sviluppo della conflittualità e al massimo una manciata di like.
La grande problematica sta nello iato esistente tra il parlare ed essere parlati: l’azione a livello spettacolare, se agita da qualunque tipo di soggettività che non possiede il controllo tecnico complessivo dell’infrastruttura mediale, o è in grado di agire da megafono di un percorso di conflitto sociale reale, dandogli voce e amplificando spazi politici, oppure se agita in maniera onanistica e slegata da un radicamento reale rischia solamente di offrire nuovi possibilità di dominio e restringimento di spazio politico alla controparte, poiché come riferimento ed interlocutore non ha la soggettività sociale agente ma solamente il media.
Peccato che la controparte sia abilissima, per esperienza decennale, a comprendere come possa essere facile utilizzare la risonanza di un evento spettacolare per agirlo contro movimentazioni sociali, considerando queste ultime decisamente più pericolose in termini di riproduzione della pace sociale e quindi bersaglio da attaccare con ogni mezzo necessario. Non comprendere tutto questo diventa segnale o di totale incapacità di azione in quell’ambito, o ancora più grave di un suo cosciente uso.
Il terreno mediale può essere impattato e agito dalle soggettività politiche in questa fase all’interno di un piano orientato alla produzione delle condizioni di possibilità affinché possano affacciarsi ipotesi di movimento e di composizione sociale. Pur nella esiguità di iniziativa antagonista, una sequenza di indicatori mostrano come il governo Renzi e l’attuale governance temano le incrinature che stanno iniziando ad affacciarsi, e siano consapevoli che proprio sul terreno dell’immagine inscalfibile elaborata dai media si possano invece aprire panorami di crisi per il governo.
Le contestazioni che comunicano rabbia e partecipazione sono un esempio di come agire un potenziale di rottura, rompendo quella forma di vita neoliberale che nella solitudine imposta a paradigma di ogni momento di vissuto governa la società, costruendo nella cooperazione sociale pratiche di autonomia e di rivendicazione di un Noi antagonista all’esistente. Tuttavia il terreno mediale può anche essere espressione dell’autismo dei soggetti politici, che lo attraversano come una palude e ne fanno in fondo l’unico spazio del proprio agire. E’ qui che, al di là delle frequenti scodellate di ermeneutica post-trontiana, si misura dove le ricerche sul “noi” militante scivolano rapidamente nella ricerca di una semplice identità sull’”io” e annessa contemplazione dell’ombelico.
Il tema della comunicazione può dunque porsi come terreno problematico di lotta politica indirizzato alla produzione di movimento o come arena per la risonanza del proprio narcisismo. In entrambi i casi stiamo parlando di una riflessione soggettivamente orientata alla produzione di effetti volontari sul mutamento del reale, dunque di avanguardia. Ma laddove nel primo caso ciò che muove l’azione è l’urgenza di aprire spazi di movimentazione, sollecitando contesti sociali e ipotesi di lotta, e quando possibile aumento dei rapporti di forza nello scontro, nel secondo caso c’è un’avanguardia che sostanzialmente muove nel terreno solitario del simbolico, e non cerca nemmeno più l’essere traino per i soggetti sociali ma si adegua alla proprio irrilevanza. I gesti effimeri che in questo secondo caso si gettano nell’arena mediale sono in fondo semplici merci da vendere al mercato mediale, dove la merce prodotta è il simulacro del proprio sé che si produce contro le possibilità di attivazione di massa.
L’egemonia diviene sciocca contesa di visibilità individuale per queste vittime politiche del 2.0 che nel manifestare la propria irrilevanza immettono il loro prodotto mediatico nel rumore di fondo della rete, regalando a Zuckerberg un paio di dollari. Abbiamo un problema di “comunicazione”, che non si scioglie in improbabili ricerche di identità, di un Noi fittizio tutto virtuale. Quanto piuttosto si possono abbozzare campi politici a partire dalla costruzione di un Loro, di una inimicizia, contro cui fondare un “noi” di carne e ossa capace di autonomia e forza antagonista e non già di passiva autocontemplazione.
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